Domenica 23 Luglio si sono tenute le elezioni politiche anticipate per decisione del primo ministro Sanchez, dopo la vittoria delle forze di destra ed estrema destra (Partido Popular e Vox) alle elezioni amministrative del 29 Maggio in molte Province e Regioni iberiche. Il risultato delle elezioni politiche registra una vittoria di misura del Partito Popular (33 % circa dei votanti) un sensibile arresto del partito di estrema destra Vox(12,4%) una tenuta del Partito socialista (28%), una leggera flessione delle forze di sinistra riunita intorno alla lista Sumar guidata dall’ex Ministro del lavoro e Vicepresidente del Governo Sanchez Yolanda Diaz (12% circa) e un leggero calo delle forze autonomiste (sinistra repubblicana catalana e partito nazionalista catalano) mentre cresce la sinistra indipendentista basca Bundu) che ottiene un deputato sorpassando il partito nazionalista basco.
Il dato indubbiamente positivo di queste elezioni è l’impossibilità della formazione di un governo di estrema destra in Spagna, dato che la perdita di voti del partito Vox impedisce al partito popolare di raggiungere la maggioranza di 176 membri per formare un Governo e che nessuna forza autonomista potrebbe mai allearsi con Vox dati i suoi tratti marcatamente nazionalisti e falangisti (se fosse per Vox i partiti autonomisti catalani andrebbero messi fuori legge).
Mi voglio soffermare un momento su questo parziale risultato perché non era scontato: la destra spagnola rappresenta un misto di ordoliberismo in economia, di filo-atlantismo spinto all’ennesima potenza in politica estera, di autoritarismo poliziesco erede del peggiore franchismo che, riversandosi contro i diritti dei lavoratori, i diritti civili, gli immigrati e le minoranze autonomistiche, tende a definire un humus culturale da stato di polizia. Le forze nazionaliste di destra, in tutti i momenti chiave della vita politica spagnola – in ciò supportati sempre dal sistema dei media e, negli ultimi tempi, anche dalle istituzioni dell’UE – hanno sempre tentato di risolvere con la violenza e la repressione più miope le spinte autonomiste della catalogna e dei Paesi Baschi. L’ultima rabbiosa espressione di questa incapacità di dialogo si è verificata con il referendum sull’indipendenza della Catalogna che, nonostante i limiti e gli errori del partito nazionalista di Piquet, ha visto di nuovo scatenarsi la rabbiosa reazione delle forze di polizia e dell’elettorato di destra in molte zone della Spagna.
Detto questo, non possiamo nascondere il processo di normalizzazione e contenimento delle spinte progressive attuato in maniera sagace e conservatrice da parte del Partito Socialista e del primo ministro Sanchez che ha portato ad una riduzione del peso di Podemos – ora presente nella coalizione Sumar – nell’ottica di un nuovo spostamento dell’asse politico spagnolo verso il bipolarismo e, più in generale, verso il Centro. Podemos, infatti, nato da una spinta popolare contro le politiche neoliberiste e da un’istanza di giustizia sociale verso uno Stato che favoriva esclusivamente i grandi gruppi capitalistici e la rendita immobiliare, era riuscito, negli ultimi quindici anni, ad assegnare una rappresentanza politica significativa alle forze di sinistra e ai ceti popolari che rompeva coll’ottuso bipolarismo, imponendo, invece, un’agenda sociale con cui il Partito Socialista si sarebbe dovuto confrontare inevitabilmente. L’ultimo Governo Sanchez nasce da questa peculiarità: è una coalizione tra il Partito Socialista e Podemos ma raccoglie anche l’appoggio esterno della sinistra repubblicana e, per la prima volta, della sinistra indipendentista basca. Tuttavia, il prezzo altissimo da pagare per la sinistra spagnola è una dichiarazione netta di fede atlantista. I socialisti su questo punto non sono assolutamente disposti a cedere di un millimetro, mentre la presenza di una sindacalista di origini comuniste come la Diaz alla vicepresidenza del Consiglio e al Ministero del Lavoro ha favorito una serie di misure sul terreno sociale e del lavoro (salario minimo a 900 Euro, incremento delle pensioni minime, riforme sugli alloggi) ma ha segnato al contempo un processo di marginalizzazione sempre più marcato delle forze della sinistra anticapitalista che si è evidenziato con un attacco giornalistico e politico alla figura di Pablo Iglesias e con l’attribuzione di un orientamento di stampo populista e demagogico alla figura di Yolanda Diaz, riconosciuta pubblicamente come vicepresidente del Consiglio, quindi leader indiscussa della nuova coalizione.
Sulla guerra in Ucraina il governo Sanchez, come prima accennavo, si è dimostrato marcatamente atlantista, rigorosamente schierato a favore degli interessi dell’imperialismo spagnolo anche in Venezuela e in Sudamerica. A ciò va aggiunto che la destra spagnola – sia il PPE che VOX – hanno posizioni ancora più filoamericane di Sanchez e della destra italiana; i primi per ragioni storiche (ricordiamo Aznar alleato di Berlusconi durante la guerra in Iraq) i secondi per ragioni ideologico culturali (il suprematismo bianco come quadro in cui inserire l’ultranazionalismo spagnolo). Ed è in quest’ottica che Vox si collega a tutta l’ideologia sovranista e al partito della Meloni, sua stretta alleata.
Il risultato delle elezioni è lo specchio di questi rapporti di forza che si sono andati definendo in questi anni. La sinistra ha ottenuto degli importanti risultati, grazie, soprattutto, alla mobilitazione di quegli strati popolari che hanno dato vita a Podemos e che hanno raccolto anche le forze migliori dell’indipendentismo catalano e basco; tuttavia il problema si pone sempre di fronte al Governo ma soprattutto alla politica estera. Quindi lo spazio occupabile per la sinistra è solo quello di politiche riformiste che, tuttavia, tentano sempre di essere sabotate dalla propaganda dei media, dalle forze della destra e, indirettamente, dagli stessi socialisti. Non è un caso che il segretario del Partito Popolare Spagnolo Feéjo, non potendo realizzare un Governo di destra con Vox, si sia rivolto al Partito Socialista per un appoggio esterno a un Governo monocolore PPE, una sorta di Governo di coalizione senza ministri socialisti ma con l’appoggio esterno e la maggioranza da ricercare sugli specifici provvedimenti. Le trattative vertono su quest’ipotesi di governo (una grande coalizione centrista in salsa spagnola) la cui unica alternativa possibile sarebbe un Governo di coalizione guidato dal Partito Socialista con l’appoggio di tutte le forze indipendentiste, sia quelle di sinistra che quelle moderate.
In questo momento non possiamo sapere quale Governo si costituirà in Spagna; tuttavia non possiamo neanche esimerci dal constatare la complessità della dialettica tra questioni sociali ed orizzonte complessivo anticapitalista e antimperialista che si verifica costantemente, anche se con delle variabili da Stato a Stato, in tutti i Paesi del polo imperialista europeo. La coalizione di sinistra in Spagna ha avuto indubbiamente dei meriti rispetto ad altri paesi d’Europa – in primis l’Italia – che sono stati percepiti da una parte consistente dell’elettorato popolare. Da qui l’argine alla pericolosissima avanzata delle forze reazionarie, e una tenuta delle forze di sinistra su percentuali che si collocano intorno al 15%; tuttavia, il tema della governabilità ha imposto alle forze di sinistra di non toccare minimamente il tema delle contraddizioni della guerra imperialistica e delle sue connessioni con la politica economica – che per la classe dirigente europea rappresentano un tabù – e ha fatto arretrare congiuntamente quel timido processo riformatore avviato col Governo Sanchez. Le vicende delle forze progressiste in Spagna ci pongono un interrogativo che è comune a tutti i paesi europei, ovvero quello della dialettica tra conflitti sociali, difesa dei diritti delle classi popolari e politiche riformiste da una parte, e progetto di trasformazione radicale della società, fuoriuscita dalle dinamiche imperialiste e razziste che contraddistinguono i paradigmi irrinunciabili della classe dirigente nei paesi occidentali e dell’economia protezionistica nella quale siamo inseriti.
I due piani sono connessi concettualmente ma, dato l’autoritarismo e i diktat imposti dalle classi dirigenti europee, e l’arretratezza politica in cui ci troviamo, non sono coniugati direttamente dalle masse popolari, quindi non possono essere immediatamente e simultaneamente sovrapponibili. Da questa mancata connessione ne scaturisce, spesso, un arretramento anche sul terreno sociale e si perdono diritti acquisiti con faticose lotte. Per noi comunisti mantenere i principi di una critica serrata, aperta all’imperialismo non ci deve impedire di sviluppare una tattica flessibile, aperta alla consapevolezza che i due piani, pur essendo intimamente connessi non sono percepiti come tali data la polverizzazione e l’individualismo in cui versano le classi subalterne, in particolare nei paesi occidentali. Tutto ciò senza derogare all'impegno antimperialista e al compito di promuovere la crescita di una coscienza critica di massa sulla connessione dei due piani suddetti.