Masse e funzione intellettuale in Gramsci

Le associazioni politiche e sociali costituiscono il principale antidoto ai rischi di derive demagogiche, ponendosi quale indispensabile termine medio fra l’esecutivo e le masse


Masse e funzione intellettuale in Gramsci Credits: https://www.editorialedomani.it/idee/cultura/newsletter-cose-da-maschi-jhumpa-lahiri-laurea-ad-honorem-bologna-gramsci-kqzorhsk

A parere di Antonio Gramsci la legge dei grandi numeri “può essere impiegata nella scienza e nell’arte politica solo fino a quando le grandi masse della popolazione rimangono essenzialmente passive (…) o si suppone rimangano passive. D’altronde l’estensione della legge statistica alla scienza e all’arte politica può avere conseguenze molto gravi in quanto si assume per costruire prospettive e programmi d’azione (…). Infatti nella politica l’assunzione della legge statistica come legge essenziale, fatalmente operante (…) favorisce la pigrizia mentale e la superficialità programmatica” [1]. Dal momento che non è possibile una trasformazione culturale e morale di una grande massa in modo molecolare “occorre, per affrettare il processo, conquistare i dirigenti naturali delle grandi masse, cioè gli intellettuali o formare gruppi di intellettuali di nuovo tipo” (p. 908), analizzando l’ideologia di cui sono portatori per poterla superare dialetticamente [2]. La produzione di intellettuali organici alla propria classe svolge quindi una funzione decisiva all’interno del conflitto sociale, con una significativa eccezione, che Gramsci chiarisce nel seguente modo: “così è da notare che la massa dei contadini, quantunque svolga una funzione essenziale nel mondo della produzione, non elabora propri intellettuali "organici" e non "assimila" nessun ceto di intellettuali "tradizionali", quantunque dalla massa dei contadini altri gruppi sociali tolgano molti dei loro intellettuali e gran parte degli intellettuali tradizionali siano di origine contadina)” (p. 1514). Più in generale, come puntualizza Gramsci, nel senso ampio del termine “alla categoria di intellettuali appartiene anche lo strato sociale che esercita funzioni organizzative in senso lato, sia nel campo della produzione, sia in quello della cultura, e in quello politico-amministrativo” (p. 2041).

D’altra parte, nonostante le resistenze poste dai “preconcetti di casta”, radicati soprattutto fra gli intellettuali tradizionali, come osserva Gramsci: la funzione degli intellettuali tende ad allargarsi enormemente nella società moderna in termini tanto quantitativi che qualitativi [3]. Allo stesso modo, nonostante la solidarietà di casta e lo spirito di corpo presente soprattutto negli strati inferiori, anche la graduazione della funzione intellettuale tende ad ampliarsi notevolmente. La divisione del lavoro – all’interno della funzione connettiva e organizzativa svolta dagli intellettuali al livello della sovrastruttura, in modo più o meno organico alla classe che domina la struttura sociale – si articola in due momenti principali: 1) una stratificazione interna visibile soprattutto fra gli intellettuali tradizionali: “nel più alto gradino saranno da porre i creatori delle varie scienze, della filosofia, dell’arte, ecc.; nel più basso i più umili "amministratori" e divulgatori della ricchezza intellettuale già esistente, tradizionale, accumulata”; 2) una stratificazione di mansioni presente soprattutto fra gli intellettuali organici, fra le funzioni direttamente direttive e organizzative degli apparati statuali o della società civile e “una serie di impieghi di carattere manuale e strumentale (di ordine e non di concetto, di agente e non di ufficiale o funzionario ecc.)” (p. 1520).

Del resto, se l’emancipazione delle masse dalla gerarchia immobile del feudalesimo consente ai governi borghesi di affermarsi e stabilizzarsi contro le forze reazionarie, tuttavia lascia aperta la possibilità di un’organizzazione autonoma delle masse che spaventa le nuove classi dominanti al punto da spingerle su posizioni antidemocratiche. Gramsci cita l’esempio degli Eurasiatici, emigrati reazionari russi, che “sono nemici della democrazia e del parlamentarismo occidentale. Essi si atteggiano spesso a fascisti russi, come amici di uno Stato forte in cui la disciplina, l’autorità, la gerarchia abbiano a dominare sulla massa. Sono partigiani di una dittatura e salutano l’ordine statale vigente nella Russia dei Soviet per quanto essi vagheggino di sostituire l’ideologia nazionale a quella proletaria” (pp. 180-81).

Proprio perciò, le associazioni politiche e sociali costituiscono il principale antidoto ai rischi di derive demagogiche, ponendosi quale indispensabile termine medio fra l’esecutivo e le masse. D’altra parte, mediante il controllo dei mezzi di comunicazione di massa i demagoghi possono “suscitare estemporaneamente scoppi di panico o di entusiasmo fittizio che permettono il raggiungimento di scopi determinati nelle elezioni, per esempio. Tutto ciò è legato al carattere della sovranità popolare, che viene esercitata una volta ogni 3-4-5 anni: basta avere il predominio ideologico (o meglio emotivo) in quel giorno determinato per avere una maggioranza che dominerà per 3-4-5 anni, anche se, passata l’emozione, la massa elettorale si stacca dalla sua espressione legale (paese legale non eguale a paese reale)” (p. 929). Dunque i demagoghi, nel senso più deteriore del termine, si servono “delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi plebiscitari)” (p. 772).

Questione decisiva è a questo punto per Gramsci il ruolo attivo (positivo) o passivo (negativo) delle masse che si esplicita nel primo caso attraverso le sue organizzazioni autonome nel secondo caso nella rivoluzione passiva. Naturalmente le organizzazioni delle masse hanno bisogno di una lunga fase di elaborazione per trovare la forma adeguata nei partiti di massa moderni. Le antecedenti forme inadeguate di organizzazione si riflettono necessariamente nei limiti di analisi dei loro primi teorici: Hegel e Marx. Quest’ultimo, pur non disponendo, come osserva Gramsci, di “esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superiori)”, ne sviluppa la teoria proprio mediante il superiore “senso delle masse” che ha potuto sviluppare nella “sua attività giornalistica e agitatoria” (p. 56). Il limite della concezione marxiana dell’associazione politica è dovuta al limite storico della realtà su cui riflette, in cui le organizzazioni politiche non si erano ancora emancipate dalle organizzazioni corporative, dai “clubs giacobini” dominati da singole individualità e gruppi ristretti di intellettuali e dalle “cospirazioni segrete di piccoli gruppi” (ibidem) necessariamente dominanti fra il Termidoro e il 1848. Gramsci dà grande rilievo alla pionieristica riflessione hegeliana sull’associazionismo moderno, sorta riflettendo proprio sulla Rivoluzione francese. A suo parere, contro l’interpretazione liberale che fa del filosofo di Stoccarda un sostenitore dello Stato dell'ancien régime, “Hegel, in un certo senso supera già, così, il puro costituzionalismo e teorizza lo Stato parlamentare col suo regime dei partiti” (ibidem).

D’altra parte, come osserva ancora acutamente Gramsci: la concezione hegeliana “dell’associazione non può essere che ancora vaga e primitiva, tra il politico e l’economico, secondo l’esperienza storica del tempo, che era molto ristretta e dava un solo esempio compiuto di organizzazione, quello “corporativo” (politica innestata nell’economia)” (ibidem) [4].

Note:

[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, pp. 1429-430. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando i numeri di pagina di questa edizione.

[2] Gramsci approfondisce tale problematica con un significativo esempio storico: “l’esperienza di molti paesi, e prima di tutto della Francia nel periodo della grande rivoluzione, ha dimostrato che se i contadini si muovono per impulsi "spontanei", gli intellettuali cominciano a oscillare e, reciprocamente, se un gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base di una politica filo contadina concreta, esso finisce col trascinare con sé frazioni di massa sempre più importanti. Si può dire però che, data la dispersione e l’isolamento della popolazione rurale e la difficoltà quindi di concentrarla in solide organizzazioni, conviene iniziare il movimento dai gruppi intellettuali; in generale però è il rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener presente. Si può anche dire che partiti contadini nel senso stretto della parola è quasi impossibile crearne: il partito contadino si realizza in generale solo come forte corrente di opinioni, non già in forme schematiche d’inquadramento burocratico; tuttavia l’esistenza anche solo di uno scheletro organizzativo è di utilità immensa, sia per una certa selezione di uomini, sia per controllare i gruppi intellettuali e impedire che gli interessi di casta li trasportino impercettibilmente in altro terreno” (pp. 2024-25).

[3] Come chiarisce a tal proposito Gramsci: “l’imprenditore capitalistico crea con sé il tecnico dell’industria, lo scienziato dell’economia politica, l’organizzatore di una nuova cultura, di un nuovo diritto, ecc. ecc. Occorre notare il fatto che l’imprenditore rappresenta una elaborazione sociale superiore, già caratterizzata da una certa capacità dirigente e tecnica (cioè intellettuale): egli deve avere una certa capacità tecnica, oltre che nella sfera circoscritta della sua attività e della sua iniziativa, anche in altre sfere, almeno in quelle più vicine alla produzione economica (deve essere un organizzatore di masse d’uomini, deve essere un organizzatore della "fiducia" dei risparmiatori nella sua azienda, dei compratori della sua merce ecc.). Se non tutti gli imprenditori, almeno una élite di essi deve avere una capacità di organizzatore della società in generale, in tutto il suo complesso organismo di servizi, fino all’organismo statale, per la necessità di creare le condizioni più favorevoli all’espansione della propria classe; o deve possedere per lo meno la capacità di scegliere i "commessi" (impiegati specializzati) cui affidare questa attività organizzatrice dei rapporti generali esterni all’azienda” (p. 1513).

[4] Come chiarisce a tal proposito Gramsci: “la Rivoluzione francese offre due tipi prevalenti: i clubs, che sono organizzazioni non rigide, tipo "comizio popolare", centralizzate da singole individualità politiche, ognuna delle quali ha il suo giornale, con cui tiene desta l’attenzione e l’interesse di una determinata clientela sfumata ai margini, che poi sostiene le tesi del giornale nelle riunioni del club. È certo che in mezzo agli assidui dei clubs dovevano esistere raggruppamenti ristretti e selezionati di gente che si conosceva reciprocamente, che si riuniva a parte e preparava l’atmosfera delle riunioni per sostenere l’una o l’altra corrente secondo i momenti e anche secondo gli interessi concreti in gioco. Le cospirazioni segrete, che poi ebbero tanta diffusione in Italia prima del 48, dovettero svilupparsi dopo il Termidoro in Francia, tra i seguaci di seconda linea del giacobinismo, con molte difficoltà nel periodo napoleonico per l’occhiuto controllo della polizia, con più facilità dal 15 al 30 sotto la Restaurazione, che fu abbastanza liberale alla base e non aveva certe preoccupazioni. In questo periodo dal 15 al 30 dovette avvenire la differenziazione del campo politico popolare, che appare già notevole nelle "gloriose giornate" del 1830, in cui affiorano le formazioni venutesi costituendo nel quindicennio precedente. Dopo il 30 e fino al 48 questo processo di differenziazione si perfeziona e dà dei tipi abbastanza compiuti con Blanqui e con Filippo Buonarroti.

È difficile che Hegel potesse conoscere da vicino queste esperienze storiche, che invece erano più vivaci in Marx” (pp. 56-7).

 

15/07/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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