Un grande e plurale movimento pacifista urge

Nei decenni seguiti all’89-91, mentre la sinistra ha fatto fin troppo per farsi del male, il dibattito sul pacifismo e la non-violenza è stato progressivamente egemonizzato ed identificato con altre correnti di pensiero, in particolare quelle teorizzate da Gandhi e da Capitini, nonostante le loro ambigue radici


Un grande e plurale movimento pacifista urge Credits: @Fibonacci Blue www.flickr.com - CC https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/

Nei decenni seguiti all’89-91, mentre la sinistra ha fatto fin troppo per farsi del male, il dibattito sul pacifismo e la non-violenza è stato progressivamente egemonizzato ed identificato con altre correnti di pensiero, in particolare quelle teorizzate da Gandhi e da Capitini, nonostante le loro ambigue radici. Ciò è avvenuto in singolare parallelo con l’affermarsi del neoliberismo. Nel frattempo però gli entusiasmi e le magnifiche prospettive di prosperità e pace si sono rapidamente dissolti e la guerra è ritornata al centro della scena. Si pone quindi oggi l’urgenza reale e storica di una ripresa, da sinistra, del pacifismo coniugandolo nuovamente ai temi della lotta di classe e della giustizia sociale.  

di Aldo Trotta 

Nel 2004 un intenso ed appassionato dibattito ha coinvolto esponenti della sinistra italiana, intellettuali e personalità del pacifismo. Secondo alcuni dei protagonisti, per rianimare la sinistra e ancor più per rinnovare dalle fondamenta il comunismo, a loro avviso appiattito sull’idea della presa del potere e della distruzione del nemico e a tal punto contaminato e pervaso dalla violenza da averla, durante il tempestoso ‘900, non solo giustificata, ma enfatizzata e assunta quale tratto caratterizzante della propria identità, era ineludibile volgere lo sguardo all’ideale della non-violenza e all’azione cristallina e militante di Gandhi e di Capitini. In quanto elemento centrale del profilo identitario, la violenza aveva compenetrato perfino le iniziative messe in campo dal movimento comunista in difesa della pace e, dunque, anche il pacifismo andava rigenerato con un’immersione nelle acque incontaminate della non-violenza.  

La direzione complessiva della svolta pareva collocarsi, più o meno consapevolmente, nel solco tracciato da Bobbio con la sua riflessione sul tema della pace e della guerra, certificando di fatto una grande vittoria teorica e politica del filosofo torinese. Ma anche la vittoria dei fautori della dottrina gandhiana e dello stesso Capitini, ottenuta grazie al contributo offerto in funzione dell’equiparazione tra la violenza della guerra e quella della rivoluzione (da cui il dileguarsi della radicale differenza tra le due categorie sul piano teorico, storico e morale), e alla demonizzazione del marxismo e della categoria della lotta di classe quali archetipi della violenza. A differenza dei sostenitori del nuovo orizzonte ideale, il filosofo torinese, però, non nutriva nei confronti della non-violenza la medesima granitica fiducia: la considerava al pari della mitezza una virtù "impolitica", "la più impolitica delle virtù", "l’antitesi della politica". E, per quanto fiero e instancabile avversario del marxismo, riconosceva che la storia del movimento operaio e comunista è traboccante di lotte pacifiche e di grandi manifestazioni di nonviolenza collettiva: i movimenti che si sono ispirati e che si ispirano al pensiero di Marx – affermava – “hanno prodotto e continuano ad alimentare azioni nonviolente collettive, quali sono gli scioperi parziali e generali, le manifestazioni di protesta di massa, le varie forme di disobbedienza civile, anche se non hanno elaborato e propagandato una vera e propria teoria della nonviolenza come ha fatto Gandhi”.  

A distanza di un decennio da quel dibattito, occorre prendere atto che: 1) più che apportare rinnovata linfa ad una sinistra già da tempo profondamente indebolita, il nuovo orizzonte ideale ha contribuito ad aggravare il suo sfacelo; 2) il partito che si era assegnato il compito di una rifondazione identitaria che, inspiegabilmente, avrebbe dovuto concretizzarsi sulle fragili gambe di un bilancio della propria storia, cultura e del conflitto politico-sociale messo in campo pieno di nefandezze e connotato dall’idea della violenza quale strada maestra per la trasformazione della società, è ormai ridotto al lumicino e all’irrilevanza; 3) e anche il pacifismo, pur dinanzi a scenari geopolitici tutt’altro che rassicuranti, non gode certo di buona salute.

Eppure, al di là degli esiti, la contrapposizione tra il comunismo e la lotta di classe, quali espressioni della violenza, e la dottrina gandhiana della non-violenza, pura e incontaminata, non regge affatto all’analisi storica.  

Fin dalla prima crisi che apre il Novecento, ovvero la Grande Guerra: alla condanna dello sciovinismo, dei pruriti militaristi e della orrida carneficina da parte dei principali esponenti del movimento comunista, fa da contraltare il fervente interventismo sia del giovanissimo (e perciò incolpevole) Capitini, che celebrava la guerra come "santa", "giusta e di liberazione" ed esprimeva parole di ammirazione anche per la precedente avventura coloniale in Libia da parte dell’Italia che "l’aveva tanto elevata moralmente e materialmente tra le grandi potenze", sia quello del più che maturo Gandhi, il quale chiese ed ottenne dagli inglesi il ruolo di "reclutatore capo", riuscendo a far arruolare nell’esercito di Sua Maestà circa un milione di indiani, molti dei quali andarono incontro alla propria morte nelle trincee e sui campi di battaglia. La personalità più autorevole della storia della non-violenza celebrava lo spirito guerriero e il coraggio nel "vincere o morire", la disciplina e la solidarietà tra i soldati, era persuaso che la partecipazione alla guerra fosse una prova di virilità: i padri e le madri indiane dovevano "gioire" per il sacrificio "dei propri figli nella guerra". Motivi da cui era invece lontanissimo Tolstoj.  

Anche rispetto al fascismo – regime agli antipodi rispetto alla non-violenza, ma che Gandhi guardava tutto sommato favorevolmente – l’atteggiamento del leader indiano non fu proprio coerente con l’aimsha: nel 1931, con una visita in Italia rendeva omaggio a Mussolini, da lui definito "il salvatore della nuova Italia". In questa fase Gandhi era ancora profondamente convinto del valore formativo della partecipazione alla guerra, quale "necessità vitale" per "poter imparare ad apprezzare il valore, la grandezza, la superiorità della non-violenza".  

Il carattere pedagogico della prova delle armi, teorizzato e accettato nei confronti della guerra, si dilegua però dinanzi all’eventualità della resistenza violenta: ogni qualvolta i movimenti da lui stesso promossi si radicalizzavano assumendo un carattere rivoluzionario procedeva a sospenderli; in occasione della guerra fascista dell’Etiopia, non solo evitò di prendere posizione contro l’aggressione coloniale e di manifestare la sua solidarietà agli etiopi, ma espresse disapprovazione per la loro lotta di resistenza.  

Questa duplicità morale e politica trova un’ulteriore conferma nelle sue sconcertanti posizioni nei confronti del nazismo: l’hitlerismo andava combattuto e sconfitto con la non-violenza, non si poteva eliminare il nazismo usando gli stessi mezzi, bisognava farlo senza l’uso delle armi. In fondo – affermava nel maggio 1940, mentre la Germania invadeva la Francia e in Polonia imperversava l’eliminazione degli intellettuali –,"non credo che Hitler sia così cattivo come lo dipingono. Sta dimostrando un’abilità stupefacente, e sembra che ottenga le sue vittorie senza spargimenti di sangue".  

Il profeta indiano invitava i popoli europei a lasciarsi massacrare fino all’ultimo uomo pur di preservare l’onore e la purezza della propria anima. Nel caso l’India fosse stata invasa dal Giappone, gli indiani avrebbero ugualmente vinto "la loro battaglia nella misura in cui preferiranno lo sterminio alla sottomissione"; per tale 'vittoria' "la perdita anche di milioni di vite" avrebbe rappresentato un "prezzo molto modesto". Si tratta di appelli che in pieno terrore nazista rivolgeva anche agli ebrei, sui quali cominciava a gravare la minaccia della loro sistematica eliminazione. Viene da chiedersi: chi è disposto all’ultimo sacrificio di sé e, ancor più, chiede ad altri la medesima disponibilità non vive la violenza nelle sue più profonde ragioni?  

Capitini condivideva questa specie di mistica del sacrificio estremo, che nel leader indipendentista indiano contemplava lo sterminio volontario di popoli interi: considerava il sacrificio supremo della propria vita la "testimonianza massima della nonviolenza". È perciò tutt’altro che condivisibile il confronto che il filosofo umbro stabiliva tra Marx e Gandhi: entrambi erano sensibili alla sorte degli sfruttati e degli oppressi, ma era il profeta indiano ad esprimere "una cura precisa che nessun individuo venga sacrificato".  

Sono trascorsi ormai parecchi anni dalla morte di Gandhi e di Capitini, i cui profili critici delineati nel mio volume (Non-violenza e Guerra fredda. Gli equivoci di Aldo Capitini) non intendono sminuirne l’importanza. La parabola sovietica si è definitivamente chiusa. E tuttavia, indipendentemente dal giudizio che si vuol dare di quell’esperienza storica, non si può non ammettere che in Europa e nell’Occidente capitalistico, da un quarto di secolo si aggira lo spettro della miseria e della povertà, le diseguaglianze sono cresciute in maniera scandalosa, diritti faticosamente conquistati vengono asfaltati, la pluto-creditocrazia ha riattualizzato la schiavitù per debiti, su popoli interi (il caso della Grecia ne è un esempio). Non è più sufficiente avere un lavoro (e talvolta più di uno) per non scivolare nei gironi infernali della precarietà esistenziale e dell’esclusione sociale, per non diventare scarti umani. La dimensione del futuro è stata amputata dall’orizzonte esistenziale delle giovani generazioni, e non solo per esse. Si potrebbe proseguire, ma credo che sia più che sufficiente per chiedersi: visto che lo spettro del comunismo non s’aggira (almeno per ora) per l’Europa e in tutto l’Occidente a chi bisogna chiedere conto di tutto questo gigantesco portato di violenza sistematica e quotidiana? La lotta di classe, lungamente esorcizzata e disprezzata in quanto paradigma dell’odio e della violenza delle masse popolari – anche con il contributo dei fautori della non-violenza – continua ad essere impugnata e agita dalle classi agiate nei confronti delle classi subalterne, ma in questo caso non si levano voci di allarme, né tanto meno viene stabilito alcun nesso con la violenza.  

Da quando il marxismo e la sinistra occidentale si sono auto-liquidati, anche il quadro internazionale ha assunto un profilo tutt’altro che rassicurante: le magnifiche e progressive prospettive di pace, benessere e democrazia che la dissoluzione del campo socialista aveva fatto presagire a molti si sono rapidamente dissolte, la guerra è fin da subito drammaticamente tornata al centro della scena, per quanto ammantata dietro varie e ignobili vesti. È in atto una vertiginosa corsa agli armamenti e una radicalizzazione dell’interventismo armato che nuova linfa stanno offrendo alla proliferazione di guerre che finora stanno divampando in ambiti regionali limitati. Ma non è da escludere l’eventualità che l’inasprimento delle contraddizioni possa portare al coinvolgimento diretto delle grandi potenze, destabilizzando ulteriormente il quadro internazionale e mettendo ancora più a repentaglio la pace nel mondo.  

Purtroppo, anche la non-violenza è stata fagocitata e inserita nell’armamentario della politica estera della potenza guida dell’Occidente: colpi di Stato o tentativi di colpi di Stato vengono spacciati per rivoluzioni colorate, spontanee e non-violente, manuali per destabilizzare e abbattere regimi autoritari (Gene Sharp), o considerati tali secondo le contingenze e le convenienze, sono redatti da organismi legati agli Usa, anche con il contributo di strateghi militari, e diffusi gratuitamente come fossero manuali di liberazione non-violenta; personalità, organizzazioni (Albert Einstein Institution) e sette religiose (Falungong) che si richiamano all’ideale gandhiano ricevono appoggi di ogni genere e lauti finanziamenti per obiettivi geopolitici; anche internet e i social-network sono stati elevati al rango di strumenti di lotta non-violenta e utilizzati da potentissime agenzie come la CIA, per fomentare rivolte e regime change di Paesi avversari.  

Dinanzi a questi inquietanti scenari, è necessario, anzi urgente, rimettere in campo un grande, plurale e unitario movimento per la pace, nei cui confronti l’ideale gandhiano si ponga realmente come una "libera aggiunta" e non in contrasto con altri orientamenti pacifisti per i quali l’uso della forza non è sempre e comunque da ripudiare.
Questa esigenza rischia però di restare inascoltata se prima non verrà affrontato e risolto il drammatico problema della irresponsabile latitanza della sinistra, ovvero della ricostruzione di una sinistra organizzata che sia per l’appunto in grado di promuovere e di agire, con continuità, la lotta per la difesa della pace nel mondo nel suo ineludibile rapporto con l’eguaglianza, la giustizia sociale e la coesistenza pacifica dei popoli.  

16/07/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Aldo Trotta

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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