Parafrasando Winston Churchill si potrebbe dire, a proposito degli indipendentisti catalani di sinistra: “Tra indipendenza e socialismo avete scelto la prima. Non l’otterrete e non avrete il secondo”.
I risultati elettorali delle elezioni regionali catalane del 21 dicembre mi pare si possa dire abbiano pienamente confermato i dubbi e le cautele in materia di indipendentismo e sinistra di classe. La Cup, Candidatura di Unità Popolare, quasi dimezza il suo capitale di consensi tra il 2015 e oggi, perdendo il 3,5% dei voti; mentre la sinistra non indipendentista della sindaca Ada Colau, CatComu-Podem perde anch’essa seggi nel parlamento di Barcellona. Il risultato non può rendere felici, ma spinge a comprenderne le ragioni.
L’indipendentismo e le sue radici di classe: al sud e al nord del mondo
Dietro i partiti ci sono sempre degli attori più concreti, solidi e meno formali, costituiti dalle classi sociali, dagli uomini e donne che le compongono e dai loro interessi materiali, dalle loro aspirazioni e prospettive. La regola vale anche per i processi di costruzione di uno Stato indipendente. A questo proposito diviene di fondamentale importanza la collocazione sulla cartina mondiale del processo di indipendenza di una nazione dall’altra. Ovviamente, non per un criterio meramente geografico, ma per la sua disposizione nell’arco della catena internazionale della divisione del lavoro.
Così appaiono diversi i processi di liberazione nazionale avvenuti in America Latina o nel mondo arabo (Cuba, Algeria, Egitto solo per fare alcuni esempi) da quelli che si stanno producendo attualmente nel cuore dell’Europa (Catalogna, Scozia, Belgio). Nel primo caso, i processi rivoluzionari che portarono alla creazione di stati indipendenti videro tra le forze protagoniste anche le borghesie nazionali: nel caso del mondo arabo, dove si era in assenza di una forte classe operaia, queste forze espressero anche la direzione dei movimenti di liberazione. Ma nei paesi in questione la liberazione nazionale coincideva con la crescita delle forze produttive industriali, fino ad allora compresse e sacrificate sull’altare degli interessi dell’industria della metropoli coloniale o neocoloniale. Si trattava, pertanto, da un punto di vista marxista, di borghesie che avevano un oggettivo ruolo progressivo.
Di tutt’altro segno, invece, la natura e il ruolo che la borghesia (soprattutto la piccola borghesia) gioca negli attuali movimenti indipendentisti nei paesi imperialisti, ovvero nei paesi pienamente maturi dell’area capitalista. Qui non ci sono forze produttive da liberare, c’è soltanto l’effetto disgregatore sulle rispettive società delle politiche liberiste applicate dall’Unione Europea, con il loro mix letale di tagli alla spesa pubblica, aumento dello sfruttamento e della precarietà del lavoro e tensione degli apparati produttivi all’aumento delle esportazioni. In queste aree, contraddistinte da una storia e da una cultura relativamente autonome, la piccola borghesia è in enorme difficoltà: le sue micro-imprese non reggono il confronto con i grandi colossi multinazionali della produzione e soprattutto della distribuzione, si chiudono i battenti e la minaccia della proletarizzazione si staglia ben chiara dinanzi agli occhi di commercianti, piccoli imprenditori, politici regionali di professione.
Il proletariato, che non ha una precisa coscienza del suo ruolo e della sua importanza, subisce pesantemente gli effetti della crisi che in varie forme perdura dal 2008 e affida la cura dei propri interessi alla piccola borghesia, richiedendo genericamente l’aumento della spesa pubblica e del welfare. In questo contesto è forte la tentazione di fare da soli; di gestire le proprie risorse senza l’intermediazione e la ridistribuzione da parte dell’apparato statale centrale, ma di mantenere tuttavia i vantaggi della propria collocazione all’interno dell’area imperialista. Nel caso catalano è questa la posizione della maggioranza del movimento indipendentista, ovvero di JuntsperCat del fuggiasco Puigdemont e di Esquerra Republicana de Catalunya: indipendenza da Madrid, ma salda appartenenza alla Ue.
Paralisi e divisione della sinistra in Catalogna
La traduzione elettorale e politica di questa situazione sociale e di classe si è avuta lo scorso 21 dicembre, come ben chiaramente riportato nel pezzo sopra citato. Il risultato di Ciudadanos, partito politico di impronta radicalmente liberista e di destra (ma unionista e spagnolista) è indicativo e particolarmente inquietante: 25,3 per cento risucchiando la destra del Partito Popolare e sfondando nei settori operai composti da forza-lavoro immigrata dal resto del territorio dello stato spagnolo.
Ovvero: se la guida del movimento è piccolo-borghese; se le richieste non sono di modificazione strutturale dei rapporti di produzione, ma di mera redistribuzione territoriale sulla base di una pur legittima e distinta storia culturale e linguistica; i proletari si dividono in base all’appartenenza nazionale e la loro rappresentazione politica (la sinistra di classe) si divide; le destre si irrobustiscono e appaiono come le opzioni più concrete e realistiche.
Naturalmente, non è possibile sottacere il ruolo della repressione di Madrid nella produzione dell’esito elettorale del 21 dicembre. Una repressione neo-franchista che va condannata e che rischia di tracimare in senso puramente reazionario e antidemocratico. Tuttavia, l’alternativa ai nazionalismi e alla deriva autoritaria esiste: la sinistra spagnola nel suo complesso potrebbe rialzare la bandiera unificante della Repubblica contro il ruolo nefasto della Monarchia e l’eredità dell’accordo con il franchismo morente; del riconoscimento pieno dei diritti di autonomia di tutti i popoli presenti sul suo territorio; della ricostruzione di uno stato sociale e popolare fuori e contro l’Unione Europea. Per farlo c’è bisogno di coraggio e (da comunisti) di rinunciare ad ogni approccio ideologico, di falsa coscienza, anche quella della cosiddetta indipendenza nazionale senza contenuti di classe.