Rosso nella notte bianca

Recensione del nuovo romanzo di Stefano Valenti, storie di montagna, contadini e Resistenza


Rosso nella notte bianca

Recensione del nuovo romanzo di Stefano Valenti. Ambientato tra i monti della Valtellina, l’autore trae spunto dalla storia vera di Ulisse Bonfanti per parlare senza fronzoli della durezza della vita contandina, dell’ossessione religiosa e, soprattutto, dell Resistenza.

di Paolo Rizzi

Valtellina, 1994. Il partigiano Ulisse è tornato in paese, dopo una vita. Aspetta colui che fu il  gerarca locale fuori dal bar, lo uccide a picconate. Si consegna: "Chiamate i carabinieri, dite di venirmi a prendere, che quello che dovevo fare l'ho fatto".

Il nuovo romanzo di Stefano Valenti (già autore de La Fabbrica del Panico, Premio Strega per gli esordienti) inizia da qui, l'ultima notte in cui Ulisse aspetta di fare quel che doveva fare e ripercorre la vita insieme al fantasma della sorella Nerina, morta appena dopo la guerra. Insieme a Nerina ripercorre una storia fatta di povertà e dolore.

Il libro di Valenti non lascia  nessuno spazio per la nostalgia della società contadina, anzi, è un'illustrazione senza alcun riguardo della durezza della vita sui monti, soprattutto per le donne. Una vita così dura che, attraverso il personaggio della madre Giuditta, Valenti mostra come fosse preferibile trasferirsi a lavorare nelle fabbriche, dove le condizioni sono durissime e bisogna lottare costantemente ottenendo spesso poco, ma dove è comunque meglio rispetto alla schiavitù della terra da coltivare e, per le donne, della doppia schiavitù sotto l'uomo, condannate a produrre figli a ritmo continuo. "Una volta comandavano preti e monache e non fare figli, dicevano, era peccato mortale, e dicevano di farne tanti" (cit. pag. 45).

A condannare la donna alla doppia schiavitù è la cultura delle valli alpine, forgiate da secoli di fede cattolica controriformista; furono le valli alpine a fare da confine tra la riforma protestante e la reazione del papato, furono le valli alpine a essere bombardate da una religiosità costruita per far riprendere il controllo sociale al clero. Una religiosità fatta di santi e madonne perennemente presenti nella vota quotidiana, sensi di colpa inculcati nella mente dei contadini e una presenza del clero sempre mirata alla conservazione di un sistema sociale brutale.

Valenti mette in scena questa religiosità nel personaggio di Ulisse, sofferente fin da ragazzo di allucinazioni con protagonisti tanto Cristo e la Madonna quanto il Demonio. "La cultura mi fa difetto e ho faticato a capire le cose, ma il Partito e la fabbrica mi hanno educato e adesso sono meno analfabeta e certe cose mi viene di comprenderle", si legge a pagina 116 del libro.

Per Ulisse l'unica parziale liberazione dalle ossessioni sarà l'incontro con "i ribelli", con la Resistenza. Anche qui Valenti sfida uno dei tabù della Valtellina (e di tutta la fascia alpina), ovvero quel chiacchiericcio strisciante, e poi sempre più dominante dagli anni '90 in poi, che vuole dividere la Resistenza buona da quella cattiva.

Nel romanzo è la figura storica del Comandante Nicola, inviato dal PCI per comandare la Brigata Garibaldi, accusato di essere troppo duro nell'applicare le regole della clandestinità. Nella realtà il nome di Nicola (e di molti commissari politici che svolsero con abnegazione e durezza il loro ruolo) è stato dimenticato o contrapposto alla "Resistenza buona" di cattolici, liberali e militari che collaboravano più strettamente con gli anglo americani. Nel romanzo è Nicola la figura nobile che aiuta i contadini ribelli a diventare partigiani e, soprattutto, aiuta Ulisse a conciliare il suo sentimento religioso e la sua sete di giustizia.

In poco più di cento pagine Valenti realizza un romanzo densissimo, in cui si affondano le mani nei rimossi della società delle valli alpine (una fascia in cui tutt'oggi vivono milioni di persone). Se la retorica dominante parla di vita genuina e pacifica, Valenti parla di conflitti feroci e di coscienza di classe. Se la retorica addossa la responsabilità dei suicidi giovanili al vuoto della vita moderna lontana dai valori dei tempi che furono, Valenti scava in una realtà fatta di "mali di nervi" che colpivano i contadini, di vite annegate nell'alcol già nei primi decenni del Novecento, di un male oscuro che divora chi vive e fatica sui monti.

Rosso nella notte bianca (Feltrinelli Editore, 122 pagine, 12 euro, ebook a 8,99) è un romanzo potente, un antidoto al revisionismo storico contro la Resistenza e il conflitto in generale, un grido feroce per ridare voce a chi ha lottato ed è stato azzittito dalla melassa dei media. Perché Ulisse ha fatto quello che andava fatto.

(I fatti sono romanzati, ma Ulisse Bonfanti è realmente esistito, nel 1994 ha ucciso Mario Ferrari. In secondo grado è stato condannato a otto anni di galera, rilasciato per una grave malattia, ed è morto nel 1999).

30/04/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Paolo Rizzi

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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