Per Lukács (seconda parte)

Prosegue la riflessione, avviata nello scorso numero, sull’apporto storico dato da György Lukács allo sviluppo del marxismo, in occasione del centoventesimo anniversario della sua morte. 


Per Lukács (seconda parte)

Prosegue la riflessione, avviata nello scorso numero, sull’apporto storico dato da György Lukács allo sviluppo del marxismo, in occasione del centoventesimo anniversario della sua morte. Dopo esserci soffermati nel precedente numero sulle opere giovanili del filosofo ungherese, analizzeremo ora i maggiori scritti della maturità volti a sviluppare un’organica visione del mondo marxista.  

di Renato Caputo

II Parte, segue da http://lacittafutura.it/dibattito/per-lukacs-prima-parte-di-due.html 

Il concetto di una società processuale e l’importanza del nesso fra teoria e prassi ponevano l’interpretazione di Lukács in contrasto con la vulgata del determinismo economicista dominante negli ambienti della II Internazionale. Allo stesso modo la critica all’oggettività delle scienze sociali e alla dialettica della natura contrapponeva il marxismo del giovane Lukács alla concezione del marxismo dominante nella III Internazionale. La sua teoria è stata, dunque, criticata tanto da Kautsky, quanto dal dirigente della III Internazionale, Zinov’ev, per aver sopravvalutato la spontaneità rivoluzionaria del proletariato a discapito della necessità dell’organizzazione e dell’avanguardia strutturata in partito.  

In seguito lo stesso Lukács, che nel frattempo aveva abbandonato le precedenti posizioni luxemburghiane maturando posizioni leniniste, farà autocritica rispetto ad alcune delle tesi di Storia e coscienza di classe. In particolare nella prefazione alla riedizione di Storia e coscienza di classe del 1967, Lukács sosterrà di aver sovrapposto in modo troppo immediato i concetti idealisti hegeliani a quelli marxisti, perdendo di vista il contributo decisivo dato da Marx per concretizzare, storicizzandolo, l’astratto apparato concettuale hegeliano. Così, ad esempio, l’alienazione del lavoro che per Hegel è un momento necessario dell’oggettivizzazione della soggettività umana in ogni epoca storica, viene determinato nel concetto di estraniazione di Marx, per dar conto della specificità storica del lavoro salariato in cui il lavoratore aliena al capitalista la sua capacità produttiva, ovvero la propria essenza generica.

La maturazione di posizioni leniniste porta Lukács a riavvicinarsi all’Unione sovietica, dove trova rifugio in seguito all’espulsione dall’Austria. Per tale ragione diversi interpreti considerano la successiva produzione di Lukács non più ascrivibile al marxismo occidentale. Tuttavia, pur risiedendo a lungo in URSS, Lukács mantiene una posizione autonoma nei confronti del Dia-mat, insistendo, nella sua interpretazione del marxismo, sull’influenza della filosofia classica tedesca nella formazione del metodo dialettico e nella concezione della storia di Marx.  

Tornato in Ungheria dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando nel paese si instaura una democrazia popolare sotto la guida del Partito Comunista, Lukács pubblica Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica (1948). In tale opera Lukács interpreta Hegel come l’ultimo grande esponente della fase ascendente e progressista della borghesia tedesca, in opposizione alle concezioni dominanti che lo consideravano un sostenitore dell’assolutismo prussiano. In contrasto con le interpretazioni legate alla filosofia della vita, che consideravano il giovane Hegel un pensatore romantico e mistico, Lukács mostra l’importanza per la formazione di Hegel dello studio dell’economia classica e il suo costante interesse per le questioni sociali del mondo moderno, dalla disoccupazione, al pauperismo, alla funzione del lavoro nella società capitalistica. Rielaborando il tema del rapporto fra il marxismo e la filosofia hegeliana, alle origini del marxismo occidentale, Lukács mostra, dunque, come il metodo dialettico sia sorto a contatto con gli interessi politico-sociali ed economici del giovane Hegel. Lo spirito rivoluzionario del giovane filosofo tedesco solo in seguito si sarebbe piegato a una sostanziale giustificazione della società borghese in formazione in Germania. Marx, nella sua disamina dialettica dell’economia politica e della storia, avrebbe concretizzato la dialettica hegeliana liberandola dal suo rovesciamento metafisico nel sistema.  

In La distruzione della ragione (1954), Lukács si occupa della fase storica in cui il pensiero borghese, di fronte al protagonismo crescente delle masse sul palcoscenico della storia, avrebbe progressivamente ripiegato su posizioni irrazionali, abbandonando la stessa dialettica storica che aveva elaborato nella sua fase rivoluzionaria. In tal modo la borghesia ha abbandonato la sua funzione storica progressiva per divenire sempre più conservatrice. A parere di Lukács, dalla filosofia del secondo Schelling, passando per Schopenhauer, Nietzsche sino a Heidegger il pensiero borghese avrebbe volto le spalle all’umanesimo, al progresso storico, all’universalismo della tradizione razionalista e poi illuminista che si compie in Hegel ed è ereditata dal marxismo, per abbracciare una visione del mondo sempre più irrazionalista. Tale concezione del mondo si afferma in corrispondenza della crisi del modo di produzione capitalistico, che ha reso necessaria una politica estera e di conseguenza interna più aggressiva, di stampo imperialistico, che raggiungerà il proprio apice con l’avvento del nazionalsocialismo.  

In questi anni Lukács, che ha sempre mantenuto vivo il proprio interesse per la filosofia dell’arte, pubblica opere quali i Contributi alla storia dell’estetica (1954) e i due tomi dell’Estetica (1963). Tali opere hanno stimolato ampi dibattiti sul senso dell’arte dagli anni cinquanta agli anni ottanta del Novecento, sia nei paesi socialisti che capitalisti. In esse Lukács si è misurato con il compito di fondare un’estetica e una letteratura di impronta marxista, indicando una tradizione cui possa ispirarsi l’arte socialista. Solo riappropriandosi di tale eredità storica, ovvero di quanto di meglio hanno elaborato sul piano letterario le precedenti civiltà, potrà sorgere un realismo socialista in grado di rivoluzionare in profondità lo stesso campo dell’estetica.  

In effetti, ogni autentica opera d’arte (per la letteratura Lukács si richiama ai grandi esempi di Goethe, Tolstoj, Balzac e T. Mann) è a suo parere caratterizzata dal realismo, che consentirebbe di ricostruire attraverso personaggi tipici gli aspetti di fondo di ogni epoca storica. La grande arte, dunque, a suo parere sempre realista, è una forma peculiare di conoscenza, un rispecchiamento non fotografico, ma critico della realtà sociale. Lukács mira a superare tanto la concezione materialistica volgare del rispecchiamento di un presunto reale indipendente dal soggetto sociale che lo indaga esteticamente, quanto la concezione idealista, mostrando che il valore sovrastorico dei capolavori artistici è in primo luogo dovuto alla loro capacità di cogliere l’essenza del proprio mondo storico e sociale.  

L’arte realista non va dunque, sostiene Lukács, confusa con quella naturalista, come spesso accadeva nell’estetica marxista precedente, che si limitava a un rispecchiamento fenomenico dell’esistente senza far emergere le contraddizioni fondamentali di ogni epoca storica. L’arte naturalista è astratta in quanto mira a riprodurre ciò che è «medio» in un determinato ambiente, mentre l’arte realista è concreta in quanto rappresenta il «tipico» di un insieme sociale, facendo così emergere le differenze interne che lo caratterizzano.  

L’arte deve dunque mirare, secondo Lukács, alla rappresentazione del tipico quale mediazione dialettica dell’universale e della realtà particolare in cui l’ideale si incarna. Essa corrisponde logicamente al concetto di particolare, quale luogo della mediazione storicamente determinata fra individuale e universale sociale. In esso si sintetizzano le caratteristiche generali dell’uomo con l’individuo storicamente determinato, facendo emergere il significato più autentico, le tendenze profonde ed essenziali di un insieme sociale. La rappresentazione artistica riesce pienamente, a parere di Lukács, solo quando è in grado di enucleare gli aspetti tipici di un contesto storico e sociale.  

La vera opera d’arte è, quindi, a parere di Lukács quella in grado di rappresentare la totalità della vita umana nel processo storico del suo contraddittorio sviluppo e i suoi differenti «tipi» sociali, contribuendo a chiarire l’essenza di un mondo storico. Perciò Lukács distingue fra autori realisti (Goethe, Tolstoj, Balzac e T. Mann) che sono in grado di ricomprendere nelle loro opere la totalità di un’epoca storica e di rappresentare l’uomo nella sua complessità, e le opere romantiche (Kleist) o della crisi novecentesca (Kafka, Proust, Joyce) che non riescono a riprodurre che squarci della vita interiore e istantanee della realtà storica, non ricomprese in un insieme organico.  

Dopo la morte di Stalin, Lukács sostiene il tentativo di riforma interna del sistema socialista tentata da Krusciov ed è ministro nel governo di Imre Nagy (1956) che cerca di portare l’Ungheria al di fuori dell’orbita sovietica. Dopo l’occupazione del paese da parte delle truppe del Patto di Varsavia, Lukács è costretto a un breve periodo di esilio in Romania e viene riammesso nel Partito Comunista solo nel 1967.  

Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla stesura della sua opera maggiormente sistematica: L’ontologia dell’essere sociale. Pubblicata postuma, essa costituisce il più ampio e ambizioso tentativo di costruire un sistema filosofico sulla base dell’opera di Marx, in cui sarebbero rinvenibili i lineamenti di un’ontologia storico-materialistica capace di superare dialetticamente l’idealismo logico-ontologico di Hegel, punto d’approdo della filosofia borghese. Nella prima parte del volume Lukács ricostruisce la storia dell’ontologia sino alla sua epoca, sforzandosi di interpretare le grandi riflessioni sull’ontologia del passato (da Aristotele a Spinoza, da Hegel a Hartmann) quali tentativi di risolvere problemi sociali storicamente determinati. Nella seconda parte dell’opera Lukács espone la sua concezione dell’essere articolandola in tre momenti – inorganico, organico e sociale – legati da un processo di superamento dialettico. La parte più corposa del libro è dedicata all’analisi dell’essere sociale, che supera l’essere organico in quanto costruisce mediante il lavoro il proprio mondo storico.  

Ponendosi su tale strada la scuola filosofica di Budapest, riunitasi intorno a Lukács, dopo la sua morte si sforzerà di analizzare i risvolti dei processi generali della società nella concretezza della vita quotidiana e dei rapporti fra gli individui. Principale protagonista di tali ricerche negli anni Settanta è stata Agnes Heller.  

23/08/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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