Nella prospettiva del marxismo rivoluzionario di Vladimir I.U. Lenin è sempre indispensabile fissare le priorità per i comunisti sulle basi dell’internazionalismo proletario e non a partire dal punto di vista nazionalista, tipico della piccola borghesia. Così, per fare un esempio a questo proposito emblematico, Lenin critica nel mondo più netto coloro i quali intendono “dare immancabilmente, in modo obbligatorio e immediato, al problema di disfarsi della pace di Versailles la precedenza sul problema di emancipare dall’imperialismo gli altri paesi oppressi” in quanto, prosegue, un tale atteggiamento “è nazionalismo piccolo-borghese (degno dei Kautsky, Hilferding, Otto Bauer e soci), non è internazionalismo rivoluzionario”. [1] Tanto più che la piccola borghesia tende spontaneamente ad assumere posizioni scioviniste e nel migliore dei casi socialscioviniste, magari mascherandole dietro parole d’ordine riprese a sproposito dalla storia della Rivoluzione francese, per cui il proseguimento anche dopo la Rivoluzione del febbraio del 1917 della partecipazione alla Prima guerra imperialistica mondiale, nonostante la totale contrarietà delle masse popolari, veniva impropriamente giustificato come difensivismo rivoluzionario, ovvero come necessità di difendere la patria della rivoluzione dall’aggressione delle forze straniere controrivoluzionarie. Dunque, come sottolinea Lenin, “tutta la piccola borghesia si orienta necessariamente, e non per caso, verso lo sciovinismo (=difensivismo), verso l’‘appoggio’ alla borghesia, verso la sottomissione alla borghesia, per timore di smarrirsi senza di essa, ecc. ecc. Come ‘spingere’ la piccola borghesia al potere, se essa oggi, pur avendone la possibilità, non vuole prenderlo? Soltanto con la separazione del partito proletario, comunista, soltanto con la lotta di classe proletaria, libera dalla timidezza di questi piccoli borghesi. Soltanto la coesione dei proletari, che sono liberi nei fatti e non a parole dall’influenza della piccola borghesia, potrà rendere così ‘scottante’ il terreno sotto i piedi della piccola borghesia che essa, in date circostanze, sarà costretta a prendere il potere”. [2]
A scanso di ogni equivoco Lenin sottolinea che può essere definita una guerra realmente nazionale esclusivamente quella che un popolo oppresso combatte contro una potenza imperialista che lo domina. Non a caso Lenin sceglie come prototipo di questa guerra giusta quella portata avanti dai popoli colonizzati per emanciparsi da colonialismo e imperialismo. Dunque, per dirla con Lenin: “la guerra contro le potenze imperialistiche, ossia contro i paesi oppressori, da parte dei paesi oppressi (per esempio i popoli coloniali) è una guerra effettivamente nazionale”. [3] Anzi, Lenin non nasconde il suo aperto sostegno al diritto democratico dei popoli all’autodeterminazione, tanto da sostenere che “non sappiamo e non possiamo sapere quante nazioni oppresse avranno necessità della separazione per recare il proprio apporto alla varietà di forme della democrazia e delle forme di transizione al socialismo”. [4]
Dunque, i comunisti debbono sostenere le guerre per la democrazia o che hanno un contenuto democratico, come anche le guerre di difesa della patria dinanzi a una aggressione imperialista. Il che, naturalmente, non ha nulla a che vedere con le guerre interimperialiste per la spartizione del mondo in aree di influenza, come era stata appunto la Prima guerra mondiale. Perciò, osserva a ragione Lenin, fugando ogni possibile confusione fra guerre giuste e ingiuste, che: “le guerre sono la continuazione della politica; e quindi, se si sviluppa la lotta per la democrazia, è possibile anche una guerra per la democrazia; l’autodecisione delle nazioni è solo una delle rivendicazioni democratiche e, in linea di principio, non si distingue affatto dalle altre. La ‘supremazia mondiale’ è, in sintesi, il contenuto della politica imperialistica, che viene continuata dalla guerra imperialistica. Negare la ‘difesa della patria’, cioè la partecipazione a una guerra democratica, è un’assurdità che non ha niente da spartire con il marxismo. Abbellire la guerra imperialistica, applicandole la nozione di ‘difesa della patria’, spacciandola cioè per una guerra democratica, significa ingannare gli operai e passare dalla parte della borghesia reazionaria”. [5]
Una guerra non può divenire giusta solo in quanto incontra un consenso di massa. Perciò i comunisti non possono certo pretendere di sostenere o anche solo giustificare una guerra, per quanto possa essere approvata dalle masse popolari. Peraltro questa questione era stata posta concretamente ai socialisti nella fase immediatamente precedente l’inizio della Grande guerra, quando in diversi paesi la martellante propaganda interventista, sostenuta da tutti i grandi mezzi di comunicazione e da quasi tutti gli intellettuali, era divenuta popolare in non pochi paesi. Ciò servì da alibi, in quella occasione, ai socialsciovinisti per rinnegare tutte le proprie precedenti prese di posizione contro la guerra imperialista e il militarismo. Perciò, come osserva a ragione a questo proposito Lenin: “non sarebbe allora meglio per gli internazionalisti sapersi opporre in questo momento all’intossicazione di ‘massa’ invece di ‘voler restare’ con le masse, cedendo al contagio generale? Non abbiamo visto gli sciovinisti, in tutti i paesi belligeranti d’Europa, giustificarsi con il desiderio di ‘restare con le masse’? Non è nostro dovere saper rimanere per un certo tempo in minoranza contro l’intossicazione ‘di massa’?”. [6] In altri termini, come accade non di rado, se le masse popolari sono egemonizzate dall’ideologia dominante, espressione della classe dominante, i rivoluzionari non possono certo assumere una posizione codista nei confronti anche di movimenti di massa con prospettive non progressiste. Tanto più che, sfruttando i sovraprofitti garantiti da una politica imperialista, le borghesie nazionali dei paesi a capitalismo avanzato tendono sistematicamente a corrompere i dirigenti del movimento degli sfruttati, creando una vera e propria aristocrazia operaia. Quest’ultima, da parte sua, per difendere i propri miseri privilegi tenderà ad allearsi con la propria borghesia nazionale e ad assumere posizioni socialscioviniste. Rispetto a queste ultime Lenin è quanto mai categorico, al punto da sottolineare che “il socialsciovinismo è l’opportunismo nella sua forma più compiuta”. [7]
Peraltro, come non smette di evidenziare Lenin, in piena consonanza con Marx ed Engels, un popolo può essere considerato effettivamente libero solo nel momento in cui non è in alcun modo complice dell’oppressione di un altro popolo. In caso contrario, i rivoluzionari dovranno prendere posizione contro il loro stesso popolo, se davvero non intendono rinunciare alla lotta per la sua reale emancipazione. Quindi, a questo proposito, nota Lenin: “consideriamo la posizione della nazionalità che opprime. Un popolo che opprime gli altri popoli può essere libero? No. Gli interessi della libertà della popolazione grande-russa esigono che si combatta tale oppressione. La lunga, secolare storia della repressione del movimento delle nazioni oppresse, la sistematica propaganda di questa repressione da parte delle classi ‘superiori’ hanno creato gravi ostacoli alla causa della liberazione dello stesso popolo grande-russo dai suoi pregiudizi, ecc.”. [8]
Allo stesso modo Lenin contrasta nel modo più duro i socialcolonialisti e i socialimperialisti, ossia coloro che pur proclamandosi socialisti, giustificano il colonialismo e l’imperialismo in una qualche sua forma. La degenerazione che il revisionismo produce nei dirigenti del movimento dei lavoratori è tale che, nel congresso dell’Internazionale a Stoccarda (1907), la sinistra dovette faticare non poco per sconfiggere chi intendeva sancire una “politica coloniale socialista”. [9] A parere di Lenin si tratta di un concetto autocontraddittorio, e così, a scanso di equivoci, egli ci tiene a sottolineare che lo stesso “programma minimo di tutti i partiti socialisti si riferisce sia alle metropoli che alle colonie. Il concetto stesso di ‘politica coloniale socialista’ è quanto vi può essere di più confuso” [10] e contraddittorio. Allo stesso modo, questione purtroppo ancora oggi attuale, al Congresso di Stoccarda la sinistra della Seconda Internazionale dovette battersi contro la destra revisionista, che aveva assunto posizioni socialcolonialiste e intendeva limitare la “libertà di spostamento” dei lavoratori immigrati. Al contrario, a parere di Lenin, tale diritto va strenuamente difeso dai comunisti proprio per favorire la “lotta di classe solidale degli operai di tutti i paesi”. [11] Sempre in difesa dell’internazionalismo proletario, dinanzi ai partiti egemonizzati dai revisionisti che avevano tradito quanto stabilito nei precedenti congressi dell’Internazionale votando a favore dei crediti di guerra, Lenin ricorda come ancora nel 1907 al congresso di Stoccarda “persino in commissione le voci a favore della limitazione della libertà di spostamento sono rimaste completamente isolate, e nella risoluzione del congresso internazionale domina l’idea del riconoscimento della lotta di classe solidale degli operai di tutti i paesi”. [12]
Note:
[1] Vladimir I. U. Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo [aprile-maggio 1920], in Id., Contro l’opportunismo di destra e di sinistra e contro il trotskismo, Edizioni progress, Mosca 1978, p. 463.
[2] Id., Lettere sulla tattica [aprile 1917], in op. cit., pp. 310-11.
[3] Id., Intorno a una caricatura del marxismo e all’economismo imperialistico [agosto-ottobre 1916], in op. cit., p. 265.
[4] Ivi, p. 278.
[5] Ivi, p. 266.
[6] Id. Lettere …, op. cit., p. 314.
[7] Id., L’opportunismo e il crollo della II Internazionale [gennaio 1916], in op. cit., p. 249.
[8] Id., Sul diritto di autodecisione delle nazioni [febbraio-maggio 1914], in op. cit., p. 241.
[9] Id., Il congresso internazionale socialista di Stoccarda [settembre 1907], in op. cit., p. 82.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p. 85.
[12] Ibidem.