Dopo le tesi sostanzialmente di ispirazione rousseauiane della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico del 1843, Karl Marx – già nella celebre recensione Sulla questione ebraica – coglie e critica i limiti della filosofia politica di Jean-Jacques Rousseau. Quest’ultimo, come osserva a ragione Umberto Cerroni, muovendo come giusnaturalisti e liberali “dall’uomo indeterminato (lasciando, cioè, incompiuta la sua iniziale critica della proprietà privata) giunge sì a proporre una riforma radicale con la sua teoria di una associazione organica in cui vige il primato della sovranità popolare, ma una riforma che si risolve nella sfera etico-politica della volontà generale (nella educazione civile) e che, pertanto, conserva ancora un impianto ambiguo: tende a convertirsi nel garantismo (in quanto l’associazione continui a tutelare i ‘beni’ dell’individuo) oppure a sfociare nell’utopia moralistica del popolo virtuoso” [1]. Per quanto riguarda la critica intrinseca che Marx rivolge, in Sulla questione ebraica, alla concezione politica democratica di Rousseau, è indubbiamente significativo quanto ha, giustamente, osservato Eustache Kouvélakis: “viene così superata l’aporia della definizione rousseauiana che arriva a porre il contratto sociale come fatto di libertà istitutiva solo a prezzo di una concezione dell’ordine politico così istituito come snaturamento totale dell’uomo e perciò spossessamento radicale e massima costrizione esterna. È quel che Marx deplora nella Questione ebraica, identificando la visione rousseauiana della cittadinanza come la quintessenza dell’‘astrazione politica’” [2].
Questa taglienti critiche alle posizioni sinceramente democratiche, di ascendenza rousseauiana, non portano Marx ad assumere posizioni settarie. Al contrario Marx si scaglia contro l’incapacità dei lassalliani di distinguere all’interno del fronte borghese, di coglierne le contraddizioni interne finalizzandole ai propri scopi, finendo anzi per favorirne il ricompattamento considerandolo un’unica massa reazionaria. Tale apparente estremismo porta, peraltro, Ferdinand Lassalle a idealizzare la rivoluzione passiva portata avanti da Otto von Bismarck, fino a considerarlo un alleato non solo tattico, ma anche strategico del proletariato, sulla base di una concezione errata, dogmaticamente hegeliana, che vede nello Stato il rappresentante della volontà generale contro il particolarismo della società civile. Lassalle si illude, hegelianamente, idealisticamente, di un’alleanza fra la classe operaia che controlla la principale corporazione e lo Stato borghese contro gli spiriti animali del capitale. Marx è, invece, più favorevole ad alleanze tattiche con la borghesia, sostenendo in taluni casi la funzione rivoluzionaria della borghesia produttiva nella sua lotta contro le illusioni reazionarie delle classi feudali e dei ceti medi. Senza tuttavia ipostatizzare tale posizione, in quanto proprio una parte dei ceti medi, di fronte alla loro proletarizzazione, possono divenire importanti alleati del proletariato contro il capitale monopolistico.
La stessa piccola borghesia sarà costretta a scegliere fra la lotta per il socialismo o il progressivo imbarbarimento della società borghese, il progressivamente rinunciare da parte di quest’ultima alle forme democratiche universaliste, per assumere i toni aggressivi della politica imperialista. Del resto artefice della progressiva rovina dei ceti medi era proprio lo sviluppo in senso imperialista della società borghese, che aveva messo nelle mani del capitale finanziario le risorse della nazione mediante il progressivo indebitamento, che aveva coinvolto le alte istituzioni dello Stato in enormi speculazioni finanziarie, che aveva utilizzato le leve del potere politico per favorire la concentrazione e la creazione dei monopoli, che aveva cancellato ogni parvenza d’autonomia del politico di cui si pascevano le illusioni della piccola borghesia, che aveva tradito la lotta contro l’oscurantismo clericale con il sostegno sempre più diretto agli istituti privati in mano al clero, che aveva scosso ogni illusione nell’etica puritana borghese con l’abbandonarsi al lusso più depravato.
Le pur necessarie alleanze di classe non tolgono l’esigenza che in esse il proletariato, mediante la sua avanguardia costituita dai comunisti, eserciti l’egemonia. I comunisti sono avanguardia del proletariato perché dal punto di vista teorico hanno presente le condizioni in cui il conflitto avviene, le linee tendenziali del suo sviluppo e lo scopo finale da raggiungere, sul piano pratico perché sempre spingono a non accontentarsi di vittorie parziali, ma a portare avanti la lotta sino alla piena emancipazione dell’uomo come essere sociale. Del resto, la natura sociale dell’uomo fa sì che, dal punto di vista marxiano, il perfezionamento del singolo non sia realizzabile senza che quest’ultimo non si accordi con il perfezionamento della specie. Da qui sorge l’esigenza marxiana di realizzare, anche per via rivoluzionaria se è necessario, una vita sociale non più fondata sull’arbitrio individuale, ma su di un fondamento solidaristico.
Si tratta, dunque, di realizzare un rovesciamento dei rapporti sociali che condizionano l’uomo. In effetti, come osservava Marx già nel 1844 in un articolo sul Vorwärts, polemizzando con Arnold Ruge, “gli individui umani producono, in ultima analisi, nella loro pratica concreta, questi rapporti sociali dai quali sono tuttavia condizionati”. Perciò, come osserva acutamente Bernard Bourgeois: “se un tale condizionamento non è, assolutamente parlando, determinante, non è poiché sarà giudicato mediante una libertà trascendente […]; è perché ‘l’inumano’ dei rapporti sociali, ‘il lato negativo…, la ribellione contro l’ordine dominante, ordine che è fondato sulle forze produttive esistenti, e contro il modo di soddisfare i bisogni corrispondenti a tale situazione’, non può dare esito a una azione negatrice effettiva che se la sua prova riposa su ‘una forza produttiva nuova, rivoluzionaria’” [3].
La rivoluzione non può che comportare la distruzione dello Stato borghese quale escrescenza parassitaria,
mediante la “distruzione di quel potere statale che pretendeva essere l’incarnazione di questa unità indipendente e persino superiore alla nazione stessa, mentre non era che un’escrescenza parassitaria”. D’altra parte, però, in Marx resta ben viva la lezione hegeliana, per cui lo stesso socialismo è pensato non come una negazione assoluta, nichilistica del capitalismo, ma come una sua negazione determinata, ossia come un superamento dialettico della società borghese, che ne toglie gli elementi non più razionali, tesaurizzandone gli aspetti progressivi. Ecco come Marx delinea la grandezza e, al contempo, la miseria della società capitalistica: “gli effetti devastatori dell’industria inglese, se vengono considerati in rapporto all’India, paese vasto quanto l’Europa, con una superficie di 150 milioni di acri, sono palpabili e sconcertanti. Ma non dobbiamo dimenticare che essi sono soltanto i risultati organici dell’intero sistema di produzione come è costituito oggi. La produzione poggia sul domino supremo del capitale, L’accentramento del capitale è essenziale per l’esistenza del capitale in quanto potere indipendente. L’affluenza distruttiva di questo accentramento sui mercati mondiali non fa che mettere a nudo, in dimensioni quanto mai gigantesche, le leggi organiche immanenti dell’economia politica oggi operanti in ogni città civilizzata. Il periodo storico borghese deve creare le basi materiali del nuovo mondo, da una parte lo scambio universale fondato sulla dipendenza reciproca dei popoli e i mezzi di questo scambio; dall’altra lo sviluppo delle forze produttive dell’uomo e la trasformazione della produzione materiale in un domino scientifico dei fattori naturali. L’industria e il commercio borghesi creano queste condizioni materiali per un mondo nuovo nello stesso modo in cui le rivoluzioni geologiche hanno creato la superficie della terra. Quando una grande rivoluzione sociale si sarà impadronita delle conquiste dell’epoca borghese, dei mercati mondiali e dei moderni mezzi di produzione e li avrà assoggettati al controllo collettivo dei popoli più progrediti, soltanto allora il progresso umano cesserà di assomigliare a quell’orrendo idolo pagano che voleva bere il nettare soltanto dal cranio degli uccisi” [4].
Proprio perché Marx considera il socialismo in modo dialettico, quale negazione determinata della società borghese, considera la transizione al socialismo come conquista della vera, della reale democrazia, presente in modo solo formale nelle società capitaliste. Non a caso nel definire il socialismo Marx ed Engels, già nel Manifesto del partito comunista parlano di un processo storico di cui è protagonista – in un senso realmente democratico, all’opposto di quanto avviene nelle società oligarchiche borghesi – la “stragrande maggioranza nell’interesse della stragrande maggioranza” e proprio in ciò “si distingue da tutte le rivoluzioni precedenti che hanno sostituito una classe sfruttatrice (minoritaria) con un’altra” [5]. D’altra parte tale processo “è fondamentalmente analogo, o simmetrico, alla rivoluzione borghese che lo ha preceduto, sia economicamente (libera le nuove forze produttive dal giogo dei vecchi rapporti di produzione) che politicamente, dato che erige il proletariato a ‘classe dominante’, il che equivale” [6], come chiariscono ancora Marx ed Engels sin nel Manifesto nella “conquista (die Erkämpfung) della democrazia”.
Per quanto concerne il rapporto fra affermazione del socialismo e realizzazione della democrazia, occorre ricordare che la forma politica in cui può compiersi l’emancipazione dei lavoratori salariati, cui mira la lotta di classe nella società borghese, è la dittatura democratica del proletariato. Più nello specifico, come osserva il grande storico britannico Eric Hobsbawm “lo stato proletario di transizione, indipendentemente dalle funzioni che esso avrebbe conservato, doveva eliminare la separazione tra il popolo e il governo, inteso come consorteria distinta di governanti. Si potrebbe dire che esso doveva essere ‘democratico’, se nel linguaggio comune questa parola non si identificasse con uno specifico tipo istituzionale di governo attraverso assemblee di rappresentanti parlamentari eletti periodicamente, e che Marx rifiutava. Tuttavia in un’accezione che non lo identifichi con istituti specifici, e che riecheggia alcuni elementi di Rousseau, si trattava di una ‘democrazia’” [7].
Per concludere sull’importanza della concezione moderna della democrazia sviluppatasi a partire da Rousseau, per l’elaborazione da parte di Marx delle caratteristiche fondamentali della società socialista e poi comunista, ha sviluppato delle notevoli riflessioni Cerroni, che vogliamo qui richiamare per intero: “posta infatti come accertata la funzionalità delle istituzioni politiche moderne alla proprietà privata (alla struttura privatistica o dissociata della società civile), talché la moderna costituzione politica si prospetta come una ‘costituzione della proprietà privata’, proprio l’emergenza della sovranità popolare e cioè della unificazione del popolo come corpo deliberante può aprire la concreta possibilità di mettere – se non altro – in crisi quella funzionalità; di modellare insomma lo Stato moderno non più come uno Stato che presuppone il privato, la persona originaria indipendente dalla comunità, ma come uno Stato che, fondandosi appunto sul primato della sovranità popolare, può divenire strumento per la socializzazione del rapporto di produzione moderno, e dunque di risoluzione della antinomia fra privato e pubblico, fra individuo indipendente o privilegiato e comunità del popolo associata nel lavoro e nella determinazione politica: come uno Stato che si fa riassorbire dalla società, che si estingue progressivamente via via che la società stessa, socializzandosi, si dà una diretta organizzazione generale” [8].
Note:
[1] Umberto Cerroni, Marx e il diritto moderno, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 269.
[2] Eustache Kouvélakis, Critica della cittadinanza; Marx e la “Questione ebraica”, tr. it. di N. Augeri, in «Marxismo Oggi» 1, Milano 2005, p. 55.
[3] Bernard Bourgeois, Philosophie et droits de l'homme: de Kant à Marx, éditions PUF, Parigi 1990, p. 124; le citazioni nel testo sono tratte dall’Ideologia tedesca di Marx ed Engels.
[4] Karl Marx e Friedrich Engels, Opere complete, marzo 1853 – febbraio 1854, tr. it. di F. Codino, vol. XII, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 228-29.
[5] Eustache Kouvélakis, Marx e la critica della politica,in Marcello Musto [a cura di], Sulle tracce di un fantasma. L'opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, Manifestolibri, Roma 2005, p. 198.
[6] Ibidem.
[7] Eric J. Hobsbawm, Gli aspetti politici della transizione dal capitalismo al socialismo, in AA. VV., Storia del marxismo, vol. I, Einaudi, Torino 1978, p. 284.
[8] Umberto Cerroni, Marx e il diritto moderno, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 272-73.