Per una franca discussione sulle Foibe

Una riflessione per il “Giorno del ricordo”


Per una franca discussione sulle Foibe Credits: https://www.carnialibera1944.it/resistenza/resistenza_jugoslavia.htm

La legge n. 92 del 30 Marzo 2004, al tempo del governo Berlusconi-Fini, ha istituito il “Giorno del ricordo” per le vittime delle foibe e dell’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia, fissando la data del 10 febbraio, guarda caso giorno che ricorda la firma del trattato di pace siglato a Parigi proprio il 10 febbraio 1947 dagli Alleati con l’Italia. Con questa legge si consente un racconto del passato parziale e incompleto, si alimenta il “revisionismo storico”, che è del tutto inaccettabile e in pratica si fa dell’aggressore, l’Italia fascista, l’aggredito e quindi la vittima.

È insostenibile, alla luce degli avvenimenti, la tesi che vi sia stato nei confronti dell’Italia e degli italiani un “disegno annessionistico slavo” che “assunse i contorni sinistri di una pulizia etnica” come affermò nel 2007 l’allora presidente della Repubblica Napolitano, con conseguente incidente diplomatico con Slovenia e Croazia. Polemica che è riesplosa l’anno scorso quando Antonio Tajani di “Forza Italia”, nonché presidente del Parlamento europeo in quel momento, alla foiba di Basovizza ha concluso il suo intervento al grido “Viva Trieste, Viva l’Istria italiana, viva gli esuli italiani, viva gli eredi degli esuli italiani, evviva coloro che in ogni momento in uniforme difendono la patria, ma difendono soprattutto i valori della nostra Italia...” [1].

Al contrario di come hanno fatto i fascisti, occorre che nella scuola della Repubblica ci siano ricostruzioni storiche corrette, ben più documentate e complete di quanto si è detto fino a oggi sul 10 febbraio, “Giorno del ricordo”. Ecco perché sarebbe importante che le prossime iniziative in programma nelle scuole coinvolgano, accanto alle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati, studiosi, storici, associazioni culturali, istituti di diverso orientamento, ecc., impegnati nel dibattito e nella ricerca di merito, affinché la questione venga trattata in modo trasparente, senza nascondere o travisare i fatti accaduti; senza censura di atti, documenti, filmati, testimonianze e di quanto può servire per conoscere approfonditamente la vicenda. Tutto ciò nell’ottica di riaffermare i valori di libertà, democrazia, eguaglianza, solidarietà, pace, giustizia sociale, che sono proclamati dalla Costituzione italiana, nata dalla Resistenza antifascista.

La scelta della data è significativa perché rappresenta il tentativo di rivalsa dei fascisti, sconfitti nella Seconda guerra mondiale in quanto alleati del nazismo hitleriano, fascisti che rimasero fedeli al regime hitleriano dello sterminio, anche dopo lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia (10 luglio 1943) e l’armistizio di Cassibile (Siracusa) dell’8 settembre (era stato firmato il 3 e fu reso pubblico l’8). Di più: avevano costituito lo stato fantoccio della RSI (repubblica sociale italiana) a Salò, con il quale continuarono ad essere servi della bestiale ferocia del nazismo soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, come dimostrano le tante stragi naziste tra il ’43 e il ‘45.

Tra l’altro, non bisogna farsi ingannare dalla propaganda sulle foibe imbastita dall’estrema destra, dato che tale questione non è stata scelta per la pietà e il dolore suscitati dalla tragedia vissuta in quei territori dagli italiani uccisi e di quelli costretti all’esodo durante e subito dopo la guerra, di cui parleremo per esteso tra poco, ma, al contrario, ben prima della fine della Seconda guerra mondiale il tema era al centro del programma della stessa RSI, quando i fascisti avevano occupato e smembrato la Jugoslavia.

Infatti, nel “Manifesto programmatico del Partito repubblicano fascista del 14 Novembre 1943” si legge: “Il primo rapporto nazionale del Partito Fascista Repubblicano leva il pensiero ai Caduti del Fascismo Repubblicano sui fronti di guerra, nelle piazze delle città e dei borghi, nelle foibe dell’Istria e della Dalmazia (sottolineatura mia), che si aggiungono alla schiera dei martiri della Rivoluzione, alla falange di tutti i Morti per l’Italia; addita nella continuazione della guerra a fianco della Germania e del Giappone, fino alla vittoria finale, e nella rapida ricostituzione delle Forze Armate destinate a operare accanto ai valorosi soldati del Fϋhrer (altra sottolineatura mia), […]” [2].

Questa attenzione del fascismo verso l’area balcanica, e in particolare per la Jugoslavia, faceva parte di un disegno e di una politica espansionista che affondava le radici nei decenni precedenti, addirittura era un retaggio dell’Ottocento, ma soprattutto nell’aggressione, occupazione, repressione interna, nonché negli orrendi massacri a spese dei partigiani e, infine, nello smembramento della Jugoslavia del 1941, che negli anni Trenta, con la monarchia di Alessandro I Karageorgevic, aveva assunto caratteristiche fortemente centralistiche per svuotare le spinte autonomistiche dei vari gruppi che avevano costituito lo stato unitario [3]. Si venne a creare una zona di alta tensione, e qui sarebbe utile richiamare la “Questione d’Oriente” che segnò la storia dell’Ottocento e l’inizio di quella del Novecento con lo scoppio della Prima guerra mondiale, nella quale insistevano il Regno d’Italia, l’Austria, che però dal 1938 (dopo l’Anschluss) con la denominazione di Ostmark costituiva una provincia del Terzo Reich e lo stato indipendente croato, con l’ustascia Ante Pavelic a capo delle istituzioni; la Slovenia, invece, se la fu spartirono senza colpo ferire Italia e Germania. Così, mentre i tedeschi chiameranno i territori da loro occupati Carinzia e Carniola, gli italiani procedettero a un’annessione immediata del territorio invaso con l’istituzione della provincia di Lubiana (Rdl n. 291, del 3.5.1941).

Ancora: tra il 1943 e il 1945 il Litorale Adriatico – Adriatisches Kϋstenland – costituito dalle province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana, venne direttamente amministrato dalle forze di occupazione tedesche, che utilizzavano funzionari collaborazionisti locali. La situazione di scontro molto aspro rimase la stessa anche nell’immediato secondo dopoguerra quando i soggetti in campo erano i vincitori della guerra, ormai su posizioni opposte: discorso di Churchill a Fulton nel 1946, l’inizio della “guerra fredda” e della cortina di ferro. E in verità neanche tra i partiti comunisti le cose andavano meglio: la rottura tra l’URSS di Stalin e la Jugoslavia di Tito del ’48 fu preceduta e accompagnata dai pessimi rapporti tra i comunisti italiani (Togliatti) e quelli jugoslavi (Tito) durante e dopo la fase della Resistenza al nazifascismo.

“La guerra aveva lasciato uno strascico pesantissimo di odio e di violenza, divenuti fattori endemici della convivenza quotidiana. Entrambi gli schieramenti, pro-Italia e pro-Jugoslavia, si erano organizzati in formazioni paramilitari. […] Accanto ai partiti democratici, in nome dell’emergenza nazionale furono sdoganati ex fascisti e delinquenti comuni, i quali si resero protagonisti di cacce indiscriminate allo ‘slavo-comunista’, con pestaggi e assalti a sedi di associazioni” [4].

I fascisti assaltavano sedi politiche e sindacali, facevano scoppiare bombe e sui muri della città di Trieste si leggevano scritte come queste “Vogliamo l’Italia! Abbasso gli infoibatori! Morte ai traditori”. Con le coordinate di fondo che abbiamo individuato, crediamo sia possibile la collocazione unitaria del fenomeno “foibe” in uno spazio storico ben definito: quello del cruento passaggio di potere fra regimi contrapposti, e fra movimenti politici che si erano ferocemente combattuti per lunghi anni in uno scontro che aveva coinvolto senza risparmio l’intera società giuliana, esaltandone divisioni e contrapposizioni. “ Si tratta di un passaggio in cui, come spesso accade in questi casi, la cessazione formale delle ostilità fra gli eserciti fu ben lungi dal sedare le conflittualità profonde, e anzi, segnò il momento in cui la violenza sembrò talvolta sfuggire anche al controllo di chi era deputato a guidarne l’uso istituzionalizzato, e si frammentò negli abusi personali, si alimentò di brutali semplificazioni […] concesse spazio all’inserimento della criminalità comune, e talvolta sembrò colpire con una tragica e quasi incredibile casualità”. [5]

I massacri perpetrati dal “fascismo di confine” e dai nazisti sono noti al mondo intero, ma è utile in questa occasione dare tutti gli elementi a disposizione e citare quanto scrive lo studioso del Novecento Gianni Oliva [6]: “Occorre la massima durezza, come raccomanda Mussolini il 31 luglio 1942 in una riunione a Gorizia con Roatta e Robotti (i generali che comandavano l’esercito italiano nei Balcani, ndr):" Sono convinto che al terrore dei partigiani si debba rispondere con il ferro e con il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre". Robotti interpreta alla lettera le parole del Duce e due giorni più tardi rimprovera i suoi ufficiali perché " si ammazza troppo poco". Secondo i dati forniti dallo storico sloveno Tone Ferenc, nel corso dei vari rastrellamenti vengono fucilati 416 individui e 1153 in gruppi di due o più vittime, per un totale di 1569 persone indiziate di appoggio alla resistenza (a cui vanno aggiunti i partigiani caduti in combattimento o fucilati dopo la cattura, per i quali mancano dati precisi)”.

Ecco perché secondo i fascisti il 10 Febbraio del ’47 non fu firmata la pace, bensì la capitolazione dell’Italia nei confronti degli Alleati, nemici del regime mussoliniano e del nazifascismo sul piano mondiale; non per caso, gli storici affermano che la discriminante fondamentale della Seconda guerra mondiale fu quella tra fascismo (Germania, Italia, Giappone) e antifascismo (Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica), come del resto era avvenuto tra il 1936 e il 1939 in Spagna, e i fascisti italiani usciti sconfitti, ma graziati dall’amnistia e senza alcun “processo di Norimberga” (eppure sia gli inglesi che gli americani avevano inizialmente raccolto, a tale scopo, molto materiale), non hanno dovuto fare i conti fino in fondo con il loro passato. Ricordiamo, infatti, che il nazismo nacque sull’onda del fascismo e che Hitler si professò, pur in un quadro diverso, seguace e allievo di Mussolini.

Per spiegare sinteticamente cosa fu la RSI, occorre mettere sullo sfondo la politica dei 45 giorni, dal 25 luglio all’8 settembre del ‘43, e la collocazione che assunse la pseudo-repubblica poiché è un posto determinato, al di là delle chiacchiere, dal campo in cui si milita in un dato momento: se si sta fra i popoli che combattono per propria libertà, oppure dalla parte della più mostruosa delle tirannidi.

Peraltro, la repubblica di Salò non può nemmeno considerarsi come un risultato delle condizioni interne italiane alla stregua del primo fascismo. Nacque in Germania e fu nulla di più e nulla di diverso dai tanti governi fantoccio creati dai nazisti tedeschi in Europa. Differente solo in ciò: che gli stessi tedeschi, dopo aver liberato Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso, furono incerti se convenisse loro ripristinare il fascismo in Italia attirandosi addosso nuovo odio e nuovi guai. Tanto che in un primo momento i maggiori esperti della realtà italiana (il generale Wolff, comandante delle SS) pensarono piuttosto a un governo fantoccio composto esclusivamente di “tecnici”, un governo che si presentasse agli italiani non con l’invisa camicia nera, ma sotto l’aspetto ingannevole di un organo puramente amministrativo. Ma Hitler in persona decise la rinascita del fascismo perché manteneva una certa fiducia nelle qualità demagogico-populiste del suo ex maestro Mussolini; e soppesati i pericoli e i vantaggi di questa scelta, optò per la RSI. Del resto, il duce italiano al cospetto del suo padrone tedesco rispolverò il suo frasario demagogico-populista dicendo che avrebbe fatto leva sulle classi povere ed oppresse e che avrebbe vendicato il “tradimento della borghesia” (sic!); e su questa linea si posizionarono i gerarchi tipo Farinacci e uomini come il maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, che verrà convinto ad assumere la carica di ministro della Difesa nel governo di Salò direttamente dall’ambasciatore tedesco a Roma Rahn.

E la condanna della RSI è ancora più netta quando si guarda alle azioni collaborazioniste compiute in combutta con i nazisti, che portarono alla deportazione nei campi di concentramento e di sterminio, agli arresti e alle torture, ai massacri, alle rappresaglie, alle tantissime stragi naziste commesse durante l’occupazione dell’Italia [7]. In Italia, oltre ai civili deportati nei campi di concentramento, agli ebrei sterminati, ai militari uccisi dopo l’8 settembre 1943 o morti nei campi di internamento, più di diecimila civili, tra cui molte donne e bambini, furono vittime di atti di violenza commessi dall’occupante tedesco, con la complicità dei fascisti di Salò.

E se ancora oggi c’è qualcuno che dubita dell’amore sviscerato e del servilismo dei fascisti repubblichini verso la Germania nazista anche dopo il 25 Luglio e l’8 settembre, può consultare le fonti tedesche e fra queste le memorie del generale delle SS Wolff e le dirette fonti fasciste [8].

Con il trattato di pace del 1947 l’Italia, oltre ad alcune correzioni di confine a favore della Francia, alla restituzione di tutti i territori che aveva occupato nel corso della Seconda guerra mondiale dal 1939 al 1942 e alla perdita delle colonie, dovette cedere alla Jugoslavia l’Istria, le province di Pola, Zara, Fiume, e parte di quelle di Gorizia e Trieste: la città simbolo, Trieste, non fu assegnata né all’Italia, né alla Jugoslavia, ma costituì il “Territorio libero di Trieste” (TLT), con una amministrazione autonoma sotto tutela internazionale. Entro un anno gli italiani che avessero optato per la conservazione della propria cittadinanza, avrebbero dovuto lasciare i territori assegnati alla Jugoslavia, cosa che fece la stragrande maggioranza di essi (più di 250.000) nel corso degli anni fino al 1954 (e oltre) quando, con il Memorandum di Londra e poi nel 1975 con il trattato di Osimo, Trieste tornava all’Italia e la Zona B era definitivamente assegnata alla Jugoslavia.

E’ vero, peraltro, che una politica di repressione fu condotta dall’esercito popolare di liberazione e dalle autorità politiche jugoslave nei confronti della popolazione italiana della Venezia Giulia e dell’Istria, ma non è possibile capire la tragedia delle foibe e il dramma dell’esodo facendo partire la storia di quelle terre dal 30 Aprile del 1945, giorno dell’ingresso delle truppe jugoslave a Trieste. Foibe ed esodo furono il drammatico epilogo di una contesa lunga un secolo e il risultato di responsabilità molteplici, in primo luogo del nazifascismo italo-tedesco.

Come si sa, dopo la Prima guerra mondiale, in quell’area le frontiere furono stabilite con i trattati di Rapallo (12 novembre 1920) e di Roma (27 gennaio 1924), per mezzo dei quali l’Italia ottenne prima tutta la Venezia Giulia e poi anche Fiume: in pratica furono annesse zone abitate in prevalenza da popolazione slovena. Il trattato di Rapallo realizzava in pieno le aspettative italiane e questo era dovuto alla favorevole posizione negoziale dell’Italia, che era uscita vincitrice dalla grande guerra, pur nel quadro di quella che fu chiamata “vittoria mutilata”.

Con l’avvento del fascismo (1922) fu attuata una dura politica di oppressione nazionale e di persecuzione della popolazione slovena. Il “fascismo di frontiera” comportò una esasperazione della politica di snazionalizzazione violenta delle comunità nazionali slave, con l’obiettivo di realizzare la “bonifica etnica” della Venezia Giulia.

L’equiparazione italiani=fascisti non è stata una invenzione degli slavi, ma era il risultato della “pulizia etnica” e del “genocidio culturale” operati nella Venezia Giulia nei confronti delle minoranze slave. Fu impedito l’uso della lingua (si poteva usare solo l’italiano, anche nelle strade), sciolte le amministrazioni, soppresse tutte le scuole slovene e croate e reso obbligatorio l’insegnamento nella sola lingua italiana, italianizzate le denominazioni slave della regione e modificati i nomi di battesimo slavi in italiano (persino nei cimiteri), perseguitato il clero (anche nelle chiese non si poteva parlare sloveno o croato), bloccate le iniziative economiche, costretta la popolazione all’emigrazione. Questa politica ebbe uno sbocco “naturale” nell’aggressione e nello smembramento della Jugoslavia: il 6 aprile 1941, senza una formale dichiarazione di guerra, Germania, Italia, Ungheria e Bulgaria invasero la Jugoslavia e gran parte della Slovenia fu annessa all’Italia, formando la “provincia di Lubiana”, e così pure la Dalmazia e le isole dell’Adriatico. L’Italia mantenne anche il controllo militare del Montenegro, formalmente indipendente, e dell’Albania, ingrandita con l’aggiunta del Kosovo e della Macedonia occidentale.

Lo stato italiano, dopo aver coronato così il “sogno” degli irredentisti, aveva esteso il dominio su tutta la fascia costiera e l’Adriatico tornava a essere considerato un “mare nostrum”. Come abbiamo già detto, numerosi furono i crimini commessi dall’esercito italiano e dai fascisti, con la distruzione e l’incendio di interi villaggi e l’uccisione di tutti gli abitanti, soprattutto vecchi, donne e bambini: furono portate avanti esecuzioni di massa e fu deportata la popolazione civile in campi di concentramento “per slavi”, veri e propri lager allestiti in Italia e nei territori invasi, gestiti quasi sempre dal Regio Esercito, che provocarono la morte di migliaia di persone.

Durante i 29 mesi di occupazione italiana (1941 – ’43), nella sola provincia di Lubiana furono giustiziati 900 partigiani e circa 5.000 civili, come ostaggi o durante i rastrellamenti. Altri 7000 sloveni morirono di stenti, malattie e maltrattamenti nei campi di concentramento (Arbe, Gonars, Visco, Monigo, Renicci, ecc.).

Come dicevamo una parte di quelle terre fu occupata dai tedeschi, che ne fecero l’Adriatisches Kϋstenland: la durezza dell’occupazione nazista fu tale che Trieste fu l’unica città di tutta l’Europa occidentale ad avere un forno crematorio, la Risiera di San Sabba, dove furono uccise e cremate circa 5000 persone, soprattutto partigiani jugoslavi, dal giugno 1944 all’aprile 1945. Peraltro, nel corso del conflitto in Jugoslavia si era sviluppato un movimento unitario con un programma di rinnovamento sociale, al cui interno l’egemonia era dei comunisti, perché erano l’unica forza organizzata e i promotori della lotta. Iniziò così la lotta di liberazione, la Resistenza jugoslava, tra le più significative di tutta Europa, che si concluse con l’affermazione della leadership di Josip Broz Tito, il quale dal 1937 dirigerà il Partito comunista jugoslavo. Il 29 novembre del 1945 verrà proclamata la RPFS (Repubblica Popolare Federativa Socialista), che assunse la forma di stato federativo in base alla libera volontà espressa da tutti i popoli jugoslavi sull’unificazione in una nuova comunità statale.

Proprio in quei territori, durante e dopo la fine della guerra, ci furono numerosi episodi di violenza e di vendetta: si tratta del periodo drammatico delle “foibe istriane”, in cui furono gettate, dopo un processo sommario e la fucilazione , circa 400-500 persone, di nazionalità prevalentemente italiana. Spesso agli arresti seguivano le violenze, le torture, gli stupri; feroci in alcuni casi le uccisioni. Già il termine “foiba” (fossa) fa scattare l’immagine di un rovesciamento totale di valori: era il luogo in cui si usava gettare quello che non serviva più o quello che era pericoloso conservare, carcasse di animali, mobili, tracce di furti, cadaveri: gettare un uomo in una foiba significava quindi trattarlo come un rifiuto.

Nell’improvviso vuoto di potere determinato dall’assenza di qualsiasi autorità civile o militare, si sviluppò una vera e propria jacquerie che colpì l’intera classe dirigente italiana e tutti coloro che erano legati alla precedente amministrazione. Nelle foibe, infatti, furono trovati i corpi di diversi soldati tedeschi e traditori serbi e croati e fra gli insorti c’erano non solo croati, ma anche italiani. Alla tragedia delle foibe concorsero spinte e fattori diversi, di natura ideologica (fascismo e antifascismo), nazionale (appartenenza territoriale) e sociale (lotta di classe); molto importante risulta, quindi, per capirne le cause, il problema della nazionalità degli uccisi (furono soprattutto italiani o anche di altra nazionalità?) e quello della quantificazione, se cioè le vittime siano state alcune centinaia, migliaia o addirittura decine migliaia (le cifre riportate da alcuni fonti variano da 500 a 17.000): numeri così diversi dimostrano che sulla questione non si è fatta piena luce sul piano storico.

Riuscire a determinare il numero non costituisce una questione puramente contabile, ragionieristica: non si toglierebbe il dolore, ma cambierebbe l’analisi storica e la ricerca delle cause. Per superare, tra l’altro, le posizioni sterili di chi afferma che i morti erano tutti fascisti caduti nel corso dei combattimenti con i partigiani oppure criminali di guerra giustiziati; dall’altro versante si dice che è stato un “genocidio nazionale” contro gli italiani. Non esiste un elenco ufficiale centrale; secondo ricerche e studi storici recenti (segnalo i lavori di Sandi Volk) le persone insignite di medaglie, pur nell’accezione molto ampia del termine “infoibato” introdotto nella legge 92/2004, risultano poco più di trecento, un numero assai inferiore a quello delle migliaia di decine di “infoibati” sostenuto dai promotori della legge 92, di cui gran parte sono stati arruolati in formazioni armate dell’Italia fascista.

Pertanto, sulla base di questi numeri è insostenibile la tesi che “vi sia stato nei confronti dell’Italia e degli italiani un disegno annessionistico slavo che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”. Ma al di là di infortuni e disinvolture metodologiche, spesso sono diversi i criteri di conteggio e di valutazione delle vittime, per cui non è raro incontrare elenchi di infoibati in cui sono stati consapevolmente inseriti anche i caduti della guerra partigiana nella Venezia Giulia e talvolta anche in Dalmazia. In tal senso, una buona attendibilità possono avere le fonti Alleate, come l’ufficio addetto alle Displaced Persons, che ha fornito cifre sempre molto più contenute di quelle affermate dai promotori della legge 92.

In conclusione, la tragedia delle foibe fu quindi una conseguenza della catastrofe nella quale era precipitato il nostro Paese e che era stata provocata principalmente dal regime fascista e i fascisti che hanno riscoperto questo argomento non sono vittime e neanche spettatori distaccati; al contrario, rappresentano la parte che ha le maggiori responsabilità dei massacri che lì sono stati perpetrati contro la popolazione. Al tempo stesso, va detto che ci sono precise responsabilità del regime jugoslavo per il prevalere di alcune forme di nazionalismo al suo interno, che non permisero che vivessero quei valori di internazionalismo a cui pure si ispirava.

Questo lavoro ha un intendimento: suscitare in tutti quelli che sono interessati all’insegnamento della Storia non intesa come disciplina di cui fare un “abuso pubblico”, ma, al contrario, come disciplina che serve per “ricostruire la complessità del fatto storico attraverso l’individuazione di interconnessioni, di rapporti tra particolare e generale, tra soggetti e contesti; ancora: come disciplina che serve per acquisire la consapevolezza che le conoscenze storiche sono elaborate sulla base di fonti di natura diversa che lo storico vaglia, seleziona, ordina e interpreta secondo modelli e riferimenti culturali; a scoprire la dimensione storica del presente e ad acquisire la consapevolezza che la fiducia di intervento nel presente è connessa alla capacità di problematizzare il passato” (Programmi Brocca).

Ma ancor di più spero che possa servire, attraverso una serena e franca discussione, per contrastare “revisionismo storico”, “negazionismo” e “riduzionismo”; per difendere i valori democratici del nostro Paese, che hanno come fondamento la Repubblica nata dalla Resistenza e fondata sulla Costituzione del 1948.


Note

[1] Corriere della Sera, martedì 12 febbraio 2019, pag. 12
[2] in Michele Sarfatti, “La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Einaudi, 2005, pag. 153.
[3] Vedi il mio articolo, “Dallo Stato federale alla divisione”, “Scuolainsieme” n. 2, anno II, novembre 1995, pag. 62
[4] Patrick Karlsen, “Vittorio Vidali”, il Mulino, Bologna, 2019, pag. 244
[5] Raoul Pupo – Roberto Spazzali, “Foibe”,Bruno Mondadori, Milano, 2003, pag. 6
[6] “Si ammazza troppo poco. I crimini di guerra italiani 1940–‘43”, Le Scie Mondadori, 2006, Milano, pag. 119
[7] Vedi Lutz Klinkhammer, “Stragi naziste in Italia”, 1943–‘44, 2006, Donzelli
[8] A. Tamaro, “Due anni di storia, 1943 – 1945”, Roma, 1948 - 1949, pag. 150

08/02/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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