La polemica fra comunisti e socialdemocratici sulla forma dello Stato socialista

La polemica fra comunisti e socialdemocratici sulla violenza, la democrazia e la dittatura del proletariato.


La polemica fra comunisti e socialdemocratici sulla forma dello Stato socialista Credits: https://expressodasilhas.cv/pais/2017/11/11/100-anos-de-revolucao-russa-pelos-olhos-de-cabo-verde/55327

Di contro alle critiche che i socialdemocratici rivolgevano allo Stato sorto dalla Rivoluzione d’ottobre, Lenin sottolinea che la transizione al socialismo solo nelle pie illusioni delle anime belle può essere considerata un processo pacifico. La borghesia, infatti, e con essa i privilegi secolari delle classi dominanti della Russia zarista non si estingueranno automaticamente, senza resistenza e lo stesso vale per la sua struttura statuale e sociale che non è certo possibile abolire con un semplice decreto-legge. Inoltre la socialdemocrazia internazionale, che contrapponeva una presunta via pacifica e democratica al socialismo a quella “violenta e dittatoriale” dei comunisti, dimenticava, sottolinea Lenin, che la democrazia è una forma di governo all’interno d’uno Stato funzionale al dominio di una classe sociale sulle altre. Così, ad esempio, osserva Lenin: “Kautsky è costretto a intricare e ad annebbiare il problema, perché egli lo pone da liberale, parlando della democrazia in generale, e non della democrazia borghese; anzi egli evita persino questo concetto preciso, classista, e cerca di parlare di democrazia ‘presocialista’”[1]. Allo stesso modo, per confondere ulteriormente le acque, ancora Kautsky critica la dittatura dello Stato socialista sovietico come se si trattasse di una semplice opzione relativa alla forma di governo. Al contrario, sottolinea Lenin, “la dittatura non è una ‘forma di governo’: questa è una ridicola assurdità. E Marx non parla della ‘forma di governo’, ma della forma o tipo di Stato. Non è la stessa cosa, tutt’altro!” [2].

D’altra parte, i centristi come Kautsky si comportano da anime belle a proposito del concetto stesso di dittatura del proletariato, che tendono a presentare come solo incidentalmente utilizzato dai padri del marxismo. Tale attitudine a Lenin appare ipocrita, visto che Kautsky, non a caso denominato il papa rosso, ha lavorato e studiato una vita intera sulle opere di Marx ed Engels, curandone anche il lascito, ovvero i manoscritti non ancora pubblicati “non può non sapere che tanto Marx quanto Engels hanno parlato ripetutamente della dittatura del proletariato sia nelle lettere che nei testi a stampa, prima e soprattutto dopo la Comune. Kautsky non può non sapere che la formula della ‘dittatura del proletariato’ è soltanto una definizione più concreta storicamente e scientificamente più esatta del compito del proletariato di ‘spezzare’ la macchina statale borghese, compito del quale sia Marx che Engels, tenendo conto delle rivoluzioni del 1848 e ancor più di quella del 1871, hanno parlato per ben quarant’anni, dal 1852 al 1891” [3].

Al di là della centralità che il concetto ha avuto nella riflessione dei classici sulla Rivoluzione e sulla transizione al socialismo, la dittatura del proletariato è una problematica centrale per chiunque ha di mira il superamento in senso socialista del capitalismo. Perciò è indispensabile averne una concezione reale e realistica, al contrario di Kautsky che voleva dare a intendere che il concetto di dittatura del proletariato in Marx non sarebbe in contrasto con la strategia socialdemocratica di allargare gli spazi di democrazia, attraverso la conquista della maggioranza parlamentare – e il conseguente controllo sul governo – da parte dei socialisti. Al contrario, per Lenin, già il concetto di “dittatura” indica necessariamente “il dominio di una parte della società su tutta la società e, per giunta, un dominio fondato immediatamente sulla violenza”. Tale forma di dominio, esercitata dal “proletariato, quale unica classe coerentemente rivoluzionaria, è indispensabile per rovesciare la borghesia e per far fallire i suoi tentativi controrivoluzionari”. Quindi per chi è veramente interessato a che la transizione al socialismo si realizzi e non resti una mera utopia, una pia buona intenzione, “il problema della dittatura del proletariato assume tale importanza che non può esserci alcun iscritto al partito socialista che la neghi o l’accetti soltanto a parole” [4].

L’unico legittimo tribunale sull’uso politico della violenza resta la storia

Dinanzi all’accusa di “terrorismo” lanciata da buona parte della borghesia internazionale, anche democratica e socialdemocratica, contro i dirigenti del Pcus responsabili delle violenze perpetrate in nome della dittatura del proletariato, Lenin risponde svelandone l’ipocrisia di fondo, fondata sulla voluta mancanza di memoria storica, che impedisce di dare un giudizio storicamente obiettivo e non viziato da ideologia e classismo. Così Lenin accusa “i borghesi inglesi”, che criticano la violenza rivoluzionaria dei comunisti, di aver volutamente “dimenticato il 1649, mentre i borghesi di Francia hanno allo stesso modo “dimenticato il 1793. Il terrore era giusto e legittimo quando veniva esercitato a vantaggio della borghesia contro i signori feudali. Ma è diventato mostruoso e criminale nel momento in cui gli operai e i contadini poveri osano esercitarlo nei confronti della borghesia! Il terrore era giusto e legittimo quando veniva esercitato per sostituire una minoranza sfruttatrice con un’altra. Ma è diventato mostruoso e criminale quando si è cominciato a esercitarlo per rovesciare ogni minoranza sfruttatrice, nell’interesse della stragrande maggioranza della popolazione”[5], sino ad allora posta nelle condizioni di non potersi avvalere dei diritti democratici formali per poter soddisfare i propri bisogni.

Tale attitudine antistorica e dogmatica dei critici borghesi della dittatura del proletariato si fonda essenzialmente sul mancato riconoscimento dell’eguaglianza fra le classi possidenti e il proletariato. Per cui il terrore esercitato dalle classi possidenti in funzione di un oggettivo progresso storico viene riconosciuto come legittimo, mentre un’eguale terrore altrettanto se non più essenziale allo sviluppo storico viene ritenuto inaccettabile proprio perché perpetrato da proletari o in favore di proletari ai danni delle classi possidenti. Tale incapacità di riconoscimento impedisce a diversi esponenti delle classi possidenti di formulare un onesto giudizio storico sull’utilizzo politico della violenza. Al contrario, proprio perché privo di tali pregiudizi, Lenin riesce a stabilire un criterio generale in grado di distinguere quale violenza politica può considerarsi obiettivamente legittima e quale non possa che essere condannata dal tribunale universale della storia. Osserva a tal proposito Lenin: “si può impiegare la violenza senza avere radici economiche; ma allora la storia la condanna. Ma si può impiegare la violenza appoggiandosi sulla classe d’avanguardia, sui princípi superiori” di una società più universalista, giusta, libera e in grado di rilanciare su larga scala lo sviluppo delle forze produttive, che gli assetti sociali ormai irrazionali e antieconomici della società precedente rendeva impossibile. Nel caso specifico si tratta, ovviamente, dei princípi della società socialista superiori rispetto a quelli della società capitalista, che sono riassunti da Lenin in “l’ordine e l’organizzazione” [6] che caratterizzano l’economia pianificata rispetto all’anarchia propria della società capitalista, in cui ogni agente economico è mosso esclusivamente dalla ricerca del proprio privatistico e particolaristico guadagno.

Perciò la dittatura del proletariato e le sue misure coercitive verso chi si ostina a voler vivere sfruttando il lavoro altrui sono giustificate proprio dal loro fine altamente progressivo dal punto di vista storico, ovvero la creazione per la prima volta nella storia di una società non più fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Ciò giustifica anche la violazione degli astratti e formali diritti umani alla libertà e alla eguaglianza, che sarebbero stati violati, dal punto di vista formalistico, dalla Costituzione sovietica che nega i diritti politici attivi e passivi a chi si ostina a voler continuare a vivere dello sfruttamento della forza-lavoro di altri. Perciò Lenin rivendica il passaggio della Costituzione in cui si afferma: “non riconosciamo né la libertà, né l’eguaglianza, né la democrazia del lavoro, se esse sono in contrasto con gli interessi dell’emancipazione del lavoro dal giogo del capitale”, mostrando che se tale posizione può apparire inaccettabile ai democratici piccolo-borghesi, ha permesso al partito della rivoluzione di conquistarsi “le simpatie degli operai di tutto il mondo” [7].

Del resto, solo una concezione ipocrita o del tutto incapace di contestualizzare, in quel preciso momento del processo storico, la violenza rivoluzionaria può condannarla, a parere di Lenin, come pura manifestazione di terrorismo. Dunque, ecco come rispondeva Lenin a questo livello di accuse: “accusarci dello ‘sfacelo’ dell’industria o del ‘terrorismo’ significa fare gli ipocriti o dar prova di un’ottusa pedanteria, dell’incapacità di capire le condizioni fondamentali di quella lotta di classe furibonda ed esasperata al massimo che si chiama rivoluzione” [8]. Tanto più il necessario ulteriore inasprirsi del conflitto sociale nella fase della dittatura del proletariato provocherà quasi certamente da parte delle forze contro-rivoluzionarie, con il pieno sostegno dell’imperialismo internazionale, una guerra senza esclusione di colpi come ogni guerra civile. In tale contesto eccezionale, osserva Lenin, diverranno inevitabili delle “restrizioni della democrazia formale nell’interesse della guerra” [9]. Dunque alle critiche rivolte a tali restrizioni da anime belle occidentali, Lenin rimprovera innanzitutto la loro astrattezza incapace di tener conto della situazione reale in Russia durante la guerra civile: “e in questa situazione, in un’epoca di guerra disperata e accanita, in cui la storia pone all’ordine del giorno il problema dell’esistenza o della scomparsa di privilegi secolari e millenari, si continua a dissertare di maggioranza e minoranza, di democrazia pura, di inutilità della dittatura, di uguaglianza tra sfruttatori e sfruttati!! Che abisso di stoltezza, che voragine di filisteismo sono necessari per arrivare a tanto»” [10].

Inoltre, in un paese passato senza soluzione di continuità dalla guerra imperialista a una terribile guerra civile si manifesteranno necessariamente fenomeni di imbarbarimento tanto nelle forze armate, quanto nella popolazione, le cui nefaste conseguenze segneranno un’intera generazione. Le inevitabili misure terroristiche rese necessarie in tali condizioni saranno da imputare in primo luogo alle classi possidenti che scatenano la guerra civile o la rendono inevitabile con la loro furiosa ostinazione a difendere i propri privilegi fondati sullo sfruttamento. Per tale motivo, non possono che apparire grotteschi a Lenin i rimproveri di molti pseudo-socialisti che, egemonizzati dall’ideologia borghese, imputano “alla rivoluzione le manifestazioni di imbarbarimento o l’inevitabile crudeltà dei mezzi di lotta contro i casi particolarmente acuti di imbarbarimento, nonostante sia chiaro come il sole che esso è opera della guerra imperialistica e che nessuna rivoluzione è in grado di liberarsi di tali conseguenze delle guerre senza una lunga lotta e una serie di dure misure di repressione” [11]. Particolarmente ipocrite appaiono, perciò, le critiche degli intellettuali borghesi, “la gioia maligna per le difficoltà e i rovesci della rivoluzione, la diffusione del panico, la propaganda per un ritorno al passato”, alle quali Lenin risponde: “se gl’intellettuali borghesi avessero, con le loro cognizioni, aiutato i lavoratori, e non i capitalisti russi e stranieri che cercavano di restaurare il loro potere, la rivoluzione si sarebbe compiuta in modo più rapido e più pacifico” [12].


Note
[1] V. I. Lenin, La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky (ottobre-novembre 1918), in Sulla rivoluzione socialista, Edizioni Progress, Mosca 1979, p. 358.
[2] Ivi: p. 368.
[3] Ivi: p. 359.
[4] Id., Intorno a una caricatura del marxismo e all’“economicismo imperialistico” (agosto-ottobre 1916), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 76.
[5] Id., Lettera agli operai americani (agosto 1918), in Sulla rivoluzione… op. cit., pp. 350-51.
[6] Come si inganna il popolo con le parole d’ordine di libertà e di eguaglianza [maggio 1919], in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 411.
[7] Ivi: p. 413.
[8] Id., Lettera… cit., in Sulla rivoluzione… cit., p. 348.
[9] Id., Lettera agli operai americani (agosto 1918), in Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1966, vol. 28, p. 70.
[10] Id., La rivoluzione proletaria…op. cit., in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 382.
[11] Id., Parole profetiche (giugno-luglio 1918), in Sulla rivoluzione… op. cit., pp. 337-38.
[12] Id., La grande iniziativa (Giugno-Luglio 1919), in Sulla rivoluzione… op. cit., p. 421.

17/11/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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