Pantragismo e saggismo

Prima dell’approdo al marxismo il giovane Lukács è affascinato dall’irrazionalistica filosofia della vita e dalla metafisica esistenzialistica che riscopre, in opposizione al razionalismo, la prospettiva pantragica di Kierkegaard.


Pantragismo e saggismo Credits: https://bodosproject.blogspot.com/2012/06/lavoro-salariato-lavoro-alienato.html

Il criterio in base al quale il giovane György Lukács valuta la decadenza della borghesia – difficilmente rappresentabile drammaturgicamente – è dato dal confronto fra società “chiusa”, organica, come era la società antica e società “aperta”, meccanica, caratteristica della società moderna. Di conseguenza, le analisi della prima monografia di Lukács, Il dramma moderno, sono sorrette da una filosofia della storia non dissimile da quella che il filosofo svilupperà più tardi nella Teoria del romanzo. Tuttavia, accanto all’approccio storico-filosofico sussiste una metodologia che si avvale di un principio metafisico-esistenziale, alla cui legalità atemporale viene sottoposta l’empiria storica: tale principio è la tragedia. Questa oscillazione metodologica attraversa, a parere dell’ex allievo G. Márkus, l’intero periodo giovanile pre-marxista di Lukács. Osserva a tal proposito Márkus: “durante tutto questo periodo creativo, la diagnosi comporta un costante parallelismo tra analisi metafisico-esistenziale ed analisi storica. I due procedimenti o livelli di analisi si alternano in certo senso a seconda del saggio, ma spesso si intersecano addirittura all’interno dello stesso saggio, cosicché una loro netta separazione o contrapposizione è per così dire solo costruzione interpretativa. [...] Dietro il problema mai risolto negli anni giovanili, del “parallelismo” metodologico sta infatti un dilemma più profondo, un dilemma di Weltanschauung […]. La questione è se lo stato presente sia espressione della tragedia ontologico-esistenziale della cultura oppure di una sua crisi storica, e come tale superabile”. [1]

Resta da decidere se ne Il dramma moderno il metastoricismo della forma tragica riesca a condizionare sotto la propria normatività l’approccio storico-filosofico, oppure se il tragicismo a sfondo ontologico sia una caratteristica propria de L’anima e le forme e, ivi, principalmente del saggio Metafisica della tragedia. Riferendosi alle indicazioni di G. Márkus, F. Fehér propende per quest’ultima ipotesi: Metafisica della tragedia segna a suo avviso il passaggio a una visione “pantragica”, che si fonda sulla irrazionalistica filosofia della vita (Lebensphilosophie) e sfocia nell’estasi della morte, precorrendo la prospettiva presente nel periodo di Heidelberg nella Filosofia dell’arte, opera in cui sarà la concezione del mondo [Weltanschauung] a trasformarsi in elemento atemporale trascendente l’opera d’arte. Dunque, secondo Fehér, “precorritrice della svolta pantragica, battistrada della metodologia e della concezione dei manoscritti estetici, è la Metafisica della tragedia, in cui la separazione di vita e opera d’arte è già acquisita. Questa separazione non è divergenza: è totale eterogeneità”. [2] Fehér richiama un passo de Il dramma moderno, nel quale egli individua il trapassare dell’analisi “storico-filosofica” nel metastoricismo che diventerà tipico in Metafisica della tragedia: è il passo in cui Lukács esamina la questione dell’effetto tragico, effetto paradossale in quanto la morte tragica dell’eroe suscita nello spettatore un senso liberatorio di godimento di fronte all’emergere di una personalità eccezionale: “«l’essenziale [nella tragedia] è che una vita acquisti la propria espressione nel tramonto, nella rovina, che il massimo della vita sia raggiungibile solo nella morte e che questo momento sia rappresentativo della vita tipica […]. Quando nella vita i massimi valori si sviliscono, si deturpano ed eventualmente vengono distrutti tra dolori e atrocità terribili, allora insorge un senso di gioia di fronte alla rappresentazione di una morte eccezionale […]. La tragedia rende consapevoli i processi vitali, sicché si prova una gioia inebriante quando si riesce a vederli in trasparenza e a comprenderne la necessità»”. [3]

L’anima e le forme è una raccolta di saggi del 1911, introdotta da uno studio sul saggio – presentato sotto forma di lettera all’amico Leo Popper – in cui Lukács si sofferma sullo statuto della forma saggistica, analizzandone le caratteristiche peculiari rispetto ad altre espressioni culturali. Il saggio è, per Lukács, una forma intermedia tra letteratura e filosofia, tra poesia e scienza: se “nella scienza c’impressionano i contenuti, nell’arte le forme; la scienza ci offre i fatti e le loro connessioni, l’arte invece ci offre anime e destini”, [4] il saggio è poesia e pensiero contemporaneamente, senza identificarsi con nessuno dei due. Il saggista, infatti, non crea nulla di nuovo come fa il poeta, ma si riferisce a ciò che è già formato; il suo discorso non attinge direttamente alla vita, ma vuole semplicemente dare ordine a ciò che già esiste. Nel saggio vibra la tensione verso la verità, “ma come Saul, il quale era partito per cercare le asine di suo padre e trovò un regno, così il saggista, che sa cercare realmente la verità raggiungerà alla fine del suo cammino la meta non ricercata, la vita”. [5] L’espressione concettuale con cui il saggista esercita il proprio acume critico non possiede il rigore dell’argomentazione filosofica, né, del resto, egli pretende di pronunciare la parola definitiva sull’oggetto delle proprie riflessioni. Come osserva a tal proposito Lukács: “il saggio è un tribunale, ma ciò che è essenziale e istitutore di valori in lui (come nel sistema) non è la sentenza ma il processo di giudizio”. [6] Nella situazione attuale, radicalmente problematica e priva di valori definiti, al saggista moderno non resta altro che prendere atto di questo stato di precarietà e riferirsi con atteggiamento disincantato all’opera d’arte, che diventa così un pretesto, un’occasione per delle considerazioni intorno all’idea da essa suggerita. Dunque, come nota Lukács: “l’idea è il termine di misura di tutto ciò che esiste, perciò il critico che rivela «come pretesto» l’idea contenuta in qualche creazione, sarà anche l’autore della sola vera profonda critica: a contatto con l’idea soltanto ciò che è grande e ciò che è vero può vivere. Pronunciata questa parola magica, tutto il marcio, il meschino, l’incompiuto perdono la loro essenza usurpata e la loro esistenza falsamente accumulata. Non c’è nulla da «criticare», basta l’atmosfera dell’idea per pronunciare la sentenza”. [7] La sentenza, cui qui si allude, è pronunciata sulla vita comune, che è il mondo delle istituzioni pietrificate, resosi estraneo rispetto all’anima e dalla quale un tempo sono state prodotte; è il mondo in cui “la nostra esistenza umana non ha alcuna reale necessità; se non quella di essere inghiottita da mille fili in mezzo ai mille legami e alle mille relazioni accidentali”. [8]

La nozione di anima, nel contesto del periodo saggistico, possiede una doppia accezione: da una parte ha una valenza metafisica, nel senso che esprime la soggettività in generale creatrice delle istituzioni e dell’universo culturale umano; dall’altra ha un valore esistenziale, nel senso che non è la semplice somma dell’impressione e del flusso degli attimi vissuti [Erlebnisse], ma punto focale della volontà nel suo anelito alla forma e alla donazione di senso, per cui si identifica con l’individualità autentica e irriducibile del singolo uomo. Sotto quest’ultimo aspetto, gli strali polemici sono indirizzati contro la concezione hegeliana dello spirito, in linea con la critica kierkegaardiana a Hegel. Insomma: “solo il singolo, solo l’individuo spinto ai suoi limiti estremi è adeguato alla sua idea, è realmente esistente. Il generale, che racchiude tutto in una compagine incolore e informe, è nella sua infinità di significati troppo impotente, troppo vuoto nella sua unità, per poter diventare reale” [ivi : 240]. È su questa base che T. Perlini, dissentendo con la tesi di L. Goldmann, ritiene essere Kierkegaard e non Kant il “nume tutelare” di Lukács ne L’anima e le forme. [9]

La vita contro la vita comune, l’anima in lotta per l’autenticità contro il mondo delle formazioni cristallizzate, che le si oppone con la sua inerzia e opacità, sono questi i poli inconciliabili di una concezione dualistica che, sul piano etico sancisce la scissione tra essere e dover essere e sul piano metafisico mantiene la separazione tra l’esistenza, il fenomeno e l’essenza.

In Metafisica della tragedia tale dualismo appare esasperato e inconciliabile. Soltanto gli uomini sublimi sono capaci di essenzialità. Soltanto all’animo nobile, che si sottopone al destino e alla sua necessità, mantenendo integra la propria interiorità di fronte al caos dell’esistenza, spetta il privilegio della tragedia. Gli uomini comuni non possono elevarsi a questa altezza, poiché nella loro esistenza priva di forma sono trascinati dalle circostanze e dalla casualità, cui nulla sanno opporre.

Nel momento più alto della tragedia, nella morte dell’eroe, si concentra il significato dell’esistenza; ogni temporalità della vita comune è soppressa, così come ogni ricerca del “perché” e del “per come”. La necessità regna sovrana e si identifica con l’essenza: l’eroe muore, ma è come se fosse morto “già da lunga pezza, prima di morire”. [10]

Il giudizio negativo sull’esistenza investe anche la storia “soltanto la morte è il ritorno, il primo ed unico raggiungimento della propria essenza; la grande contesa in ultima analisi era soltanto una strada complicata per arrivarci. La storia, per la sua stessa realtà irrazionale, impone all’uomo la dimensione della pura generalità, non gli consente di esprimere l’idea sua propria, che su un altro piano, è altrettanto irrazionale: dal loro contatto scaturisce una reciproca estraneità: la dimensione della generalità. La necessità storica è, tra tutte le necessità, ancora la più prossima all’esistenza”. [11] Il contrasto ineliminabile tra la vita e la vita, tra essenza e fenomeno ha, come abbiamo già visto, giustificato l’interpretazione che Fehér dà della tragedia come principio metafisico.

 

Note:

[1] Márkus, G., “L’anima e la vita”, in AA.VV., La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, traduz. di E. Franchetti, Firenze, La Nuova Italia 1978, pp. 82-3.

[2] Fehér, F., “Filosofia della storia del dramma; in ivi, p. 276.

[3] Ivi, pp. 274.75.

[4] Lukács, G., L’anima e le forme [1911], traduz. di S. Bologna, SugarCo Edizioni, Milano 1963, p. 15.

[5] Ivi: p. 26.

[6] Ivi: p. 34.

[7] Ivi: p. 32.

[8] Ivi: p. 233.

[9] Cfr. Perlini, T., Utopia e prospettiva in György Lukács, Dedalo Libri, Bari 1968, pp. 102-110.

[10] Lukács, G., L’anima…, op. cit., p. 237.

[11] Ivi: p. 252.

18/12/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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