John Dewey, filosofo pragmatista e pedagogista statunitense, nato nel 1850 nel Vermont e morto a New York nel 1952, fu un personaggio a dir poco eclettico, i cui vasti interessi si possono riscontrare sia nella grande volumetria dei temi che egli affrontò nella sua vita, sia negli eventi della sua esistenza, che lo portarono a realizzarsi sì come accademico, ma anche come un uomo politico. Le sue idee, relativamente a quest’ultimo aspetto, furono sicuramente progressiste e liberali e lo portarono a fondare un terzo partito negli USA, democratico-riformista, fautore del New Deal di Roosevelt. Dopo un periodo (1904-1929) di viaggi, durante i quali egli visitò anche l’Unione Sovietica, rimase profondamente ispirato dalla pedagogia marxista e si convinse della necessità di apportare significative riforme sociali negli USA; fu sempre apertamente contrario a qualsiasi totalitarismo, e tuttavia assunse una posizione interventista in entrambe le guerre mondiali.
Egli è noto soprattutto per i suoi studi pedagogici, che mirano a coltivare il soggetto umano in modo da renderlo attivo ed integrato nell'ambito della società. L'industrializzazione ha comportato che gli uomini in generale acquisissero un atteggiamento di passività rispetto al processo produttivo, e la funzione della scuola sarebbe stata, per modificare questo scenario, quella di sollecitare il bambino a prendere coscienza delle eventuali difficoltà poste dal mondo esterno, per renderlo così proattivo verso di esso.
Ma John Dewey produsse delle profonde riflessioni anche in merito al mondo dell'arte, condensando nel 1934 in Art as Experience in maniera sistematica delle considerazioni che aveva elaborato nel corso della sua vita. Degni di interesse sono soprattutto i risvolti politici e sociali che si ricavano dalle valutazioni estetiche di Dewey, e che mettono l'accento, come gli studi pedagogici, sul fatto che attualmente il sistema capitalistico, che si fonda sull'espropriazione dei mezzi di produzione dalle mani dei lavoratori, impedisce loro di realizzarsi pienamente, e dunque anche di produrre arte.
L'arte nasce in stretta continuità con le attività umane; prima della modernità, anzi, non esisteva una vera e propria separazione fra la quotidianità umana e la produzione artistica. [1] I rituali che le comunità celebravano, le loro danze e pantomime, la decorazione del corpo con pigmenti e tatuaggi, sono a tutti gli effetti delle forme d'arte; in seguito, per i Greci la tragedia costituiva non solo un momento di godimento estetico, ma anche un ruolo pubblico e politico. L'idea che le opere possano avere anche una funzione sociale era talmente radicata nel mondo premoderno, che il concilio di Nicea nel 787 d.C. sancì che gli artisti non avrebbero potuto produrre liberamente, ma avrebbero dovuto rispettare dei criteri di realizzazione, di scelta del soggetto, stabiliti dalle autorità. [2] Ciò che decretò la separazione fra arte e vita, la frammentazione fra belle arti e artigianato, l'introduzione di una teoria estetica di ispirazione museale, furono soprattutto due fattori: il nazionalismo e il capitalismo.
Il nazionalismo ha comportato che le produzioni artistiche degli autori di un certo paese venissero strumentalizzate a fini apologetici, usate come lustro patriottico per un certo stato, e non apprezzate per il loro valore. Esse vennero collocate in certi contesti determinati, come i musei e le gallerie, per esaltarne la funzione, e così esse vennero sottratte al loro legame con la vita comune. [3]
Il capitalismo, imponendo un modo di produzione di tipo seriale, e producendo una omologazione della vita e dei prodotti utilizzati dagli uomini in tutto il mondo, ha costretto gli artisti a realizzare opere che, per essere riconoscibili, fossero sempre più eccentriche e bizzarre. Infatti, è sempre meno intuitivo il legame fra l'autore e l'opera, poiché vengono meno sempre di più i dettagli di carattere culturale tipico di ogni etnia, nella misura in cui i modelli di vita quotidiana usati in tutto il mondo tendono a non essere più differenziati e a non connotare più il prodotto degli artisti. [4]
Si genera così una frattura fra l'arte e il genius loci.
Come se non bastasse, c'è una stretta correlazione fra la strutturazione gerarchica della società e l'attribuzione di eminenza a certe forme d'arte rispetto ad altre. Come rilevato anche in Experience and Nature, [5] nell'antica Grecia si prestava particolare attenzione al carattere veritativo di opere ed oggetti, e si riteneva che l'arte, poiché si fondava sull'imitazione della natura, fosse veicolo di illusione. Artista ed artigiano quindi non si distinguevano, e ricoprivano un ruolo di scarso prestigio nell'ambito della società, poiché si occupavano di attività pratiche e manuali. Nel periodo della modernità, si dividono i concetti di arti utili e belle; queste ultime, che non dovevano essere strumentali ma solamente garantire un momento di contemplazione e osservazione, ricalcavano il movimento di ricerca della verità propria della scienza, e dunque vennero innalzate a quel ruolo nobile che tutt'ora l'arte museale riconosce loro.
Ma in cosa consiste la teoria estetica museale? Essa prevede che siano riconducibili alla categoria di "belle arti" quei prodotti conservati in collezioni, gallerie e luoghi appositi, i quali sono depositari di un qualche cosa di metafisico che ci permette di parlare di arte quando ci riferiamo ad essi, mentre tutto il resto è artigianato. Curioso è il fatto che questi prodotti, ammantati di un certo carattere numinoso, poiché sottratti dal loro legame con la vita della società sono con essa incomunicanti, mentre ciò che viene ricercato dagli uomini più comunemente per attingere ad esperienze estetiche, come il cinema, la musica jazz, la fotografia, hanno cominciato ad essere definiti "arte" con difficoltà e molto recentemente, ed ancora non vengono disinvoltamente messi sullo stesso piano delle opere pittoriche o di altre eminenti forme di produzione.
Attualmente, sosteneva Dewey, il gusto estetico delle società è mutato. Il crescente ruolo della scienza ha portato le persone a riconoscere la propria continuità con la natura e a ricercare nell'arte un'attestazione di questo aspetto [6]; inoltre, l'applicazione della scienza nell'ambito della grande industria ha portato a drastiche modificazioni dei modi di produzione. Questo non significa affatto che, ciò che quotidianamente viene realizzato dagli uomini, non può più essere detto arte: come, per esempio, dimostrano le avanguardie novecentesche, il prodotto di un processo meccanico può affascinare per la sua pulizia, la sua linearità e funzionalità. I paesaggi sempre più urbanizzati che ci circondano stanno rimodellando i nostri gusti verso un apprezzamento anche per il cibernetico. Quello che oggi impedisce agli uomini di fare arte nella loro quotidianità, come un artigiano avrebbe potuto fare nel passato [7], risiede nel fatto che i lavoratori sono stati espropriati dei propri mezzi di produzione, costituiscono degli ingranaggi passivi e collaterali di schemi produttivi nei quali sono introdotti, e questo impedisce loro di realizzare alcunché con intelligenza, coscienza ed espressione di valori. Sino a che gli uomini non si saranno riappropriati dei propri mezzi di produzione, essi non saranno messi nelle condizioni di realizzare opere d'arte nella loro quotidianità; a nulla vale aumentare le ore di sfogo dal lavoro, se non è nel lavoro che la società riesce ad esprimersi.
“In verità l’arte stessa non sarà al sicuro nelle condizioni moderne finché la massa di uomini e donne che svolgono il lavoro utile del mondo non avrà l’opportunità di guidare i processi produttivi e non sarà pienamente dotata della capacità di godere dei frutti del lavoro collettivo. Che il materiale per l’arte debba essere colto da ogni e qualunque fonte, e che i prodotti dell’arte debbano essere accessibili a tutti, è un’esigenza al cospetto della quale l’intenzione politica personale dell’artista risulta insignificante.” (Arte come esperienza, p. 326)
Questa visione non può che riconfermare la concezione marxiana per la quale l'espropriazione dei mezzi di produzione comporta che i lavoratori siano costretti ad uno stato di alienazione rispetto al proprio operare.
Insomma, perché l'attuale società possa riacquisire un contatto intimo con l'arte, come da sempre fu prima della modernità, non solo è necessaria una drastica revisione dei presupposti teorici che sono sottesi alla questione estetica, attraverso il superamento della concezione museale, ma è anche imprescindibile che si modifichi il sistema produttivo.
Più di recente, Larry Shiner, corroborando l'idea pragmatista di Dewey, evidenziò il fatto che la concezione museale non è in grado di rendere ragione di nuove forme d'arte, che sono sicuramente più affini a quello che tradizionalmente chiamiamo artigianato. Molto spesso, quest'ultima attribuzione deriva dal fatto che non solo queste opere svolgerebbero una funzione, e sarebbero quindi qualificabili come "arti utili", ma inoltre richiamerebbero a radici culturali storicamente sottovalutate e dispregiate dagli europei (si pensi all’arte africana, tanto di ispirazione per insigni autori come Matisse e Picasso, o a quella femminista). [8]
In questo modo, si ribadisce ulteriormente il fatto che la struttura sociale e la produzione artistica sono implicati in uno strettissimo intreccio, e che quest’ultima rivela pienamente l’insostenibilità dell’attuale organizzazione sociale.
Note:
[1] John Dewey, Arte come esperienza, a cura di G. Matteucci, Aesthetica, Monfalcone, 2020, pp. 31-34;
[2] Ivi, pp. 311-314;
[3] Ivi, p. 35;
[4] “I nouveaux riches che si costituiscono un importante sottoprodotto del sistema capitalistico, si sono sentiti soprattutto in dovere di circondarsi di opere dell’arte bella costose perché rare. In generale, il collezionista tipico è il capitalista tipico. Per dimostrare una buona posizione nel mondo della cultura più elevata, egli ammassa dipinti, statue e bijoux artistici alla stessa stregua in cui i suoi titoli e le sue obbligazioni certificano la sua posizione nel mondo economico.” (Ivi, p. 36);
[5] John Dewey, Esperienza e natura, a cura di P. Bairati, Mursia, Milano, 2018, 255-258;
[6] Il concetto di naturalismo di cui parla Dewey non implica tanto l’introduzione di elementi vegetali o faunistici all’interno delle opere, ma la messa in evidenza del fatto che il ritmo che caratterizza la natura, fatto di fasi di prosperità e di stasi, connota anche la vita dell’uomo. È passato il tempo nel quale si coltivava una concezione dualista, che separava spirito e materia, e che distingueva l’uomo dal resto del creato; l’evoluzionismo ha pienamente mostrato come l’essere umano sia parte integrante del resto della natura;
[7] Anche Sennett evidenzia come l’attuale sistema di produzione abbia comportato l’evaporazione della conoscenza delle tecniche di produzione da parte dei lavoratori, e così impedisce una continuità fra l’agire umano e la sua elaborazione teorica. Il produttore dell’oggetto utile non può più identificarsi con l’artista come si poteva dire in passato (l’autore porta l’esempio dell’orafo Cellini). (Richard Sennett, L’uomo artigiano, trad. di A. Bottini, Feltrinelli, Milano, 2017);
[8]Larry Shiner, L’invenzione dell’arte, Una storia culturale, trad. di N. Prinetti, Einaudi, Torino, 2010.