A parere di Antonio Gramsci, “la forza delle religioni e specialmente della chiesa cattolica è consistita e consiste in ciò che esse sentono energicamente la necessità dell’unione dottrinale di tutta la massa «religiosa» e lottano perché gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quelli inferiori” [1]. Per non limitarsi alla funzione di una ideologia per gruppi ristretti la chiesa evita di sacrificare la religione popolare, con il suo portato di materialismo volgare, alla “religione ufficiale degli intellettuali” (16, 9: 1861). Il cattolicesimo mira a preservare un’unità esteriore con le masse, “basata specialmente sulla liturgia e sul culto più appariscentemente suggestivo sulle grandi folle” (ivi: 1862), mirando a mantenere le masse all’interno di una visione primitiva, folcloristica del mondo, impedendo il sorgere di una visione scientifica. Al contrario il marxismo intende stabilire un contatto dinamico con le masse volto “a sollevare continuamente nuovi strati di massa a una vita culturale superiore” (ibidem) [2], con il fine di “costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali” (11, 12: 1385) [3].
Del resto, a parere di Gramsci, le stesse “utopie sono dovute a singoli intellettuali, (…) che sostanzialmente riflettono, molto deformate, le condizioni di instabilità e di ribellione latente delle grandi masse popolari dell’epoca” (25, 7: 2292). Così, mentre “la Chiesa, con la Controriforma, si staccò definitivamente dalle masse degli «umili» per servire i «potenti»; singoli intellettuali tentarono di trovare, attraverso le Utopie, una soluzione di una serie dei problemi vitali degli umili, cioè cercarono un nesso tra intellettuali e popolo: essi sono da ritenere pertanto i primi precursori storici dei Giacobini e della Rivoluzione francese, cioè dell’evento che pose fine alla Controriforma e diffuse l’eresia liberale, ben più efficace contro la Chiesa di quella protestantica” (ibidem) [4].
A tal proposito, a parere di Gramsci una “delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche in generale consiste appunto nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra i «semplici» e gli intellettuali” (11, 12: 1381). Questo è in particolare quanto è avvenuto nel Risorgimento che, perciò, viene interpretato da Gramsci come una rivoluzione mancata: “è evidente che per contrapporsi efficacemente ai moderati, il Partito d’Azione doveva legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere «giacobino» non solo per la «forma» esterna, di temperamento, ma specialmente per il contenuto economico-sociale: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizzava in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazioni elementari e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo, e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori, concentrandoli e insistendo sui motivi che più li potevano interessare (e già la prospettiva della formazione di un nuovo apparato di governo, con le possibilità di impiego che offre, era un elemento formidabile di attrazione su di essi, se la prospettiva si fosse presentata come concreta perché poggiata sulle aspirazioni dei rurali)” (19, 24: 2024).
Al contrario di quanto avverrà in Italia, a partire dalla Rivoluzione francese le masse irrompono prepotentemente per la prima volta da protagoniste nella «vita politica e statale» (8, 42: 967). A questo grande risultato storico mirava lo stesso Niccolò Machiavelli con la sua concezione della formazione di un esercito popolare, al punto che Gramsci vi coglie “un giacobinismo precoce”, “il germe (…) della sua concezione della rivoluzione nazionale” (13, 1, 1560) [5].
Tornando alla Rivoluzione francese, si tratta di un grande rivolgimento epocale proprio in quanto mobilita le masse popolari. Essa rappresenta agli occhi di Gramsci di “una riforma intellettuale e morale”, in cui il “razionalismo settecentesco” diviene “pensiero politico concreto” (4, 75: 515) capace di mobilitare le masse [6]. Queste ultime, sino ad allora profondamente legate alla Chiesa, poterono aderire immediatamente agli “immortali principi dell’89” (27, 2: 2315) proprio perché vi videro uno sviluppo per quanto rivoluzionario della loro concezione del cristianesimo profondamente legata al diritto naturale (cfr. ibidem).
Da parte sua “l’illuminismo creò una serie di miti popolari, che erano solo la proiezione nel futuro delle più profonde e millenarie aspirazioni delle grandi masse, aspirazioni legate al cristianesimo e alla filosofia del senso comune, miti semplicistici quanto si vuole, ma che avevano un’origine realmente radicata nei sentimenti e che, in ogni caso, non potevano essere controllati sperimentalmente (storicamente)” (13, 37: 1642-643) [7].
Note:
[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, pp. 1380-381. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Come osserva Gramsci a proposito del rapporto opposto stabilito con le masse dal cattolicesimo e dal marxismo: “la religione popolare è crassamente materialistica, tuttavia la religione ufficiale degli intellettuali cerca di impedire che si formino due religioni distinte, due strati separati, per non staccarsi dalle masse, per non diventare anche ufficialmente, come è realmente, una ideologia di ristretti gruppi. Ma da questo punto di vista, non bisogna far confusione tra l’atteggiamento della filosofia della praxis e quello del cattolicismo. Mentre quella mantiene un contatto dinamico e tende a sollevare continuamente nuovi strati di massa ad una vita culturale superiore, quello tende a mantenere un contatto puramente meccanico, un’unità esteriore, basata specialmente sulla liturgia e sul culto più appariscentemente suggestivo sulle grandi folle” (ivi: 1861-862).
[3] Sempre a proposito del rapporto opposto fra intellettuali e masse nel cattolicesimo e nel marxismo, scrive Gramsci: “la posizione della filosofia della praxis è antitetica a questa cattolica: la filosofia della praxis non tende a mantenere i «semplici» nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali” (11, 12: 1384-385).
[4] Per quanto riguarda i giacobini, Gramsci polemizza con la concezione liberale di derivazione crociana che, su questo punto, lo aveva egemonizzato negli anni giovanili: “nel linguaggio politico i due aspetti del giacobinismo furono scissi e si chiamò giacobino l’uomo politico energico, risoluto e fanatico, perché fanaticamente persuaso delle virtù taumaturgiche delle sue idee, qualunque esse fossero: in questa definizione prevalsero gli elementi distruttivi derivati dall’odio contro gli avversari e i nemici, più che quelli costruttivi, derivati dall’aver fatto proprie le rivendicazioni delle masse popolari, l’elemento settario, di conventicola, di piccolo gruppo, di sfrenato individualismo, più che l’elemento politico nazionale” (19, 24: 2017).” Perciò, a parere di Gramsci: “occorre insistere, contro una corrente tendenziosa e in fondo antistorica, che i giacobini furono dei realisti alla Machiavelli e non degli astrattisti. Essi erano persuasi dell’assoluta verità delle formule sull’uguaglianza, la fraternità, la libertà e, ciò che importa di più, di tale verità erano persuase le grandi masse popolari che i giacobini suscitavano e portavano alla lotta. Il linguaggio dei giacobini, la loro ideologia, i loro metodi d’azione, riflettevano perfettamente le esigenze dell’epoca, anche se «oggi», in una diversa situazione e dopo più di un secolo di elaborazione culturale, possono parere «astrattisti» e «frenetici»” (ivi: 2028).
[5] Dunque, osserva ancora Gramsci: “se le classi urbane vogliono porre fine al disordine interno e all’anarchia esterna devono appoggiarsi sui contadini come massa, costituendo una forza armata sicura e fedele di tipo assolutamente diverso dalle compagnie di ventura. Si può dire che la concezione essenzialmente politica è così dominante nel Machiavelli che gli fa commettere gli errori di carattere militare: egli pensa specialmente alle fanterie, le cui masse possono essere arruolate con un’azione politica e perciò misconosce il significato dell’artiglieria” (13, 13: 1573). Gramsci approfondisce ancora la questione risalendo alle sue origini medievali: “la storia dei Comuni è ricca di esperienze in proposito: la borghesia nascente cerca alleati nei contadini contro l’Impero e contro il feudalismo locale (è vero che la quistione è resa complessa dalla lotta tra borghesi e nobili per contendersi la mano d’opera a buon mercato: i borghesi hanno bisogno di mano d’opera abbondante ed essa può solo essere data dalle masse rurali, ma i nobili vogliono legati al suolo i contadini: fuga di contadini in città, dove i nobili non possono catturarli. In ogni modo, anche in situazione diversa, appare, nello sviluppo della civiltà comunale, la funzione della città come elemento direttivo, della città che approfondisce i conflitti interni nella campagna e se ne serve come strumento politico-militare per abbattere il feudalismo). Ma il più classico maestro di arte politica per i gruppi dirigenti italiani, il Machiavelli, aveva anch’egli posto il problema, naturalmente nei termini e con le preoccupazioni del tempo suo; nelle scritture politico-militari del Machiavelli è vista abbastanza bene la necessità di subordinare organicamente le masse popolari ai ceti dirigenti per creare una milizia nazionale capace di eliminare le compagnie di ventura” (19, 24: 2015).
[6] Al contrario, “Rinascimento, filosofia francese del 700, filosofia tedesca dell’800 sono riforme che toccano solo le classi alte e spesso solo gli intellettuali: l’idealismo moderno, nella forma crociana, è una riforma indubbiamente, ed ha avuto una certa efficacia, ma non ha toccato masse notevoli e si è disgregato alla prima controoffensiva” (ibidem).
[7] La polemica contro il giusnaturalismo condotta da Benedetto Croce in realtà mira, come denuncia Gramsci, “ad infrenare l’influsso che specialmente sui giovani intellettuali potrebbero avere (e hanno realmente) le correnti popolari del «diritto naturale», cioè quell’insieme di opinioni e di credenze sui «proprii» diritti che circolano ininterrottamente nelle masse popolari, che si rinnovano di continuo sotto la spinta delle condizioni reali di vita e dello spontaneo confronto tra il modo di essere dei diversi ceti” (27, 2: 2316).