Riflessioni antropologiche sulla violenza e sulla guerra

Le motivazioni “umanitarie” dietro alle quali si celano gli spietati aggressori odierni svelano con chiarezza quanto “una civiltà che gioca con i propri principi sia una civiltà moribonda”.


Riflessioni antropologiche sulla violenza e sulla guerra Credits: foto @zak_says

La guerra, da sempre, scandisce col suo tocco gelido l’intero percorso dell’umanità, disseminandolo di discriminazione, persecuzioni, barbarie, violenza, morte. Le motivazioni “umanitarie” dietro alle quali si celano gli spietati aggressori odierni, burattinai di una società occidentale stanca e lacerata, svelano con chiarezza quanto, per dirla col saggista Césaire, “una civiltà che gioca con i propri principi sia una civiltà moribonda”.

di Alessandra Ciattini

La storia umana è un mattatoio

In una celebre pagina Hegel sviluppa una serie di considerazioni assai amare e tristi sulla vicenda storica umana, anche se poi – come è noto - riesce a trovare in essa un processo progressivo ed emancipatorio. Egli sottolinea l'universale transitorietà, che travolge Stati e individui, per opera della natura e della volontà umana; osserva che quadri terribili scaturiscono dalla riflessione sulla storia che possono suscitare in noi un profondo e inconsolabile cordoglio; conclude che, stante tale analisi complessiva e sconsolata, la storia umana può definirsi un mattatoio “in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli Stati, la virtù degli individui” [1]. Questa pagina di Hegel richiama alla mente un celebre sonetto del Belli, Er caffettiere filosofo, scritto nel 1833 (siamo, dunque, nella stessa fase storica anche se in un contesto differente), nel quale il poeta compara tristemente gli uomini ai chicchi del caffè che vengono inesorabilmente macinati e che, pertanto, sono tutti destinati trasformarsi in polvere, finendo annientati nella gola della morte, nonostante essi si spostino ed entrino in conflitto tra loro [2]. Il caffettiere si trasforma in filosofo perché, prendendo spunto dalla sua semplice e quotidiana attività, la cui descrizione sembra addirittura evocare l'aroma del caffè macinato, trova in essa una splendida metafora concreta con la quale rappresentare la disperante vicenda umana.

Queste considerazioni di carattere generale scaturiscono dalla riflessione sull'universale transitorietà, e quindi sulla morte, il cui pensiero angoscioso avrebbe dato vita alla nozione di al di là, per compensarci dell'inevitabile dissoluzione, ma ci spingono anche a prendere in considerazione quelle condizioni sociali e politiche, nelle quali il processo distruttivo viene incrementato e accelerato con l'impiego della violenza, della guerra e con l'ausilio di micidiali strumenti sempre più raffinati.

A questo proposito mi sembra utile citare un passo tratto dal libro Cannibali e re. Le origini delle culture (Milano 1994) dell'antropologo statunitense Marvin Harris, il quale polemizza con coloro che vedono esclusivamente il lato progressivo della storia occidentale, potenziato dal carattere misericordioso della religione cristiana. Scrive Harris: “Come tutti sanno, c'è stata una costante escalation della guerra dall'epoca della preistoria ad oggi, e cifre record di vittime di conflitti armati sono state raggiunte proprio da quegli Stati dove il cristianesimo è stata la religione predominante. Mucchi di cadaveri lasciati imputridire sul campo di battaglia non fanno meno effetto di cadaveri smembrati per una festa. Oggi, che siamo sull'orlo della terza guerra mondiale, non siamo certo in grado di guardare con disprezzo agli aztechi [che praticavano il sacrificio umano]. Nell'epoca nucleare il mondo sopravvive solo perché ciascun contendente è convinto che il livello morale dell'altro sia abbastanza basso da autorizzare, per rappresaglia, l'annientamento di centinaia di migliaia di persone al primo colpo inferto dall'avversario. Grazie alla radioattività i sopravvissuti non saranno neppure in grado di seppellire i morti, né tanto meno di mangiarli”(p. 134).

Questo dispiegamento spaventoso della violenza e della guerra da parte delle potenze europee e da quella statunitense ha coinvolto tutti i continenti, oltre al nostro, nelle due terribili guerre mondiali (e nel recente conflitto da cui è scaturito lo smembramento della Jugoslavia), e ha prodotto la distruzione e la sottomissione di vaste regioni extra-occidentali con le modalità proprie del colonialismo e del neocolonialismo. E tutto ciò nonostante gli autori di tali nefandezze si richiamino costantemente ed enfaticamente ai diritti umani, i quali individuano una serie di diritti inalienabili, riconosciuti a tutti i membri della specie umana in quanto tali, la cui elaborazione ha seguito un complesso percorso a cui, nonostante si tenda ad identificarli tourt court con la civiltà occidentale, hanno contribuito culture differenti con diversi apporti e la tragica esperienza della vicenda umana.

Dobbiamo tenere presente che la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, la quale prevedeva libertà di espressione, partecipazione alla vita politica, diritto alla sicurezza, ad un equo processo (successivamente integrati da altri diritti, come quello alla tutela dei dati personali) etc., non fu approvata da tutti gli Stati; è stata recepita nel corso di circa quarant'anni ed è stata criticata da vari punti di vista (per esempio, da parte dei paesi islamici che hanno prodotto una loro carta di diritti); alcuni (i paesi socialisti dell'epoca) hanno sottolineato il suo carattere giuridico formale, espressione della forma democratica rappresentativa propria della società capitalistica, e il mancato riconoscimento dei diritti sostanziali, sui quali si basa la reale emancipazione in particolare di quei gruppi che si trovano in spaventose condizioni di oppressione e di emarginazione. Ciò nonostante, si è ritenuto che fosse assai pericoloso abbandonare questo quadro giuridico internazionale che, benché sia spesso strumentalizzato per difendere interessi di vario ordine (si pensi per esempio al ricorso alla ingerenza umanitaria nel caso della violazione dei diritti umani), individua una serie di diritti generali, che possono accomunare individui di diversa collocazione sociale ed origine in un'unica battaglia unitaria, contro ogni tendenza a spezzare in nome del particolarismo etnico e individualistico tutti i legami unificanti tra i diversi soggetti. Ed è proprio questa una tendenza ( incentrata sulle specificità irriducibili di certi gruppi di individui, come per esempio le donne o le minoranze etniche) che è sostenuta consapevolmente o inconsapevolmente da tutti quelli che hanno polemizzato in maniera sbrigativa contro le grandi organizzazioni (partitiche o sindacali), perché insensibili alla “differenza”; in particolare, essa è in auge negli studi umanistici, anche se i processi del mondo reale ci mostrano come stia avanzando l'omologazione e come faccia strame delle difformità tanto invocate. In tale fenomeno si dispiega un movimento dal carattere duplice: enfatizzare le differenze per promuovere la frantumazione, integrare le entità frammentate e disgregate in un progetto di dominio, nel quale queste ultime non hanno nessun peso e non possono esercitare nessun protagonismo effettivo.

Se uno dei caratteri della società capitalistica nella sua fase coloniale e neo-coloniale sta effettivamente nella lacerante contraddizione tra la politica fondata sulle guerre di rapina, scaturite dal conflitto tra i diversi Stati imperialistici, e il costante richiamo al tema dei diritti umani, allo scopo di suscitare il consenso e l'accettazione di tale aberrante comportamento, è opportuno riprendere un'opera recentemente riproposto da una casa editrice italiana (Ombre corte).

Il Discorso sul colonialismo di Aimé Césaire

Nel suo Discorso sul colonialismo, pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1950, la cui lettura è oggi quanto mai raccomandabile, infatti, Aimé Césaire, l'intellettuale caraibico, saggista e poeta, denuncia la contraddizione lacerante tra la politica perseguita dalle potenze coloniali e i valori che allo stesso tempo esse proclamano quale loro indiscutibile fondamento e da cui scaturiscono il diritto alla vita, alla proprietà, alla resistenza contro l'oppressione etc.

Riflettendo sul carattere aporetico della civiltà coloniale europea e sul suo processo agonizzante di declino, egli fa una serie di affermazioni che vale la pena di riportare e sulle quali mi sembra opportuno riflettere, perché sono dense di significato e straordinariamente attuali nel nuovo scenario internazionale, in cui il processo di decolonizzazione è stato completamente ribaltato. Egli scrive: “Una civiltà che gioca con i propri principi è una civiltà moribonda” (2010: 45). Soffermandosi poi sulle questioni che a suo parere sono state create dalla stessa società europea, ma che non è in grado o non intende risolvere, aggiunge: “Una civiltà che sceglie di chiudere gli occhi di fronte alle questioni cruciali è una civiltà compromessa” (Ibidem). Egli individua tali problemi nella questione del proletariato e in quella coloniale ossia, sostanzialmente, nel carattere profondamente asimmetrico della società capitalistica che si fonda sulla pratica dello sfruttamento interno e di quello esterno, generando povertà, miseria, esclusione, marginalità.

Ma ci sono, a mio parere, altre considerazioni illuminanti nell'opera di Césaire che ci aiutano a comprendere sia la psicologia dell'oppresso-colonizzato sia quella del colonizzatore, mostrando come certi eccessi – spietatezza e crudeltà – non sono fenomeni collaterali o episodici, ma del tutto collocabili nella logica dell'oppressione-colonizzazione, la quale non può dare che questi tragici frutti. Infatti, egli scrive con una forte vena polemica: “Tra colonizzatore e colonizzato vi è spazio soltanto per le corvée, l'intimidazione, la pressione, la polizia, la frusta, lo stupro, le colture obbligatorie, il disprezzo, la diffidenza, l'insolenza, la sufficienza, la rozzezza, masse avvilite ed élite decerebrate. Nessun contatto umano, ma rapporti di dominazione e di sottomissione, che trasformano l'uomo colonizzatore in pedina, in ausiliare, in sentinella e l'uomo indigeno in strumento di produzione” (2010: 55). E a proposito del colonizzatore e della sua trasformazione nel processo di conquista ed oppressione aggiunge: “...la colonizzazione... disumanizza anche l'uomo più civilizzato... l'azione coloniale, l'impresa coloniale, la conquista fondata sul disprezzo dell'uomo indigeno, e giustificata da questo disprezzo, tende, inevitabilmente, a modificare anche colui che la intraprende. Il colonizzatore, per salvaguardare la propria buona coscienza, si abitua a vedere nell'altro la bestia [corsivo mio], si allena per trattarlo da bestia, e tende obiettivamente a trasformarsi lui stesso in bestia. È quest'azione, questo effetto boomerang della colonizzazione che è importante segnalare” (2010: 53).

Con queste parole Césaire descrive con grande sottigliezza la disumanizzazione che si realizza nelle relazioni coloniali e di dominio, che tante immagini ci documentano drammaticamente, spiegandoci con acume che, se non consideriamo e trattiamo gli altri come appartenenti alla nostra stessa specie e per questo dotati dei nostri stessi diritti, neghiamo in noi la necessità di rispettare tali diritti, che diventano pertanto un che di effimero ed aleatorio. Ma, in seguito a tale processo, dettato più che dalla riflessione da una scelta pratico-politica, si annulla ogni rapporto di comunanza con l'altro, si cancella ogni comun denominatore e si scatena ciò che con espressioni assai antiche può definirsi homo homini lupus o bellum ommnium contra omnes, con il conseguente ritorno allo stato di natura, in cui non opera ancora alcuna regolamentazione sociale. E' interessante osservare che in tale contesto, in cui tutto l'accento è posto sulle differenze intese come irriducibili e inconciliabili, possano fare presa certe forme religiose – in particolare quelle monoteistiche - le quali, nonostante abbiano talvolta pretese universalistiche, operano di fatto come elemento costitutivo dell'identità, la cui perdita o messa in discussione è spesso intesa come trionfo del caos sull'ordine conosciuto e considerato tranquillizzante.

Per queste sue caratteristiche e contraddizioni, a parere dell'intellettuale caraibico, la civiltà coloniale europea è un organismo profondamente barbarico, nonostante le sue pretese di aver portato avanti il progresso civile e intellettuale dell'uomo. E anche il riconoscimento dei suoi crimini è sempre un fatto parziale, circoscritto e orientato a non mettere in discussione la sua vera natura. Infatti, se ci soffermiamo sulla politica di sterminio portata avanti dai nazisti in Europa nel corso della Seconda Guerra mondiale, possiamo osservare che nel senso comune e nei mass media, che identificano l'olocausto con la Shoah (catastrofe), essa ha avuto come oggetto esclusivamente gli ebrei, dimenticando i rom, i dissidenti politici (in primis i comunisti), le popolazioni sovietiche, i disabili etc. E ciò ovviamente non è casuale, giacché lo Stato di Israele costituisce un baluardo della politica occidentale nel Medio Oriente, disastrato da decenni di guerre sanguinose, e che non sembrano veder soluzione.

Ma secondo Césaire c'è ancora di più, giacché tale riconoscimento parziale dei crimini commessi oscura crimini analoghi con i quali si è inflitta la distruzione e la morte ai popoli di colore e non europei nella fase coloniale e in quella contemporanea (si pensi per esempio al Vietnam e alle conseguenze dell'uso dell'agente arancio). Nelle parole dell'intellettuale caraibico tale misconoscimento dimostra che il borghese umanista e cristiano del XX secolo, atterrito e sconcertato dai campi di concentramento nazisti “...porta dentro di sé un Hitler, nascosto, rimosso”, al quale non perdona “...il crimine in sé, il crimine contro l'uomo” – come dovrebbe fare se fosse conseguente con i suoi principi - “ma il crimine contro l'uomo bianco, e il fatto di aver applicato all'Europa quei procedimenti colonialisti che sino ad allora erano riservati esclusivamente agli arabi di Algeria, ai coolie dell'India e ai neri dell'Africa” (2010: 49).

Tale atteggiamento razzista viene fuori, in particolare, se analizziamo come i mass media dominanti si soffermano, con insistenza quotidiana, sul terrorismo islamico senza ricostruire il processo della sua formazione, focalizzandosi soprattutto sulle vittime occidentali e trascurando la vicenda tragica delle vittime non occidentali spazzate via dai tanti conflitti, che si sono susseguiti negli ultimi decenni, tra i quali spicca ovviamente quello tra i gli israeliani e i palestinesi.

Se ha ragione Césaire, il borghese umanista e cristiano fa appello ai diritti umani per darne però un'applicazione parziale che non metta in causa il passato coloniale e il presente neo-coloniale, sui quali è stata costruita la supremazia politica e sociale della società capitalistica, senza rendersi conto che tale visione unilaterale, scaturita da una precisa politica di dominio, anche culturale e ideologico, e di accaparramento inconsulto delle risorse altrui, sta generando forze dirompenti che egli non è in grado di controllare; lo scatenamento di tali forze non facilmente addomesticabili porta inevitabilmente con sé disastri che possono travolgere anche lui e tutto il suo mondo “civile”.

Note

  1. Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, Firenze 1961, p. 68, pubblicate postume nel 1837.
  2. http://www.gennarocucciniello.it/gc/la-commedia-umana-di-g-gioacchino-belli-gli-intellettuali-er-caffettiere-fisolofo-22-gennaio-1833/

19/12/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: foto @zak_says

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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