Marx e la sedicente democrazia borghese

La sempre attuale analisi di Marx su grandezza e limiti del suffragio universale e del dettato costituzionale nello Stato borghese


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Karl Marx ha sempre criticato la presunta neutralità, rivendicata dall’ideologia dominante, del dettato costituzionale, anch’esso necessariamente espressione degli interessi del blocco sociale dominante al di là delle concessioni fatte – sulla base di rapporti di forza non troppo squilibrati – alle classi dominate, per indebolire il loro impeto rivoluzionario. Tanto meno può considerarsi neutrale, come denuncia a ragione Marx, la sua interpretazione, ma è necessariamente funzione del conflitto sociale e dei rapporti di forza presenti nella società civile. Anche se, in ogni caso, la sua reale applicazione resta sotto la direzione del potere esecutivo, il cui controllo solo in casi davvero eccezionali non è appannaggio della classe dominante.

Per ricordare un esempio emblematico richiamato da Marx: “la Costituzione prussiana, dal punto di vista del popolo, non ha fatto altro che aggiungere l’influenza politica dell’aristocrazia al potere tradizionale della burocrazia, mentre la Corona, per parte sua, è ora in grado di creare un debito pubblico e di aumentare i suoi preventivi di oltre il 100 per cento” [1]. In altri termini, come sottolinea a ragione Marx, “la Costituzione imponeva vincoli soltanto immaginari alla prerogativa regia, mentre era un dono della provvidenza dal punto di vista finanziario” [2]. La possibilità che essa potesse nei fatti limitare il potere del monarca era solo formale, tanto più che il potere esecutivo restava essenzialmente una sua prerogativa. D’altra parte essa diveniva la giustificazione formale di cui aveva bisogno il re per imporre nuovi oneri finanziari ai suoi sudditi, con il consenso dei suoi sedicenti rappresentanti. Tanto da poter aumentare a dismisura il debito pubblico, in modo da mettere la politica economica del tutto al riparo di qualsiasi forma di sovranità popolare.

Del resto, la sovranità popolare – sancita dalle costituzioni borghesi nel momento in cui la grande borghesia aveva bisogno del sostegno della piccola borghesia e di uno strumento di egemonia sul proletariato – ha, dunque, una validità soltanto formale e in necessario contrasto con la sovranità effettivamente esercitata da chi detiene i mezzi di produzione e sussistenza di cui abbisogna la classe lavoratrice per riprodursi in quanto tale e controlla tutti i principali strumenti per esercitare la propria egemonia sull’opinione pubblica.

Il controllo di questi ultimi e la sedicente sovranità popolare, con lo sviluppo del proletariato come classe e della sua coscienza di classe, sono divenuti sempre più essenziali alla classe dominante grande borghese per mantenere il potere, grazie all’egemonia esercitata quantomeno sulla piccola borghesia, i ceti medi e il sottoproletariato. Il controllo di questi ceti intermedi e del Lumpenproletariat (alla lettera il “proletariato straccione”) è del resto essenziale per evitare che, egemonizzati dal proletariato moderno, possano contribuire a mettere in questione, mediante le stesse elezioni politiche – una volta conquistato il suffragio universale – il dominio sociale della grande borghesia.

Tanto più che l’istituzione della repubblica parlamentare – per quanto sia stata una conquista delle masse popolari attraverso sanguinosi rivolgimenti sociali – ha finito con il risultare, storicamente, la forma maggiormente adeguata e funzionale a salvaguardare tale sovranità reale, di contro alla lacerazione del futuro blocco dominante borghese in fazioni più o meno privilegiate all’interno dei regimi monarchici. Come argomenta giustamente, a tal proposito, il grande storico E. Hobsbawm: “si potrà osservare – e questa idea è sempre presente nella teoria marxiana sullo Stato, sebbene quasi mai in posizione dominante – che nella società civile, che ‘come tale comincia a svilupparsi con la borghesia’, una delle funzioni dello Stato consiste nel regolare il conflitto tra l’interesse privato dei singoli borghesi e quello pubblico del sistema” [3]. La repubblica parlamentare, da una parte ispirandosi idealmente alla sovranità popolare, offre alle classi oppresse la possibilità di dare rappresentanza politica alle proprie rivendicazioni sociali, tuttavia, compattando la borghesia, soprattutto di fronte allo svilupparsi dei conflitti sociali, gli offre la possibilità di utilizzare – come denuncia Marx – il potere del proprio Stato “senza riguardi e con ostentazione, come strumento pubblico di guerra del capitale contro il lavoro” [4].

Da questo punto di vista Marx non può che farsi beffe delle illusioni democratico-costituzionali tipiche dei settori “progressisti” della piccola-borghesia, infatti nonostante sia proprio l’ideologia dominante, al servizio della classe dominante, a predicare costantemente il rispetto della costituzione, nonostante siano, più in generale, proprio gli strumenti d’egemonia della grande borghesia a sacralizzare il legalitarismo e il formalismo giuridico, in opposizione al naturale sovversivismo delle classi oppresse, è lo stesso blocco sociale dominante il primo a violarli, mettendo apertamente in discussione anche il fondamento costituzionale ogniqualvolta ciò sia reso necessario alla salvaguardia degli assetti di proprietà volti a riprodurre la innaturale scissione fra lavoro e suo prodotto, in quanto proprietà del capitalista.

Dunque, da una parte la classe dominante tende a risolvere le fondamentali questioni politiche nella mera strutturazione delle tecniche giuridiche, per togliere anche da questo punto di vista qualsiasi valore reale alla sovranità popolare, considerato che in tal modo la democrazia si riduce al puro legalitarismo giuridico-costituzionale che dovrebbe garantire l’eguaglianza dinanzi alla legge [5]; d’altra parte, in modo evidentemente contraddittorio, la palese violazione dello stesso dettato costituzionale non è certo un tabù per la classe dominante, in quanto resta ai suoi occhi sempre funzionale e strumentale al mantenimento di quei rapporti sociali che, per quanto possano essere divenuti irrazionali e antieconomici, costituiscono il fondamento dei suoi privilegi, cui non è certo disponibile a rinunciare pacificamente. Come già osservava a questo proposito Hegel: “il particolarismo, il privilegio e l’eccellenza, sono qualcosa di così profondamente personale, che il concetto e la comprensione della necessità sono sempre troppo deboli per operare sull’azione stessa; concetto e comprensione attirano una tale diffidenza su di sé, da doversi giustificare con la violenza affinché l’uomo si sottometta loro” [6].

In effetti la democrazia borghese è, come denuncia Marx, una mera parvenza, in quanto riguarda soltanto gli astratti diritti politici del cittadino, mentre nega i diritti sociali ed economici dei subalterni, in quanto considera il loro ambito, la sfera della società civile, del tutto privata. Al punto che in nome della libertà dei produttori della società civile, in grado di autogestirsi mediante la mano invisibile del mercato, lo Stato dovrebbe ridursi a mero guardiano notturno, non intervenendo in ambito economico. Perciò la stessa legislazione industriale, ricorda Marx, “è tuttora oggetto di opposizione irriducibile da parte degli imprenditori, e che quasi ogni anno si assiste ad una campagna parlamentare per la sua abrogazione”, tanto che fu a lungo necessario difendere in ogni modo le “leggi che tutelano donne e bambini contro un incondizionato esercizio delle inesorabili leggi del libero mercato”[7], sebbene si fossero rilevate indispensabili alla sopravvivenza dello stesso capitalismo, considerato che altrimenti l’offerta di forza-lavoro sarebbe diminuita sino a rendere troppo poco redditizio investire nel settore produttivo. Tanto che in tal caso il principio del libero commercio “può apparire ‘sano’ dal punto di vista degli economisti e delle classi di cui essi sono espressione teorica, e tuttavia non solo dimostrarsi contrario ad ogni legge dell’umana coscienza, ma, come un cancro, addirittura divorare gli organi vitali d’una intera generazione” [8]. Senza contare che proprio la legislazione industriale tanto avversata dai liberali si rivelerà indispensabile per la stessa automazione del processo produttivo, aspetto decisivo della rivoluzione industriale. Come osserva a tal proposito Marx: “il punto che interessa è che uno stimolo a questi perfezionamenti, specialmente per quanto riguarda la maggiore velocità di funzionamento delle macchine in un tempo dato, è evidentemente derivato dalle restrizioni legali relative alle ore di lavoro”[9].

D’altra parte, se gli sfruttati provassero a mettere in discussione i rapporti sociali e di classe, mirassero a espropriare gli espropriatori, riappropriandosi dei mezzi di produzione e di riproduzione della forza lavoro, lo Stato puramente politico borghese interverrebbe in modo repressivo in ambito economico e sociale. In quanto il “sacro diritto della proprietà privata” vale solo per i possidenti e non per le masse costantemente espropriate del frutto del loro lavoro. A tale proposito, Marx mette in evidenza un esempio storico particolarmente significativo, in cui appare nel modo più evidente questa contraddizione che non può che rendere sedicente la “democrazia” borghese: “ancora troppo debole per rovesciare queste ‘condizioni sociali’, il popolo si appella al parlamento, chiedendo che almeno le mitighi e le si disciplini. ‘No’ risponde però il ‘Times’: se non vivete in adeguate condizioni sociali, non sta al parlamento rimediare. E se il popolo irlandese, seguendo il consiglio del ‘Times’, cercasse domani di migliorare le condizioni della società, il ‘Times’ sarebbe il primo ad appellarsi alle baionette, e a vomitare sanguinarie denunce degli ‘atavici difetti della razza celtica’, che manca dell’anglosassone predisposizione al pacifico progresso e ai miglioramenti legali” [10].


Note

[1] K. Marx – F. Engels, Opere complete, vol. XVI, a cura di L. Formigari, Ed. Riuniti, Roma 1983, p. 70.

[2] Ibidem.

[3] Eric J. Hobsbawm, Gli aspetti politici della transizione dal capitalismo al socialismo, in AA. VV., Storia del marxismo, vol. I, Einaudi, Torino 1978, p. 250.

[4] K. Marx – F. Engels, La guerra civile in Francia, in Id., Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Ed. Riuniti, Roma 1971, p. 907.

[5] Anche la mera eguaglianza davanti la legge è più parvente che reale, per limitarci a un solo emblematico esempio occorre ricordare che lo stesso diritto d’associazione è universalmente valido solo per le associazioni sociali e politiche che riconoscono il dominio dei rapporti di produzione borghesi. Il potere esecutivo, legislativo e giudiziario sono garanti che tale diritto universale sia realmente effettivo solo quando non mette in discussione i rapporti di proprietà vigenti.

[6] G. W. F. Hegel, Werke, volume I, Suhrkam, Frankfurt am Main, 1990, p. 581.

[7] K. Marx – F. Engels, Opere complete, vol. XVI cit., p. 194.

[8] Ivi, pp. 194-95.

[9] Ivi, p. 196. Tale processo di automazione, essendo unicamente funzionale a massimizzare i profitti, nel modo di produzione capitalistico produce effetti catastrofici sulla classe operaia. Tanto che ancora attuale suona la denuncia di Marx: “fino a ieri gli economisti borghesi ci hanno detto che le macchine servono soprattutto a ridurre e ad eliminare la fatica fisica e la monotonia del lavoro. Oggi il ‘Times’ confessa che, negli attuali rapporti di classe, le macchine non abbreviano ma prolungano le ore lavorative, che esse in primo luogo spogliano il lavoro individuale della sua qualità e quindi costringono il lavoratore a compensare la perdita di qualità con quantità, aggiungendo così ore alle ore, il lavoro notturno al lavoro diurno in un processo che si ferma solo negli intervalli creati dalle crisi industriali, quando si rifiuta agli uomini qualsiasi lavoro, quando si sbattono loro in faccia i cancelli della fabbrica e quando essi possono godersi la vacanza o impiccarsi, come meglio preferiscono”. Id, Opere complete, marzo 1853febbraio 1854, tr. it. di F. Codino, vol. XII, Ed. Riuniti, Roma 1978, pp. 196-97.

[10] Ivi, pp. 161-62.

23/06/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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