I migliori 20 film usciti nella sale italiane nel 2014
di Rosalinda Renda e Renato Caputo
Finisce l’anno e le classifiche, si sa, impazzano. In mezzo a bilanci di ogni tipo, proviamo a fare quello dei migliori film. Immediatamente ci accorgiamo che il 2014 anche per i cinefili non è stato un granché: la crisi oltre ad essere economica è, del resto, anche culturale. A parte alcune eccezioni, anche i grandi registi non hanno brillato e, forse non a caso, alcune delle cose più interessanti sono state realizzate al di fuori del mondo occidentale (Snowpiercer e Si alza il vento).
Tra i film italiani riteniamo il film di Paolo Virzì, Il capitale umano, una piacevole sorpresa in un panorama decisamente sconsolante, quasi a confermare che se l’intero mondo a capitalismo avanzato è in crisi, tale crisi colpisce in modo particolare l’Italia. Dai troppi film italiani usa e getta, prendono decisamente le distanze anche Il giovane favoloso di Mario Martone su Leopardi e Torneranno i prati di Ermanno Olmi, che coraggiosamente affronta con spirito critico la Prima guerra mondiale, proprio nell’anno del suo centenario. Martin Scorsese, Clint Eastwood e Ken Loach, fanno la loro parte e occupano la parte alta della classifica, anche se hanno prodotto film certamente migliori. I Fratelli Cohen e i Dardenne, nonostante l’interesse del tema trattato da questi ultimi, convincono un po’ meno. Ancora più sottotono il film di Woody Allen Magic in the moonlight. Ci sono apparsi decisamente sopravvalutati film come Nebraska e Lei, decisamente troppo osannati dalla critica. Tra i documentari, da segnalare in particolare Il sale della terra di Wim Wenders sul grande fotografo Salgado.
Iniziamo, quindi, il count-down:
20) Lei di Spike Jonze
19) Magic in the Moonlight di Woody Allen
18) Nebraska di Alexander Payne
17) Due giorni e una notte di Luc Dardenne e Jean-Pierre Dardenne
16) Il sale della terra di Wim Wenders
15) Il giovane favoloso di Mario Martone
14) Interstellar di Christopher Nolan
13) Torneranno i prati di Ermanno Olmi
12) A proposito di Davis di Joel ed Ethan Coen
11) American hustle di David O. Russell
10) Hannah Arendt di Margarethe von Trotta
Opera interessante dal punto di vista storico-filosofico e didattico. Mostra la figura di Hannah Arendt nella sua problematicità, ricostruendo in particolar modo il periodo che va dal 1960 al 1964, quando la Arendt, corrispondente del ‘New Yorker’, segue il processo Eichmann a Gerusalemme. Colpisce favorevolmente, in un’epoca in cui qualsiasi critica al sionismo viene considerata come antisemita, una ricostruzione piuttosto fedele della denuncia della Arendt della condiscendenza di una parte significativa dei vertici delle comunità ebraiche europee di fronte ai nazisti. Tuttavia, la raffigurazione della Arendt appare a tratti agiografica: viene presentata come una critica radical della stessa società statunitense, di cui invece troppo spesso l’intellettuale liberale tedesca è stata una acritica apologeta.
9) The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese
Con la storia del broker cocainomane Jordan Belfort, Scorsese ci introduce nell’osceno mondo della finanza fatto di truffe colossali e squallide feste a base di pornografia e droga e lo fa, come al solito, da maestro. La fiera degli eccessi è raccontata con un montaggio incalzante e vertiginoso. Ma in fin dei conti, tre ore in cui si ripete un unico motivo, per quanto attraverso molteplici variazioni, pesano un po’ troppo. Infine, nonostante la critica corrosiva del mondo del capitale finanziario nell’epoca della sua crisi, manca completamente la stessa possibilità di una alternativa, per cui lo stesso protagonista che incarna tutte le nefandezze del finanziere di successo finisce per apparire quasi come un eroe, un superuomo.
8) Jersey boys di Clint Eastwood
Clint Eastwood stavolta porta sul grande schermo un famoso spettacolo di Broadway ispirato alla storia di un gruppo pop di successo degli anni Sessanta, i Four Season. L’opera non raggiunge sicuramente la vetta nella filmografia di questo regista, ma il tocco di classe si vede e come. In effetti, la rappresentazione di questi personaggi, a tratti davvero insulsi, è realizzata con un certo realismo, che dimostra la capacità del regista di osservare con uno sguardo almeno critico e straniante il patinato mondo della società dello spettacolo. Resta, tuttavia, la totale incapacità da parte del regista di indicare allo spettatore la possibilità di una prospettiva radicalmente alternativa a quella esistente, che apparendo l’unica possibile finisce per essere spacciata come necessaria.
7) Grand Budapest Hotel di Wes Anderson
Film godibile e ben costruito, che si snoda sulla linea dell’immaginario non senza riferimenti alla realtà. Molto curato dal punto di vista stilistico, dotato di grande ritmo ed eleganza. Il film è dedicato a Stefan Zweig, scrittore austriaco pacifista tra gli anni Venti e Trenta, le cui opere furono bruciate dai nazisti nel 1933. Il film resta, però, una favola perfettamente confezionata ma, un po’ fuori luogo in una società che rischia di precipitare nuovamente nella barbarie. Per cui il Grand Budapest non può che apparire come un elegantissimo Hotel dal gusto vintage sull’orlo dell’abisso.
6) L’amore bugiardo – Gone girl di David Fincher
Thriller ben architettato, di stampo hitchcockiano rivisitato da De Palma, che coinvolge una coppia bella e colta in crisi, che deve abbandonare New York per vivere in provincia. La coppia, che nasce come modello della ricca e colta upper-class newyorchese, finisce per essere travolta dalla crisi economica che costringe i due coniugi a dover rinunciare a larga parte dei loro privilegi. Esplodono così le contraddizioni, e i lati anche crudeli della Barbie e del Big Jim. Tra tradimenti, omicidi e ogni genere di infamie la coppia perfetta sarà costretta a ricomporsi per l’esigenza di sopravvivere della società dello spettacolo alla sua crisi. Il thriller, dopo una serie di incredibili colpi di scena, si muta in una commedia macabra. Anche in questo caso tutta la grande perizia per rappresentare in modo realistico la società capitalistica nella fase della sua decomposizione, rischia di essere almeno in parte vanificata dalla mancanza di una prospettiva.
5) Boyhood di Richard Linklater
Romanzo di formazione e film sperimentale: il regista racconta la storia di una famiglia americana negli ultimi 12 anni, utilizzando gli stessi attori con le loro trasformazioni fisiche. Per realizzare un grande affresco della società statunitense contemporanea, sia pure dal punto di vista di una famiglia più o meno tipica, manca al regista il coraggio di distaccarsi da una prospettiva naturalista e un po’ minimal-qualunquista. Tuttavia, i personaggi sono presentati in modo estremamente realistico, con tutte le loro contraddizioni e con un notevole scavo psicologico.
4) Jimmy’s hall di Ken Loach
Il regista inglese come sempre si dimostra pienamente consapevole e porta lo spettatore a schierarsi in modo deciso dalla parte dei subalterni che si battono contro le classi dirigenti e dominanti in nome di una società più giusta e razionale. In particolare in questo film Loach si concentra sulla necessità di strappare il monopolio della cultura alla classe dominante per farne uno strumento di emancipazione della working class. Ciò porta il regista a perdere di vista che le sovrastrutture sono, almeno in ultima istanza, un prodotto della struttura economica e sociale. Si tratta di un coraggioso tentativo di realizzare un film storico, ambientato in una contea sperduta nell’Irlanda degli anni Trenta, narrato dal punto di vista dei subalterni. Non è tuttavia tra i migliori film del regista, in quanto paradossalmente proprio i personaggi che rappresentano la working class appaiono privi di spessore psicologico, privilegio riservato esclusivamente ai membri del clero, il cui ruolo nefasto quale strumento al servizio delle classi dominanti è giustamente denunciato.
3) Si alza il vento di Hayao Miyazaki.
Nel suo decimo lungometraggio Miyazaki, giunto alla fine della sua gloriosa carriera, si cimenta in una trama impegnativa e innovativa, in cui non mancano però alcuni archetipi del suo cinema, come l’amore per il volo, per la natura, la critica della guerra, la dedizione per il lavoro creativo. Il protagonista è il progettista degli aerei da guerra usati dai Kamikaze giapponesi nella seconda guerra mondiale, che però avrebbe preferito riempire di persone e non di mitragliatrici. Questa contraddizione dolorosamente vissuta dal protagonista non è completamente risolta, in quanto il vivere con disagio la strumentalizzazione della propria produzione ai fini bellici di una potenza imperialista, non porta il protagonista alla consapevolezza della necessità di una presa di posizione decisamente critica. Dunque, pur ricordando la tragica contraddizione rappresentata esemplarmente dal Galileo brechtiano, fra la passione per la scienza, quale strumento per lo sviluppo delle forze produttive e gli ostacoli posti da un potere interessato a difendere rapporti di produzione ormai inadeguati, manca del tutto la celebre autocritica dello scienziato che ha finito con il conformarsi all’ordine costituito. Restano disegni e inquadrature davvero eccezionali che fanno di quest’opera il miglior film di animazione dell’anno.
2) Il capitale umano di Paolo Virzì
Miglior film italiano dell’anno, certamente anche il più maturo di Virzì che si cimenta questa volta con un noir, senza dimenticare la doverosa critica dell’attuale società. Liberamente tratto dal thriller di Stephen Amidon, Virzì sposta l’ambientazione dagli USA in una città di provincia del Nord Italia. Nell’intrigante intreccio tipico di un noir, emergono tutti gli aspetti di una società in crisi, ben evidenziati nella caratterizzazione dei personaggi, che rappresentano dei tipi caratteristici delle diverse classi sociali. Tra tanti film italiani completamente privi di qualsiasi sguardo critico sulla attuale società il film di Virzì è certamente una piacevole sorpresa.
1) Snowpiercer di Bong Joon-ho
Film fantascientifico e rivoluzionario, tra i più costosi prodotti in Corea, è un’opera veramente riuscita: ti tiene incollato allo schermo per il grande ritmo, la suspence, gli effetti speciali, le spettacolari scenografie e la bella fotografia, ma anche per il contenuto morale e politico. Quindi, nonostante si tratti di un film avvincente, lascia anche molto da pensare, sulla crisi dell’attuale società e sulle possibili soluzioni. Il treno rompi-ghiaccio che percorre il globo durante la nuova era glaciale è, infatti, una bella metafora della società capitalistica nell’epoca della crisi. I passeggeri del treno sono gli ultimi sopravvissuti di una terribile catastrofe ecologica e l’equilibrio del treno si regge sulla rigida divisione tra gli ultra-ricchi della prima classe, che con la testa del treno controllano anche gli strumenti di produzione e riproduzione, oltre che gli apparati repressivi, e la massa dei subalterni relegati nella coda del treno, che riescono a stento a riprodursi, per offrire il meglio della propria prole allo sfruttamento da parte del padrone del treno. Ma l’insurrezione è alle porte, le drammatiche condizioni di vita e la memoria delle lotte passate portano un’avanguardia dei subalterni a elaborare un piano per conquistare la direzione del treno…. Restano alcuni dubbi sulla soluzione proposta dal regista, che pare influenzato un po’ troppo da concezioni ambientaliste e post-operaiste.