L’ideale dell’eguaglianza fra gli uomini è considerato da Antonio Gramsci il fondamento costitutivo tanto del diritto moderno – di contro al particolarismo e al privilegio dominante nel mondo feudale – quanto la base stessa della democrazia moderna. A suo parere, in effetti, uno Stato è tanto più democratico quanto più non solo sul piano formale della legge e al livello astratto dei diritti politici e di cittadinanza, ma anche sul piano concreto dei diritti economici e politici viene realizzato l’ideale dell’eguaglianza. Perciò, tale ideale e le sue realizzazioni storiche segnano in profondità la modernità al punto da essere divenute senso comune, come dimostra il detto popolare ricordato da Gramsci: “siamo nati tutti nudi”, cioè “tutti nascono allo stesso modo” [1].
L’ideale dell’eguaglianza ha una genesi duplice: empirica, in quanto fondata su una visione del mondo mitico-folcloristica, e scientifico-filosofica [2]. La concezione mitico-folcloristica si fonda sulla rappresentazione cristiana “di dio-padre e uomini-figli, quindi uguali” (7, 38: 887); la concezione filosofica sulla proposizione idealista: “la filosofia è la scienza democratica per eccellenza in quanto si riferisce alla facoltà di ragionare comune a tutti gli uomini” (10, 35, 1280-281) [3] e sul materialismo metafisico francese del XVIII secolo [4] che riduce l’“uomo a categoria della storia naturale, individuo di una specie biologica, distinto non per qualificazioni sociali e storiche, ma per doti naturali; in ogni caso essenzialmente uguale ai suoi simili”. Quest’ultima concezione è per diversi aspetti analoga a quella che si afferma nelle scienze naturali che asseriscono l’“uguaglianza «naturale» cioè psico-fisica di tutti gli elementi individuali del «genere» umano” (7, 38: 887). Tali concezioni egualitarie sono il portato di trasformazioni rivoluzionarie epocali “che hanno posto gli anelli più potenti dello sviluppo storico” (7, 35: 885): l’eguaglianza fra gli uomini in quanto figli di dio segna il superamento del mondo antico, mentre la concezione scientifico-filosofica dell’eguaglianza è il prodotto dell’affermarsi del mondo moderno di contro al privilegio di casta dominante nel Medioevo [5].
Ricapitolando, possiamo dire che il progressivo affermarsi della democrazia moderna sul piano politico e della coscienza comune procede di pari passo con lo sviluppo del concetto di uguaglianza tanto nel materialismo – che guardando alle scienze naturali pone l’uomo quale individuo generico dal punto di vista biologico – quanto nell’idealismo, che eguaglia gli individui sulla base della comune capacità di porsi sul piano universale della ragione.
Perciò Gramsci porta avanti una radicale critica delle concezioni che si sono affermate con il positivismo e che condannano i tentativi di fondare storicamente una “democrazia egualitaria” in quanto sarebbero “artificiali” dal momento che contrasterebbero presunte leggi naturali. In effetti, come denuncia Gramsci, l’ideologia positivista dominante dalla seconda metà del XIX secolo alla Prima guerra mondiale ha preteso di poter definire “naturali” solo gli assetti del passato che si intenderebbe, in questo caso sì artificialmente, restaurare, tacciando al contrario di “astratto e innaturale” ogni progetto di trasformazione radicale, di rivoluzione dell’esistente, spacciato come “il positivo”. Al contrario, agli occhi di Gramsci appare “convenzionale” proprio il paradigma centrale dell’ideologia positivista, dal momento che “la realtà lo ha distrutto” (2, 91: 249). In verità, prosegue Gramsci, “i peggiori «scientifisti» sono i reazionari che si proiettano una «evoluzione» di proprio comodo e ammettono l’importanza e l’efficacia dell’intervento della volontà umana fortemente organizzata e concentrata, solo quando è reazionaria, quando tende a restaurare ciò che è stato, come se ciò che è stato ed è stato distrutto non sia altrettanto «ideologico», «astratto», «convenzionale», ecc., di ciò che ancora non è stato effettuato e anzi molto più” (ibidem).
Allo stesso modo, Gramsci denuncia come “uno dei luoghi comuni più banali” la critica ai sistemi rappresentativi moderni nei quali il principio della quantità avrebbe il sopravvento su quello della qualità, per cui il corso politico dello Stato sarebbe determinato allo stesso modo da un qualunquista e da chi dedica anima e corpo alla vita politica. Dunque ponendo il mero numero come la legge suprema, nel sistema democratico l’opinione “di un qualsiasi imbecille che sappia scrivere (e anche di un analfabeta, in certi paesi)”, sarebbe equiparata, nel determinare le scelte politiche dello Stato, a quella di colui il quale, al contrario, dedicherebbe le sue migliori energie alla vita politica nazionale. Tali concezioni estremamente diffuse durante il Ventennio fascista, dimenticano, come nota acutamente Gramsci, che il predominio del momento quantitativo è solo apparente, in quanto ha il solo “valore strumentale” di misurare i rapporti di forze fra le classi sociali in lotta. Se ne deduce che non solo non è affatto vero che in democrazia domini incontrastato il principio quantitativo, ma non corrisponde neanche al vero la rappresentazione per cui “il peso dell’opinione di ogni elettore sia «esattamente»” la medesima. In effetti, osserva ancora acutamente Gramsci, “le idee e le opinioni non «nascono» spontaneamente nel cervello di ogni singolo: hanno avuto un centro di formazione, di irradiazione, di diffusione, di persuasione, un gruppo di uomini o anche una singola individualità che le ha elaborate e presentate nella forma politica d’attualità”. Perciò anche il computo matematico delle percentuali ricevute dalle diverse forze politiche nelle elezioni è esclusivamente “la manifestazione terminale di un lungo processo in cui l’influsso massimo appartiene proprio a quelli che” dedicano alla vita politica nazionale i loro sforzi.
Quindi, a ben guardare, nota ancora acutamente Gramsci, i meri numeri, “anche in questo caso, sono un semplice valore strumentale, che danno una misura e un rapporto e niente di più. E che cosa poi si misura” nelle elezioni democratiche? “Si misura proprio l’efficacia e la capacità di espansione e di persuasione delle opinioni di pochi, delle minoranze attive, delle élites, delle avanguardie ecc. ecc. cioè la loro razionalità o storicità o funzionalità concreta” (13, 30: 1624-625). Il computo dei voti non è, dunque, che la manifestazione terminale del processo di formazione dell’opinione pubblica a opera di gruppi o personalità che dispongono degli strumenti intellettuali e materiali per persuadere l’uomo qualunque. Perciò, ne conclude a ragione Gramsci, “se questo presunto gruppo di ottimati”, cioè i membri delle classi dirigenti al servizio della classe economicamente dominante, “nonostante le forze materiali sterminate che possiede, non ha il consenso della maggioranza, sarà da giudicare o inetto o non rappresentante gli interessi «nazionali» che non possono non essere prevalenti nell’indurre la volontà nazionale in un senso piuttosto che in un altro” (13, 30: 1625). Sono, dunque, proprio le élite che confondono i propri interessi particolari con gli interessi universali “a trovare «orribile» ecc. che sia la «legge del numero» a decidere”. In effetti, come nota sarcasticamente Gramsci, per i membri della classe dirigente sarebbe certo preferibile “diventare élite per decreto. Non si tratta pertanto di chi «ha molto» intellettualmente che si sente ridotto al livello dell’ultimo analfabeta, ma di chi presume di aver molto e che” pretendere di sottrarre “all’uomo «qualunque» anche quella frazione infinitesima di potere che egli possiede nel decidere sul corso della vita statale” (ibidem). Al contrario, rispetto a tali tendenze oligarchiche volte a perpetuare lo stato di disuguaglianza, i dirigenti progressisti devono tendere a suscitare uno strato intermedio fra loro e le masse, per favorire l’emergere di possibili “concorrenti” (6, 97: 772), in grado di affiancarli nella funzione direttiva.
Note:
[1] Per dirla con Gramsci: “«l’uomo è mortale; Tizio è uomo, Tizio è mortale». Tizio = tutti gli uomini. Così ha origine empirico-scientifica (empirico = scienza folcloristica) la formula: «Siamo nati tutti nudi»”. Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Valentino, Einaudi, Torino 1977, volume I, p. 887-88. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e – dopo i due punti – il numero di pagina di questa edizione.
[2] D’altra parte, come osserva acutamente Gramsci, anche l’affermazione dell’ideale di eguaglianza nel senso comune non è precedente, come si potrebbe erroneamente credere, ma conseguente alla discussione ideologica fra gli intellettuali di tale principio.
[3] Gramsci cita l’aforisma: “omnis enim philosophia, cum ad communem hominum cogitandi facultatem revocet, per se democratica est”. Proprio sulla base di tale motivo, come fa notare a ragione Gramsci, è possibile spiegare “l’odio degli aristocratici per la filosofia e le proibizioni legali contro l’insegnamento e la cultura da parte delle classi del vecchio regime” (10, 35, 1281).
[4] Su tali basi Gramsci mette in evidenza lo sviluppo della democrazia moderna in parallelo a quello di determinate forme di idealismo e materialismo metafisico.
[5] Per dirla con Gramsci: “è vero che tanto le religioni che affermano l’eguaglianza degli uomini come figli di Dio o le filosofie che affermano la loro uguaglianza come partecipanti della facoltà di ragionare sono state espressioni di complessi movimenti rivoluzionari (la trasformazione del mondo classico – la trasformazione del mondo medioevale) che hanno posto gli anelli più potenti dello sviluppo storico” (7, 35: 885).