Vladimir I.U. Lenin contrappone alle tesi democratiche del “rinnegato” Karl Kautsky la concezione del suo maestro, Friedrich Engels, dello Stato proletario: “«non essendo lo Stato altro che un’istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per tenere soggiogati con la forza i propri nemici, parlare di uno Stato popolare libero è pura assurdità: finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, non ne ha bisogno nell’interesse della libertà, ma nell’interesse dell’assoggettamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere»” [1]. Del resto, poiché, al contrario degli anarchici, i comunisti ritengono indispensabile “il potere statale nel periodo di transizione” [2], altrettanto essenziale è predisporre le condizioni necessarie, anche se non sufficienti senza l’espandersi della rivoluzione nei paesi più avanzati, al consolidamento del potere. Dunque il rivoluzionario, a differenza dell’avventurista, non accetta lo scontro aperto con lo Stato borghese se non si sarà garantito il sostegno “di strati abbastanza vasti della classe operaia e delle masse lavoratrici non proletarie” [3] non solo allo scopo della presa del potere politico ma, soprattutto, al fine del mantenimento del suo dominio, al consolidamento di quest’ultimo.
Di contro alla socialdemocrazia occidentale che criticava l’Ottobre in nome di una interpretazione dogmatica del marxismo, sulla base della quale in Russia non ci sarebbero state le condizioni oggettive necessarie alla costruzione del socialismo, Lenin rivendica l’Importanza storica decisiva della Rivoluzione sovietica: “la storia ci pone oggi un compito immediato, il più rivoluzionario di tutti i compiti immediati del proletariato di qualsiasi altro paese. L’adempimento di questo compito, la distruzione del baluardo più potente della reazione, non soltanto europea ma anche (oggi possiamo dirlo) asiatica, farebbe del proletariato russo l’avanguardia del proletariato rivoluzionario internazionale” [4]. Tanto più che Lenin era ben consapevole che decisamente più facile era iniziare la Rivoluzione nell’anello più debole della catena degli Stati imperialisti, ma decisamente più difficile portarla a compimento, senza scadere nella socializzazione della miseria: “in Russia, nella situazione concreta e storicamente originalissima del 1917, è stato facile iniziare la rivoluzione socialista, mentre sarà per la Russia più difficile che per i paesi europei continuarla e condurla a termine” [5].
Di contro al democraticismo dei socialdemocratici occidentali, Lenin rivendica che, dal momento che carattere decisivo di un processo rivoluzionario è “il passaggio del potere politico da una classe a un’altra” [6], la questione “centrale di tutta la lotta di classe” è la “dittatura del proletariato” [7]. Al punto che, a parere di Lenin, chi, come Kautsky, “non abbia capito la necessità della dittatura di ogni classe rivoluzionaria ai fini della vittoria non ha capito niente della storia delle rivoluzioni o non vuole saper niente in questo campo” [8]. Peraltro gli scopi della dittature del proletariato appaiono a Lenin ben chiari dal punto di vista storico del marxismo. Si tratta del necessario passaggio decisivo dalla democrazia degli sfruttatori, caratteristica di tutti gli Stati precedenti, alla democrazia degli sfruttati dello Stato socialista che, per poter sopravvivere, dovrà necessariamente reprimere gli sfruttatori controrivoluzionari. Dunque, mette in evidenza Lenin, contro il democraticismo dei centristi kautskyani, “pertanto anche lo Stato democratico, fino a che vi sono gli sfruttatori, i quali dominano sulla maggioranza degli sfruttati, sarà inevitabilmente una democrazia per gli sfruttatori. Lo Stato degli sfruttati deve differenziarsi radicalmente da questo Stato, deve significare democrazia per gli sfruttati e repressione per gli sfruttatori, e la repressione di una classe implica l’ineguaglianza per questa classe, la sua esclusione dalla «democrazia»” [9].
Tanto più che la dittatura rivoluzionaria è una forma di potere conquistato con la violenza e che si esercita contro la classe avversa necessariamente mediante i rapporti di forza: “la dittatura rivoluzionaria del proletariato è un potere conquistato e sostenuto dalla violenza del proletariato contro la borghesia, un potere non vincolato da alcuna legge” [10]. Proprio per questo, contro ogni forma di dogmatismo, Lenin sottolinea che le diverse nazioni seguiranno necessariamente diverse strade al socialismo, sperimentando diverse forme di democrazia e dittatura proletaria: “tutte le nazioni giungeranno al socialismo, è inevitabile, ma non vi giungeranno tutte allo stesso modo, ognuna darà la sua impronta originale a questa o quella forma di democrazia, a questa o quella variante di dittatura del proletariato, a questo o quel ritmo di trasformazione socialista dei vari aspetti della vita sociale. Niente è più meschino teoreticamente e ridicolo praticamente che dipingere, «in nome del materialismo storico», questo aspetto dell’avvenire con una tinta grigia e uniforme” [11].
Peraltro, contro le accuse di utopismo e di anarchismo, Lenin è ben consapevole che la transizione dura un’epoca storica in cui permane necessariamente la lotta fra le classi sociali: “il passaggio del capitalismo al comunismo abbraccia un’intera epoca storica. Fino a che quest’epoca non è conclusa, negli sfruttatori permane inevitabilmente la speranza della restaurazione, e questa speranza si traduce in tentativi di restaurazione” [12]. Pertanto, proprio per ristabilire l’eguaglianza e un indispensabile riequilibrio dei rapporti di forza fra le classi, anche dopo la conquista del potere non si potrà fare a meno di esercitare, nei confronti dei controrivoluzionari, una dittatura classista. In effetti, come fa notare acutamente Lenin, “non ci può essere uguaglianza tra gli sfruttatori, che per molte generazioni si sono distinti in virtù della loro cultura, delle loro condizioni agiate di vita, delle loro abitudini, e per gli sfruttati, che nella loro maggioranza, persino nelle repubbliche borghesi più progredite e democratiche, sono oppressi, incolti, ignoranti, intimoriti, divisi. Per lungo tempo dopo la rivoluzione gli sfruttatori conservano inevitabilmente una serie di grandi vantaggi effettivi: rimane loro il denaro (che non si può sopprimere di colpo), una data quantità, spesso cospicua, di beni mobili; rimangono loro le aderenze, l’esperienza organizzativa e direttiva, la conoscenza di tutti i «segreti» (consuetudini, procedimenti, mezzi, possibilità) della gestione; rimangono loro un’istruzione più elevata, strette relazioni con il personale tecnico più qualificato (che vive e pensa da borghese), un’esperienza infinitamente superiore dell’arte militare (il che è molto importante), ecc. ecc.” [13]. Senza dimenticare che dal punto di vista marxista la necessità di una dittatura classista verrà meno solo con la progressiva soppressione delle classi durante la transizione dal socialismo al comunismo. D’altra parte Lenin, dando ancora una volta dimostrazione del suo solido realismo, fa notare che sopprimere le classi implica rieducare piccola borghesia che corrompe il proletariato con l’individualismo e la mancanza di carattere. Tale rieducazione, dal momento che non può essere semplicemente imposta per decreto o in modo meramente coercitivo, implica un lasso di tempo necessariamente non breve. Come osserva a questo proposito Lenin: “sopprimere le classi non significa soltanto cacciar via i grandi proprietari fondiari e i capitalisti – questo l’abbiamo fatto con relativa facilità – ma significa anche eliminare i piccoli produttori di merci, che è impossibile cacciar via, che è impossibile schiacciare, con i quali bisogna accordarsi, che si possono (e si devono) trasformare, rieducare solo con un lavoro organizzato molto lungo, molto lento e cauto. Essi avvolgono il proletariato da ogni parte, in un ambiente piccolo-borghese, lo penetrano di quest’ambiente, lo corrompono con esso, lo sospingono continuamente a ricadere nella mancanza di carattere, nella dispersione, nell’individualismo, nell’alternarsi di entusiasmo e depressione, che sono propri della piccola borghesia” [14]. Tanto più che, come fa notare ancora una volta argutamente Lenin: “vincere la grande borghesia centralizzata è mille volta più facile che «vincere» milioni e milioni di piccoli proprietari, i quali, mediante la loro attività quotidiana, continua, invisibile, inafferrabile, dissolvente, perseguono gli stessi risultati che sono necessari alla borghesia e che restaurano la borghesia” [15]. Problematiche di estremo interesse che sembrano oggi decisamente prese troppo poco in considerazione anche nella maggioranza dei paesi in cui il Partito comunista ha conquistato il potere e dirige lo Stato.
Note:
[1] Brano citato da una lettera di Engels a Bebel del 28 marzo 1875, ripresa in Vladimir I.U. Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky [novembre 1918], in Id., Contro l’opportunismo di destra e di sinistra e contro il trotskismo, Edizioni progress, Mosca 1978, p. 394.
[2] Id., Lettere sulla tattica [aprile 1917], in op. cit., p. 309.
[3] Id., L’estremismo malattia infantile del comunismo [aprile-maggio 1920], in op. cit. p. 437.
[4] Id., Che fare? [febbraio 1902], in op. cit., p. 27.
[5] Id., L’estremismo…, in op. cit., p. 450.
[6] Id. Lettere…, in op. cit., p. 303.
[7] Id., La rivoluzione…, in op. cit., p. 381.
[8] Id., Per la storia della questione della dittatura [20 ottobre 1920], in op. cit., p. 465.
[9] Id., La rivoluzione…, in op. cit., p. 401.
[10] Ivi, p. 386.
[11] Id., Intorno a una caricatura del marxismo e all’economismo imperialistico [agosto-ottobre 1916], in op. cit., p. 278.
[12] Id., La rivoluzione…, in op. cit., p. 405.
[13] Ivi, p. 404.
[14] Id., L’estremismo…, in op. cit., p. 429.
[15] Ivi, p. 430.