La Rivoluzione d’ottobre e la questione della violenza

Per quanto necessariamente minoritari in un paese così arretrato, i comunisti rappresentavano un’avanguardia in grado di dare una direzione consapevole alle forze più propulsive del paese


La Rivoluzione d’ottobre e la questione della violenza Credits: https://www.rivoluzione.red/a-98-anni-dalla-rivoluzione-dottobre/

La Rivoluzione d’ottobre era sorta dalla spaventosa strage prodotta dalla Prima guerra imperialistica mondiale. Scaturiva, quindi, da un trauma profondo che aveva sconvolto non solo l’intera Europa, ma buona parte degli altri continenti, che furono in un modo o nell’altro coinvolti in questo spaventoso macello. Di questa terribile violenza, i bolscevichi non furono di certo la causa, anzi furono coloro che si batterono con maggiore risolutezza affinché tale spaventosa strage non avesse inizio, per poi lottare con lo scopo di recidere radicalmente l’imperialismo, quale causa e fondamento di questo orribile sterminio.

Nel momento in cui si videro costretti a farsi interpreti di questa spaventosa violenza, di contro ad avversari certo più feroci e sanguinari, una volta conquistato in modo relativamente pacifico il potere centrale mediante la conquista del Palazzo d’Inverno, dovettero far fronte all’aggressione e allo stato d’assedio imposti dalle principali potenze imperialiste internazionali e da quasi tutti i partiti politici russi schieratisi con gli ufficiali zaristi al fine di realizzare la controrivoluzione mediante una terribile guerra civile. Del resto, dopo aver risolto il dualismo di potere – affermatosi per l’incapacità del governo provvisorio di far fronte alla tragica situazione in cui verteva il paese senza farlo precipitare in una terribile anarchia, di cui erano pronte ad approfittare le forze reazionarie allo scopo di restaurare l’autocrazia zarista – mediante il processo culminato con la Rivoluzione d’ottobre i bolscevichi non potevano certo tornare sui loro passi e restituire il potere nelle mani di un personale politico che si era dimostrato incapace di gestirlo. Allo stesso modo non potevano certo restituire la guida del paese ai Socialisti rivoluzionari che avevano vinto le elezioni per l’assemblea costituente in quanto avevano non solo collaborato con il governo provvisorio, ma avevano assunto una posizione controrivoluzionaria nei confronti della Rivoluzione socialista.

Dunque, il solo modo per mantenersi alla guida del paese e dare uno sbocco positivo e progressivo al processo rivoluzionario apertosi con la prima grande Rivoluzione democratica del febbraio 1917, consisteva nell’affrontare gli avversari con tutti i mezzi che la lotta per la vita e per la morte che gli infinitamente più potenti nemici gli avevano imposto. In tal modo, i bolscevichi furono in grado di dare una direzione consapevole a questo tsunami che si era prodotto dinanzi al progressivo putrefarsi dell’autocrazia zarista, cercando di superare – nella direzione della realizzazione del modo di produzione più avanguardistico che l’umanità avesse mai osato sperimentare – l’anarchia sociale che si era impadronita del paese e stava per precipitarlo in un nuovo stato di natura, simile a quello presente oggi in paesi come la Somalia o la Libia.

Per quanto necessariamente minoritari in un paese così arretrato, i comunisti rappresentavano un’avanguardia in grado di dare una direzione consapevole alle forze più propulsive del paese, mirando a realizzare i bisogni reali dei popoli che costituiranno lo Stato rivoluzionario

Minoritari nel paese – come avevano certificato implacabilmente le elezioni per l'Assemblea Costituente, largamente vinte dai socialisti-rivoluzionari, la forza populista più radicata con la sua demagogia piccolo-borghese nell'immensa e arretratissima campagna del Paese – i bolscevichi avevano conquistato la maggioranza nei soviet degli operai e dei soldati, divenendo la forza egemone nelle grandi città come Pietrogrado e Mosca. Erano riusciti a impadronirsi del potere approfittando sia dalla maggioranza estremamente mutevole all’interno delle assemblee sovietiche, spinte inevitabilmente dalla dinamica stessa degli eventi verso soluzioni sempre più radicali, in primo luogo per il discredito sempre più generalizzato nei confronti di un governo provvisorio del tutto incapace anche di ristabilire l'ordine di fronte allo sfaldamento dell'esercito e alla crescente ostilità popolare, alla cui fame di terra non era in grado di rispondere se non con aleatorie promesse in un futuro quanto mai incerto e nell’immediato con la suicida ostinazione ad aggirare i problemi rilanciando una guerra che in quelle condizioni non poteva che portare il paese alla disfatta. La ratifica del passaggio rivoluzionario del potere da parte del congresso pan-russo dei soviet prova che la rivoluzione d’ottobre non fu affatto quel putsch blanquista, come non smettono di squalificarla, da allora sino ai nostri giorni, i suoi ingenerosi o interessati detrattori.

Del resto, dinanzi alle accuse rivolte alla rivoluzione nel modo più organico e incisivo dallo stesso antico maestro di marxismo di Lenin, il filosofo e politico menscevico Plechanov, un giovanissimo intellettuale organico al proletariato sardo, Antonio Gramsci, in un celebre articolo genialmente intitolato La rivoluzione contro Il capitale – intendendo al contempo il modo di produzione e l’opera di Marx, interpretata in modo deterministico e dogmatico dagli intellettuali tradizionali opportunisti che dirigevano la Seconda Internazionale – rispondeva semplicemente dimostrando che “la rivoluzione comunista non può essere realizzata con un colpo di mano. Anche se una minoranza rivoluzionaria riuscisse, con la violenza, a impadronirsi del potere, questa minoranza sarebbe il giorno dopo rovesciata dal colpo di ritorno delle forze mercenarie del capitalismo, perché la maggioranza non assorbita lascerebbe massacrare il fiore della potenza rivoluzionaria, lascerebbe straripare tutte le cattive passioni e la barbarie suscitate dalla corruzione e dall’oro capitalistico. È necessario dunque che l’avanguardia proletaria organizzi materialmente e spiritualmente questa maggioranza di ignavi e di torpidi, è necessario che l’avanguardia rivoluzionaria susciti, coi suoi mezzi e i suoi sistemi, le condizioni materiali e spirituali in cui la classe proprietaria non riesca più a governare pacificamente le grandi masse di uomini, ma sia costretta, per la intransigenza dei deputati socialisti controllati e disciplinati dal Partito, a interrorire le grandi masse, a colpire ciecamente e a farle rivoltare”.

Sul piano militare la Rivoluzione d’ottobre non si inaugurò con un'insurrezione di massa e certo apparve assai meno spettacolare di tante imponenti manifestazioni di cui Pietrogrado era stata teatro nei mesi precedenti. Le guardie rosse presero d'assalto un Palazzo d'Inverno rimasto quasi indifeso e, in poche ore, riuscirono a mettere agli arresti i membri del governo provvisorio – Kerenskij nel frattempo si era dato alla fuga – con pochissimo spargimento di sangue, dal momento che furono pochissime le truppe disponibili a difendere un esecutivo così manifestamente incapace e impopolare, né le classi dominanti misero a repentaglio la loro vita.

Del resto, se la conquista del Palazzo d’inverno era stata, dunque, un momento di grande impatto simbolico, ottenuto con un costo bassissimo di vite umane, al contrario messi di fronte alla concreta possibilità di perdere i loro privilegi, le classi possidenti non esitarono a scatenare una terribile controrivoluzione, sfociata in una sanguinosissima guerra civile, in cui le forze contro-rivoluzionarie hanno trovato il sostegno diretto o indiretto di tutte le potenze imperialiste internazionali.

Per altro, una delle critiche ai nostri giorni più spesso rivolta ai rivoluzionari dai revisionisti è che non si tratterebbe più come nel Novecento di conquistare il Palazzo d’Inverno per fare la rivoluzione, in quanto il potere sarebbe più liquido e capillarmente diffuso. Del resto, altri revisionisti sostengono che la stessa conquista violenta del potere è da considerarsi un mero residuo di un secolo buio e sanguinario come il Novecento e ora l’azione politica dovrebbe essere improntata alla non violenza, in quanto bisognerebbe trasformare radicalmente il mondo senza però prendere il potere che, in quanto tale, con la sua necessaria struttura oppressiva sarebbe antitetico allo spirito libertario della rivoluzione, anche perché la storia stessa dimostrerebbe che chi lo conquista finisce per essere necessariamente da esso corrotto, finendo per trasformarsi da oppresso che si ribella all’oppressione, in un nuovo e altrettanto violento oppressore. Tali concezioni che si spacciano come moderne, considerando come un residuo di un passato remoto e da dimenticare il leninismo, inconsapevolmente riproducono delle concezioni ben più datate proprie del socialismo utopistico e, più in particolare, di un autore come Proudhon, non a caso pesantissimamente criticato da Marx ed Engels, i fondatori del socialismo scientifico.

Del resto, in generale queste concezioni dei revisionisti criticano la rivoluzione senza una reale cognizione di causa, confondendo il momento della rottura rivoluzionaria dell’ordine costituito – seguendo inconsapevolmente, proprio loro che intenderebbero criticarla, la concezione putschista di Blanqui – con la totalità del processo storico in cui una reale rivoluzione giunge a compimento. Bisogna, in effetti, avere ben chiaro che una rivoluzione può, in primo luogo, avere successo se è in grado di superare l’infantilismo avventurista di chi pretende di forzare soggettivamente il corso del mondo, senza saper attendere, preparandosi a dovere, il momento opportuno. Del resto la guerra di movimento, la rottura rivoluzionaria è solo un momento di un processo di lunga durata, che va preparato nella fase di accumulazione delle forze e attraverso una guerra di posizione volta a ottenere l’egemonia sulla società civile. Altrimenti si produrrà una situazione analoga a quella italiana, ben descritta da Gramsci, quando nel primo dopoguerra si era sviluppata una condizione storica favorevole alla rivoluzione dal punto di vista oggettivo, ma molto arretrata dal punto di vista soggettivo, in quanto “la rivoluzione trova le grandi masse popolari italiane ancora informi, ancora polverizzate in un brulichio animalesco di individui senza disciplina e senza cultura, ubbidienti solo agli stimoli del ventre e delle passioni barbariche” [1].

Occorre, inoltre, farsi trovare pronti per quella congiuntura storica molto particolare, per cui il governo è completamente screditato, ha perso il controllo su gran parte delle forze armate e il livello di esasperazione popolare è tale che la maggioranza dei lavoratori guarderà con favore, o quanto meno non si opporrà al processo rivoluzionario. Bisogna inoltre tener conto del contesto internazionale che deve consentire al processo rivoluzionario di andare in porto prima che vi sia un intervento armato delle potenze imperialiste.

Infine, la rottura rivoluzionaria apre semplicemente un processo nel corso del quale le forze rivoluzionarie debbono prendere il controllo dell’intero paese e debbono, in seguito, essere in grado di portare a compimento la delicatissima fase di transizione verso la società socialista, in cui il conflitto sociale a livello nazionale e internazionale non potrà che acuirsi. Tanto più che questo acutizzarsi della lotta di classe caratterizzerà anche la fase seguente della dittatura del proletariato, dal momento che le classi dominanti a livello nazionale e internazionale di certo non la accetteranno passivamente, ma faranno tutto quanto è in loro potere per rovesciarla.


Note

[1] A. Gramsci, I rivoluzionari e le elezioni, in L'Ordine Nuovo del 15 novembre 1919, anno 1 n. 26.

10/06/2019 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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