Gli aspetti fondamentali che dovrebbero caratterizzare il futuro Stato socialista sono, secondo Karl Marx, in primo luogo: l’autogoverno dei produttori, che consentirà di realizzare per la prima volta una reale democrazia, intesa rettamente quale potere delle masse popolari lavoratrici, con il fine ultimo di superare la separazione dello Stato politico dalla società civile tipica della società borghese. Per cui, in Marx, “la rivoluzione proletaria cessa di apparire come un processo simmetrico alle rivoluzioni borghesi, […] nel senso di un nuovo orizzonte espansivo della politica. Questo orizzonte si intende come ripresa e approfondimento della tendenza all’autogoverno popolare che si afferma nel momento fondante giacobino originario, e nutre le analisi neomarxiste della ‘vera democrazia’ e della fine dello ‘Stato politico separato’. Anche in questo senso, la Comune avrà rilanciato l’incontro dell’esperienza rivoluzionaria francese e della teoria tedesca che fonda la nostra modernità politica”. [1] D’altra parte la posizione di Marx su tre questioni decisive, ovvero sulla democrazia, i diritti umani e il superamento dello Stato è, quanto meno, duplice. In primo luogo, il fine e la fine dello Stato dovrebbero, da un punto di vista marxiano, corrispondere al suo superamento dialettico [Aufhebung] nella società comunista, ovvero al suo inverarsi – togliendo la propria astratta separatezza – in una società civile in grado di autoregolarsi, di autogestirsi. In tal modo, la sfera politica non sarà più contrapposta – come avviene nella società capitalista – alla sfera privata degli affari cui è degradato l’uomo nella società borghese. La sfera politica sarà tolta, superata dialetticamente nell’umanesimo radicale in cui la dimensione privata non sarà più contrapposta a una sfera pubblica da essa separata, nella forma estraniata del dominio statuale. Nel modo di produzione capitalistico, al contrario, il dominio della società civile borghese sullo Stato politico fa di quest’ultimo un organo sovrapposto alla società umana. Non si tratta, dunque, per Marx di riproporre hegelianamente o socialdemocraticamente il controllo dello Stato politico sulla economica società civile, ma di emancipare quest’ultima dai rapporti di produzione capitalistici e di subordinare lo Stato alle esigenze poste dallo sviluppo sociale e delle stesse forze produttive.
È, dunque, possibile che la questione tanto discussa del superamento dello Stato nella prospettiva comunista di Marx abbia conosciuto un decisivo sviluppo, in parallelo allo sviluppo della concezione marxiana dello Stato. Presumibilmente, in particolare il giovane Marx, quando inizia a porsi la questione doveva ancora avere come riferimenti (critici) principali dal punto di vista teorico la concezione idealista dello Stato di Hegel e dal punto di vista storico gli Stati borghesi che si stavano proprio allora affermando. Tali dovevano essere i modelli, per esempio, dello Stato politico di cui disquisisce Marx in Sulla questione ebraica, ovvero lo Stato che definisce democratico (borghese). Solo in seguito al sorgere dell’idea di uno Stato socialista (proletario) questa problematica sarà dialetticamente superata, nella prospettiva della fase transitoria della dittatura del proletariato, che consentirà il progressivo superamento delle classi e la realizzazione di una democrazia e libertà sostanziali e non solo formali come erano destinate a rimanere anche nello Stato borghese maggiormente (liberal)democratico.
In Sulla questione ebraica, sebbene il giovane Marx critichi anche severamente le posizioni sinceramente democratiche rousseauiane, la sua critica non è però da considerare una critica assoluta, scettica, meramente distruttiva, ma, piuttosto, una critica determinata e funzionale al superamento dialettico, che implica l’abbandono degli elementi non più attuali della posizione precedente e, al contempo, la tesaurizzazione degli aspetti ancora validi. Come ha osservato, a ragione, a questo proposito Umberto Cerroni: “nella Questione ebraica Marx critica il Rousseau giusnaturalista, non pone in luce i meriti del Rousseau critico, del teorico dell’egualitarismo moderno. Riprende però in concreto la linea impostata da Rousseau aprendole ulteriori sviluppi”. [2] Marx non solo, evidentemente, condivide le posizioni antiassolutiste di Rousseau – per il quale, al contrario di Hobbes, al pactum unionis non deve seguire, in nessun modo, il pactum subjectonis – ma riprende la critica del ginevrino alla concezione liberale dei diritti umani. Per quanto riguarda la critica di Rousseau, di cui si giova certamente Marx, rinviamo ancora a Cerroni che, a tal proposito, osserva: “si sovverte così la prospettiva nella quale si elaborano i diritti dell’uomo: non se ne demanda la tutela al corpo separato, a sé stante, autarchico (e quindi alla costituzione o alla legge), se ne chiede piuttosto la diretta immissione e fusione nell’organismo politico, mirando a tener ferma proprio la funzionalità del governo al popolo, il carattere intermediario del governo rispetto alla unicità della sovranità popolare che si pone ora come sovrano ora come popolo”. [3]
Negli scritti intermedi fra le opere giovanili e quelli della piena maturità, Marx e Friedrich Engels sviluppano una concezione molto radicale del comunismo, essenzialmente antitetica alla società capitalista e borghese. Così, per esempio, nell’Ideologia tedesca i due fondatori del socialismo scientifico asseriscono nel modo più netto: “per quanto riguarda il diritto, fra le molte cose noi abbiamo affermato l’antagonismo fra il comunismo e il diritto, sia politico e privato, sia nella sua forma più generale, come diritto dell’uomo”. [4] Posizioni di netta rottura con le precedenti società e, in particolare, con la società capitalista che sono nuovamente enunciate, in modo altrettanto tranchant, nel Manifesto del partito comunista, dove possiamo leggere: “‘ma – si dirà – non c’è dubbio che le idee religiose, morali, filosofiche, politiche, giuridiche, ecc., si sono modificate nel corso dell’evoluzione storica; la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto però si mantennero sempre attraverso tutti questi mutamenti. Ci sono, inoltre, verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc., che sono comuni a tutte le situazioni sociali. Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale, in luogo di dar loro una forma nuova e con ciò contraddice a tutta l’evoluzione storica verificatasi finora’”. [5] A tali obiezioni dei critici del comunismo, Marx ed Engels controbattono sottolineando: “la rivoluzione comunista è la più radicale rottura coi rapporti di proprietà tradizionali; nessuna meraviglia, quindi, se nel corso del suo sviluppo avviene la rottura più radicale con le idee tradizionali”. [6]
D’altra parte, la stessa negazione del diritto, evocata da Marx ed Engels, deve essere dialetticamente determinata, in quanto nella comunità comunista il diritto dovrebbe incarnarsi nell’esserci dell’uomo. In tal modo da diritto formale dovrebbe togliersi e ricomprendersi nell’eticità. Ciò non significa, necessariamente, togliere il carattere di obbligazione che il diritto porta necessariamente in sé, ma riferirla al diritto a vivere in una comunità etica. La legge perderà così il suo mero dover essere, la sua esteriorità e idealità nei confronti di una società che la coglie quale limite esteriore dell’autonomia del soggetto. Nel comunismo la forma ideale del diritto si realizzerà nell’esserci, togliendo il suo carattere concettuale, in quanto l’individuo non vi vedrà più un limite esteriore, ma una mediazione necessaria alla piena esplicitazione della propria libertà individuale. Il diritto non sarà più norma trascendente la giungla della società civile, nella sfera ideale dello Stato politico, ma si alimenterà nella/della vita sociale. Il diritto dovrebbe perdere il suo carattere apparentemente sovrastorico capace di mediare il rapporto fra l’esercizio effettuale della libertà individuale e le condizioni sociali migliori per la sua realizzazione, fra il dispiegarsi dell’essenza sociale dell’individuo e le trasformazioni sociali necessarie al suo pieno esplicitarsi. Il diritto deve divenire eticità, una seconda natura, un presupposto del libero esplicitarsi del vivere sociale che è posto, per quanto è possibile, costantemente da questo. Lo stesso diritto non sarà più meramente eguale, non garantirà più un’identità delle possibilità astratta dalla differenza sociale reale e dalle doti-privilegi naturali, [7] ma dovrà ricomprendere in sé la ricchezza delle differenze e il loro superamento dialettico (Aufhebung). L’uguale diritto che regola la società civile borghese nello scambio di equivalenti si realizza solo nella media. Nei casi singoli la misura scelta, il quantum di lavoro non può tenere conto delle differenze naturali fra uomini in grado di svolgere nello stesso tempo una quantità e una qualità di prestazioni differente. L’eguale misura su cui si fonda il diritto deve sottomettere le disuguaglianze fra individui a un unico punto di vista, li deve considerare secondo una sola determinazione, in modo astratto prescindendo dalle differenze reali (età, famiglia, numero di figli ecc.). Questa eguale misura, perciò, per il suo contenuto, esprime un diritto della disuguaglianza, come del resto ogni diritto. Il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di un’uguale misura; ma gli individui disuguali sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengano sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengano considerati soltanto secondo un lato determinato. Perciò, per evitare tutti i suoi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale. [8] Superando l’antagonismo fra le classi sociali, ultimo ostacolo alla piena emancipazione dell’uomo quale essere sociale “subentra – come sottolinea Marx – un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti”. [9]
Note:
[1] Eustache Kouvélakis, Marx e la critica della politica, in Marcello Musto [a cura di], Sulle tracce di un fantasma. L'opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, Manifestolibri, Roma 2005, p. 207.
[2] Umberto Cerroni, Marx e il diritto moderno, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 268.
[3] Ivi: p. 267.
[4] Karl Marx e Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, tr. it di F. Codino, Ed. Riuniti, Roma 1967, p. 191.
[5] Id., Opere complete 1845-1848, tr. it. di P. Togliatti, vol. VI, Ed. Riuniti, Roma 1978, p. 504.
[6] Ivi: p. 505.
[7] Si tratta anche in questo caso, a parere di Marx, di una “natura seconda”, in quanto: “la differenza delle doti naturali tra gli individui non è tanto la causa quanto l’effetto della divisione del lavoro.” Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1968, p. 144.
[8] Su tale problematica vi è un significativo passaggio già nel quinto libro dell’Etica di Aristotele, del resto il concetto è già presente nelle Leggi di Platone.
[9] Karl Marx e Friedrich Engels, Opere complete 1845-1848, cit., vol. VI, p. 506.