In molti paesi europei i comunisti e le sinistre antiliberiste, con formule organizzative differenti, crescono nel consenso e tra i movimenti rompendo con i partiti di governo del PSE, puntelli principali delle politiche di UE e BCE. La crisi economica del capitalismo e il basso livello di credibilità dell’attuale sistema economico-sociale potrebbero essere un’occasione per i comunisti per invertire il processo di marginalizzazione anche nel nostro paese. Ma la coazione a ripetere di formule fallimentari e escamotage organizzativistici rischia di portare i comunisti a un’autoconsunzione.
di Andrea Fioretti
In diversi paesi (Grecia, Portogallo, Spagna) le politiche di massacro sociale in nome dell’austerity imposte dalla Troika hanno provocato in questi anni una resistenza sociale diffusa e dei veri e propri terremoti politici. In questi paesi i comunisti e le sinistre antiliberiste, pur con differenti formule organizzative, crescono nel consenso e tra i movimenti perché hanno rotto chiaramente con i partiti di governo del PSE che in tutti questi paesi sono tra i puntelli principali delle politiche di UE e BCE, riuscendo così a contestare alle destre populiste e reazionarie l’egemonia sul malcontento popolare.
Questa rottura della subalternità alle forze social-democratiche e social-liberiste, rappresentanti di precisi interessi capitalistici nazionali ed europei, sembra il minimo comune denominatore di queste differenti esperienze delle sinistre alternative nei paesi della UE. Non sono quindi le formule organizzative, assai differenti tra loro, a far crescere queste realtà politiche nei propri paesi ma la chiarezza della loro prospettiva in rottura con le due versioni di gestione della crisi del “monopartitismo competitivo” rappresentato dalle forze del PPE e del PSE, alleate tra loro in governi della larghe intese e di unità nazionale laddove il loro consenso non si dimostra sufficiente per imporre le controriforme padronali.
Tutto questo avviene in un contesto internazionale di crisi organica del capitalismo non risolvibile con semplici palliativi di sostegno al consumo, qualche briciola di redistribuzione o con l’illusione di poter “temperare” il neo-liberismo o “democratizzare” istituzioni anti-democratiche non elette e che sono espressioni degli interessi sovranazionali di settori del capitale finanziario, quali BCE e Commissione Europea. Dentro questo solco, i governi dei paesi della UE (soprattutto quelli più deboli, i cosiddetti PIIGS) stanno procedendo spediti nel loro programma di smantellamento dei diritti e del welfare, di attacco ai salari, concessione al padronato della mano libera sulla manodopera flessibile e precaria e di limitazione della democrazia alla funzione di servizio alle esigenze del grande capitale. Con il ricatto del debito si sta procedendo a un ulteriore gigantesco spostamento coatto di ricchezza dal lavoro al capitale per tamponare gli effetti della crisi e il restringimento dei profitti.
Anche nel nostro paese abbiamo il segno di queste politiche con un tentativo di alimentare la passivizzazione, la sfiducia e la guerra tra poveri nei diversi settori del complesso corpo sociale salariato per renderlo “informe” e docile alle esigenze del capitalismo. Il livello di consenso alle politiche di austerity, così come la fiducia nella UE e nell’euro, sono ai minimi storici. Tuttavia gli errori passati col sostegno ai governi di centrosinistra, la mancanza di coraggio nel segnare delle rotture all’altezza dei tempi e dello scontro di classe oggi, l’assenza di un protagonismo forte nei conflitti da parte dei comunisti e della sinistra anticapitalista, lascia nel nostro paese questi enormi spazi di opposizione a ipotesi populiste e reazionarie (vedi recente dialogo tra Casa Pound e la Lega) o al rifiuto della politica tout court come dimostrano i livelli altissimi di astensionismo nelle ultime tornate elettorali o i successi degli ultimi anni del M5S.
I governi delle larghe intese di Renzi, di Monti e di Letta (anticipati dalla lettera Draghi-Trichet dell’agosto 2011 e imposti da Napolitano) non sono né “tecnici” né provvisori, ma sono esecutivi apertamente politici a favore degli interessi del capitalismo monopolistico e finanziario nostrano ed internazionale. Stanno ponendo le basi costituenti di una nuova fase, da molti chiamata ormai della “terza repubblica”, in cui molti dei punti eversivi della P2 dettano la linea programmatica per i governi futuri ai quali il PD si candida come uno dei puntelli strutturali e non accidentali. Non è un caso che i più entusiasti sostenitori delle manovre di Renzi siano i rappresentanti di Confindustria, Marchionne e Farinetti. E non è un caso nemmeno che il PD nasca dallo strappo veltroniano per “americanizzare” il sistema bipolare italiano tagliando i ponti con le forze della sinistra radicale e imponendo alla CGIL l’abbandono persino della nefasta concertazione per costituire con CISL e UIL un sindacalismo di regime. Un’unità sindacale collusa e neo-corporativa, subordinata alla difesa dell’economia e che abbandoni qualsiasi difesa dei diritti dei lavoratori come oggetto sociale. Un progetto che oggi sconta una battuta d’arresto per la ripresa di una certa conflittualità sociale e sindacale contro le manovre del governo.
Insomma, Renzi e il renzismo vanno visti come un “parto naturale” nella storia del PD e non come un “incidente di percorso” per la sua presunta natura social-democratica, scomparsa da anni in quel gruppo dirigente e ormai affidata agli innocui “pen-ultimatum” dei vari Civati e Cuperlo.
Un discorso più serio va ormai fatto anche sulle amministrazioni locali visto che, come è noto dalle cronache, sono diventate il terreno privilegiato della corruzione politica e che spesso si sente ripetere che qui la possibilità di “incidere” è maggiore e che quindi un rapporto di alleanza col PD non va escluso. Senza guardare al passato, quando la partecipazione dei comunisti alle amministrazioni di centrosinistra era una prassi, recentemente nelle ultime elezioni regionali in Calabria e Emilia abbiamo visto le forze che alle europee avevano sostenuto la Lista Tsipras dividersi tra alleati del PD (SEL, in Calabria insieme anche al PdCI) e alternativi (PRC e le altre forze de L’Altra Europa). E non sfuggono le tentazioni che attraversano proprio in questi giorni persino il PRC nel sostenere alle primarie del PD Casson come candidato sindaco a Venezia o Cofferati per la Regione Liguria.
Il Governo Renzi nella sua opera di manomissione della Costituzione, insieme alla sua proposta di riforma del Senato, sta intervenendo anche sul ruolo delle istituzioni locali. In particolare su quelle regionali con un nuovo progetto di riforma del Titolo V che toglierebbe alle Regioni molte funzioni peculiari riportandole sotto un controllo statale vincolato dai diktat europei e dai suoi organismi di controllo non eletti. Questo mentre la natura degli Enti Locali è già stata modificata con la conversione del DL 174/2012 che sottopone a una stretta la loro gestione finanziaria con l’introduzione (pena tagli ai finanziamenti e incandidabilità degli amministratori locali disobbedienti!) dell’obiettivo esplicito della garanzia del rispetto dei vincoli finanziari derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla UE. Un modello di controllo sui bilanci preventivi e sui rendiconti consuntivi delle amministrazioni locali per imporre il rispetto degli obiettivi annuali posti dal patto di stabilità interno, dell’osservanza dei vincoli costituzionali (pareggio di bilancio e Fiscal Compact) e della “sostenibilità” dell’indebitamento.
Come è possibile incidere quindi a livello locale se non con un programma di alternativa che parta dalla rottura di questi vincoli per imporre almeno una redistribuzione verso il basso alle classi subalterne? Ovviamente non in alleanza col PD che di quei vincoli si è fatto difensore e maggior sostenitore!
Un programma realmente di alternativa, infatti, deve saper configurare nello scontro di classe oggi i passaggi di lotta immediati per una prospettiva anticapitalista. Ossia agire nei rapporti di forza attuali, sfavorevoli alle classi subalterne, per rilanciare la prospettiva di un’uscita da sinistra dalla crisi capitalistica che non può che essere l’uscita dal capitalismo stesso. Un problema non di poco conto, complesso, ma non risolvibile con un nuovo soggetto-contenitore elettorale. L’illusione di consegnare questo ruolo a una soggettività non in grado di saper interpretare l’insoddisfazione precaria giovanile o la resistenza dei lavoratori delle aziende in crisi, senza radicamento sociale e senza una vocazione conflittuale, che non fa i conti definitivamente con la natura di classe del PD è destinata a evaporare in poco tempo e a produrre nuova delusione e disillusione tra i militanti e il popolo della sinistra.
Parlare del rilancio del ruolo dei comunisti, di quali alleanze, soggetti, coalizioni, poli senza tenere in considerazione questi elementi rischia di essere un mero esercizio di stile. La crisi economica del capitalismo, il basso livello di credibilità dell’attuale sistema economico-sociale e gli attuali stravolgimenti politici potrebbero essere anche un’occasione per i comunisti per invertire il processo di marginalizzazione in cui sono costretti. Ma la coazione a ripetere di formule già sperimentate e fallimentari, di ricerca delle soluzioni a problemi così complessi con escamotage organizzativistici o improvvisando soggetti politico-elettorali, rischia di portare i comunisti a un’autoconsunzione piuttosto che a una vera sconfitta nello scontro di classe.