Il vecchio muore e il nuovo non può nascere

L'attuale crisi del capitalismo e la necesssità del suo superamento


Il vecchio muore e il nuovo non può nascere

“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati” *, osservava Gramsci in una nota scritta in carcere nel 1930; questa considerazione è purtroppo ancora oggi particolarmente attuale. Se non saremo in grado di far nascere una più razionale organizzazione della società, sulle rovine dell’attuale, andremo incontro a un’epoca ancora più oscurantista e imbarbarita della presente.

di Renato Caputo

Sfruttando a proprio vantaggio una crisi provocata da assetti proprietari sempre più monopolizzati da pochissimi privati, che impediscono lo sviluppo economico, una élite progressivamente ristretta si appropria di una quota sempre più spropositata del prodotto di un lavoro in misura crescente diviso e strutturato a livello internazionale. Così oggi l’1% della popolazione, senza dover lavorare, possiede maggiori ricchezze del 99%, spesso costretto a faticare per tutta la vita per consentire a una ristrettissima minoranza di vivere nel lusso più sfrenato, tanto che 63 nababbi si appropriano di una quota maggiore della ricchezza totale di 3 miliardi e seicento milioni di persone, il 50% più povero dell’umanità.  

In tale situazione ormai solo un mentecatto può dar credito all’ideologia positivista, espressione sovrastrutturale del dominio della borghesia, secondo la quale il progresso tecnologico e scientifico risolverà progressivamente i problemi della società visto che gli interessi degli industriali non possono che coincidere con gli interessi dei salariati. Allo stesso modo non può che apparire assurda la fede liberale nelle capacità della società civile, non ostacolata dal potere politico, di autoregolarsi secondo le sacre leggi di un mercato, per cui domanda e offerta tenderebbero spontaneamente a equilibrarsi.

Tanto più che, a fronte di milioni di individui che hanno sempre più difficoltà a soddisfare i propri bisogni primari, dinanzi al fatto che sempre meno lavoratori si devono assumere il carico di lavoro di un numero crescente di disoccupati o sottoccupati, le società a capitalismo avanzato rischiano di essere soffocate da una crisi di sovrapproduzione. Così, più aumentano i bisogni insoddisfatti, più aumentano i costi sociali per la distruzione delle merci sovraprodotte, che richiedono aggressioni speculative e militari sempre più violente e spietate.  

Tutto ciò non può che rivelare come fossero pie illusioni del passato le ideologie dominanti, le quali ritenevano che, lasciando libera l’economia da ogni forma di controllo politico e sociale, le crisi sarebbero divenute un reperto del passato. Altrettanto prive di credibilità appaiono oggi, quando persino il Papa denuncia la terza guerra mondiale in atto articolata nel costante proliferare di una miriade di violentissimi conflitti regionali, le tesi del pensiero unico secondo le quali con l’affermarsi delle società liberali ai danni del totalitarismo comunista, con il conflitto di classe, sarebbero venuti meno anche i conflitti fra le nazioni.

Assistiamo. dunque. al paradosso che il progresso tecnologico scientifico, all’interno delle società capitaliste, porta a un costante aumento del carico e dei ritmi di lavoratori sempre più alienati, essendo sempre più asserviti e dominati dal lavoro morto reificato nelle macchine. Così più una società procede nello sviluppo in senso capitalistico, lasciando liberi gli spiriti animali della società civile di ricercare il proprio profitto privato, più aumenta la quota di ricchezza sociale impiegata in attività assolutamente improduttive e in contrasto con i bisogni progressivamente insoddisfatti della grande maggioranza del genere umano.

Sempre più risorse sono, infatti, investite in attività speculative sempre più sfrenate, tanto che per ogni investimento in attività produttive ce ne sono oggi più di tredici, di pari importo, investiti in scommesse sui futures. La spaventosa concentrazione in poche mani delle ricchezze sociali e dei beni comuni rende sempre più a rischio le produzioni di merci non di lusso. Così, in misura crescente, appare più conveniente giocare i propri capitali in borsa, dove si riescono a razziare, grazie al controllo delle informazioni o degli stessi agenti del mercato, i “risparmi” dei piccoli investitori. 

Al di là di questo settore, in cui sempre più con l’andare del tempo si restringono i margini di profitto, anche perché il parco buoi è progressivamente ridotto dai salassi imposti dai grandi agli ignari piccoli “risparmiatori”, crescono gli investimenti in attività altrettanto improduttive: dalle pubblicità sempre più costose e sofisticate per manipolare la domanda e i bisogni in senso consumistico – inducendo progressivamente le masse e gli Stati a indebitarsi e a pagare interessi crescenti a un pugno di rentier – alle spese in armi sempre più spesso di distruzione di massa. Armi di cui, come per ogni altra merce, va indotto il consumo, soffiando sul fuoco dei conflitti sempre più violenti e diffusi a livello globale per i motivi più assurdi e fittizi. Si pensi a quanti uomini sono indotti a massacrarsi a causa di interpretazioni differenti su quale avrebbe dovuto essere il legittimo erede del profeta Maometto circa 1400 anni orsono. 

Oltre agli sprechi assurdi di risorse per vincere la concorrenza e imporre una determinata merce, a costo di pagare alla star l’equivalente della retribuzione di decine di migliaia di produttori ultra sfruttati di quelle merci, crescono spaventosamente le risorse investite nello spionaggio industriale e rivolto a carpire gli interessi dei singoli consumatori. Senza parlare di quante risorse, che potrebbero essere destinate a soddisfare bisogni reali, vengono sottratte al settore produttivo, per soddisfare bisogni fittizi mediante il commercio volto allo spaccio di stupefacenti: dalle droghe, alle visioni irrazionalistiche, mitologico-religiose del mondo, ai prodotti di evasione dell’industria culturale. Per non parlare, infine, di un ulteriore settore in costante espansione, ossia l’industria del sesso e della pornografia, che va dalla tratta degli schiavi del sesso, alla pedofilia, alla riduzione a merce del corpo e dello stesso immaginario maschile e femminile.  

Anche in tal caso l’industria del sesso è alimentata dai bisogni indotti da concezioni del mondo mitologico-religiose, irrazionalistiche e primitive, che tendono a impedire la libera, consapevole e razionale realizzazione degli istinti sessuali, che devono così ricercare le vie più assurde e morbose per trovare soddisfazione. Si pensi a quanti giovani disperati sono spinti, da naturali stimoli sessuali irrazionalmente repressi, a cercare una liberazione aderendo a organizzazioni terroristiche che promettono una soddisfazione terrena e ultraterrena della libido assurdamente repressa. 

In una tale fase di crisi, tornando a Gramsci, “le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano”; in altri termini si è prodotta “una rottura così grave tra masse popolari e ideologie dominanti”, che non potrà “essere ‘guarita’ col puro esercizio della forza che impedisce a nuove ideologie di imporsi” (Q 3, §34, p. 311). 

Certo, con il venire meno del sogno americano – la forma più sviluppata del mito dell’emancipazione resa possibile dal sistema capitalistico, che consente un’ascesa sociale potenzialmente illimitata al self made man – la classe dominante rischia in questa “crisi di autorità” di perdere il consenso di cui godeva, rischiando di non essere “più ‘dirigente’, ma unicamente ‘dominante’, detentrice della pura forza coercitiva” (Ibidem). D’altra parte “l’interregno, la crisi di cui si impedisce così la soluzione storicamente normale”, non potrà trovare soluzione nella semplice “restaurazione del vecchio” anche perché, come la storia dimostra, una “restaurazione compiuta” è poco più che un mito [1].

Affinché questa “crisi dei valori”, ossia della capacità di egemonia del pensiero unico dominante, non porti a creare le condizioni per “un’espansione inaudita del materialismo storico” [2], si cerca da un lato di sponsorizzare in ogni modo il ritorno a una visione del mondo mitologico-religiosa, d’altro di individuare un nuovo untore da dare in pasto a una folla ridotta a plebe dalla carenza di coscienza di classe: l’immigrato, o più in generale, il diverso. 

Tuttavia se gli ideologi della classe dominante, gli attuali Tui, fanno semplicemente lo sporco mestiere per cui sono pagati, è assolutamente deprecabile che gruppi dirigenti della sinistra, in larga parte formati o influenzati da intellettuali tradizionali, si ostinino a illudere le masse che il nuovo potrà affermarsi all’interno del vecchio per via elettorale. In altri termini, si lascia credere che sia possibile ovviare a rapporti di forza sfavorevoli, non rilanciando il conflitto sociale, ossia impedendo che la lotta di classe sia condotta in modo unilaterale dalle classi dominanti, ma vincendo alle elezioni o mediante referendum [3]. 

Si pensi, ad esempio, a quanto negativa per il morale dei lavoratori europei sia stata la parabola di Syriza, che ha vinto le elezioni sulla base di un programma che prometteva mari e monti, facendo credere che tali elevati obiettivi sarebbero stati realizzati una volta conquistato il governo, senza nemmeno prevedere il conflitto con i poteri forti dell’Unione Europea. Non appena tale conflitto, inevitabilmente, si è prodotto, senza neppure simulare uno scontro, la maggioranza di Syriza ha semplicemente abiurato a tale programma, sostenendo che sarebbe stato realizzabile solo a seguito prima di un referendum, poi della vittoria elettorale di Podemos. 

Ancora più penose sono le posizioni maggioritarie nella sinistra radicale italiana, che non solo non è intenzionata a rilanciare il conflitto, ad esempio rimanendo legata in Cgil alla maggioranza camussiana, ma non otterrà nemmeno significativi risultati elettorali. Una parte di essa, infatti, secondo una logica tafazziana, continua a prendere come modello Syriza, ormai al governo per gestire la crisi per conto dei poteri forti. Un’altra parte, invece, non va al di là della difesa della Costituzione, nonostante in essa ormai sia inserita la norma liberista del pareggio di bilancio, che vieta persino una politica economica di stampo keynesiano.

Note

* A.Gramsci, Quaderni dal carcere (Q 3, §34, p. 311)

[1] Occorre purtroppo costatare come un altro aspetto della previsione di Gramsci si è purtroppo avverato quasi alla lettera: “la depressione fisica porterà a lungo andare a uno scetticismo diffuso e nascerà una nuova ‘combinazione’ in cui per es. il cattolicismo diventerà ancora di più pretto gesuitismo” (Q 3, §34, p. 311). Ancora più spaventoso è oggi constatare come tanti intellettuali tradizionali, sedicenti di sinistra, possano interpretare un tale allarmante scenario come progressivo.

[2] Tanto più che, come osserva ancora Gramsci, “la stessa povertà iniziale che il materialismo storico non può non avere come teoria diffusa di massa”, nella forma di un materialismo al quanto rozzo, “lo renderà più espansivo” (Ibidem).

[3] Ai limiti del patologico appaiono gli intellettuali di “sinistra” nostrani, i quali hanno provato a convincere i residui lavoratori, che li stanno ancora a sentire, che l’elezione di un singolo nel parlamento europeo – notoriamente dotato di un ruolo puramente consultivo – significasse una vittoria del partito che dovrebbe avere come scopo, quanto meno, il miglioramento delle condizioni reali dei subalterni.

 

06/02/2016 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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