Segue da “Gramsci, la crisi e le soluzioni bonapartiste”
Secondo Antonio Gramsci, per quanto le correnti neo-storiciste reazionarie si mascherino dietro la progressiva esigenza di eliminare ogni moralistico canone di interpretazione storica, da un lato dimenticano che lo stesso diritto naturale che criticano è un prodotto storico, dall’altro che in tal modo esse non fanno, a loro volta, che contrapporre una nuova concezione del diritto naturale alla vecchia, maggiormente adeguata alle esigenze della borghesia nella sua fase di crisi e che entra in conflitto con la precedente concezione ancora condivisa dai subalterni. Tali concezioni mirano, in effetti, a colpire l’influenza progressiva che le credenze popolari nel diritto naturale esercitano soprattutto su giovani intellettuali e studenti.
Dette credenze costituiscono ciò che Gramsci definisce “folclore giuridico”, di derivazione al contempo laica e religiosa [1], il quale può essere criticato sia in senso reazionario – per sradicare la credenza che l’individuo come tale sia naturalmente portatore di diritti – che in senso progressista e/o rivoluzionario, denunciandone i limiti storici. Da quest’ultima prospettiva tali credenze nei diritti umani e/o naturali vanno criticate in quanto basate su una concezione acritica e astorica del diritto; dal punto di vista del contenuto in quanto i diritti dell’uomo sono fondati su una concezione giuridica che corrisponde a bisogni storici passati e, dunque, non in grado di rispondere alle nuove esigenze nel frattempo sorte. Da destra la critica è condotta dal punto di vista di un nuovo diritto naturale che entra in conflitto con la precedente concezione ancora condivisa dagli sfruttati. In tal modo, fa notare Gramsci, i settori più aggressivi delle classi dirigenti intendono sostituire al modo di pensare popolare “un modo di pensare non popolare, altrettanto mancante di critica del primo” (15, 8: 1761-62).
Misconoscendo il valore reale e universalistico celato nella forma metafisica in cui sono espressi i diritti umani, i nuovi teorici del diritto storico finiscono con l’essere ancora più antistorici e metafisici dei teorici del diritto naturale, naturalizzando dei diritti decisamente meno universalistici di quelli della Rivoluzione francese, in quanto legati al sangue e al suolo, sino a fomentare il conflitto fra civiltà. In tal modo si sviluppa una delle contraddizioni fondamentali del sistema borghese, lo sviluppo delle forze produttive ha bisogno di una dimensione cosmopolita, mentre la difesa dei rapporti di produzione e proprietà necessita un accentuato nazionalismo (sovranismo) e protezionismo (cfr. 15, 5: 1756).
Tuttavia, le classi dirigenti sono le prime a rinunciare alla concezione metafisica su cui si fondava il loro diritto naturale, nel momento in cui non appare più funzionale alla salvaguardia dei rapporti di produzione e proprietà esistenti, divenuti sempre più irrazionali e palesemente ingiusti. D’altra parte le classi dominanti hanno tutto l’interesse e faranno, perciò, il possibile affinché le masse popolari non possano dubitare della presunta “naturalità” delle leggi della società capitalistica e, quindi, conservare intatta la loro fiducia nella visione metafisica del mondo alla loro base. A tale fine resta molto utile per le classi dirigenti l’egemonia ancora esercitata dalla chiesa sulle masse, al punto che tanto Croce che Gentile nei loro progetti liberali di riforma scolastica ritengono funzionale alla salvaguardia dell’ordine esistente demandare al clero l’educazione del popolo.
Come denuncia Gramsci, sulla base del principio idealistico della servitù quale culla della libertà [2] – rivisitato in senso evoluzionistico – si intendeva giustificare l’esigenza delle classi dominanti di tenere sotto il controllo della propria ideologia i subalterni, considerati alla stregua di eterni fanciulli, mediante un’istruzione di tipo religioso-metafisico. Così facendo i massimi ideologi della classe dominante intenderebbero spacciare ciò che è meramente esistente per reale-razionale, ovvero invece di universalizzare e tradurre in modo adeguato il superiore sviluppo culturale in possesso del ceto dirigente, per istruire adeguatamente almeno i figli delle masse popolari, mirano a naturalizzare l’arretratezza dei subalterni per mantenerli sempre tali, facendogli interiorizzare appunto come naturale e, dunque, razionale, immutabile la loro miserrima condizione. Tale modo di ragionare di Croce e Gentile, nonostante il loro strumentale richiamo a Hegel, è a ragione denunciato da Gramsci come non “dialettico e progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo”, fondato sulla concezione “che la ‘religione è buona per il popolo’ (popolo = fanciullo = fase primitiva del pensiero cui corrisponde la religione ecc.)”, il che implica “la rinunzia (tendenziosa) a educare il popolo” (11, 1: 1367).
Così, dunque, la concezione del “diritto naturale” è mantenuta artatamente viva dall’ideologia dominante nella coscienza delle classi popolari, impedendo a esse di prendere coscienza dei limiti, della transitorietà storica del diritto, delle sovrastrutture e, più in generale, dell’intera struttura di dominio borghese. Del resto, a parere di Gramsci, il diritto naturale su cui si fondano i diritti dell’uomo e del cittadino è indizio della sostanziale continuità fra la concezione del diritto cattolica e quella sorta dalla Rivoluzione francese. In effetti, come mostra a ragione Gramsci, il concetto stesso di diritto naturale è “essenziale ed integrante della dottrina sociale e politica cattolica”. Anzi, più generalmente, Gramsci mette acutamente in luce gli stretti legami fra la religione cattolica – almeno per “come è stata sempre intesa dalle grandi masse e gli ‘immortali principi dell’89’” – e la formulazione borghese dei diritti umani. Ciò consente di spiegare il motivo per il quale, riconoscendo implicitamente questi profondi legami, la gerarchia cattolica consideri la Rivoluzione francese una sorta di eresia. Allo stesso modo consente di comprendere come mai le masse popolari, pur essendo state educate ai valori della chiesa cattolica, abbiano potuto aderire alla Rivoluzione francese nonostante il conflitto sempre più aspro di essa con la gerarchia cattolica. Ne conclude Gramsci: “per ciò si può dire che concettualmente non i principii della Rivoluzione francese superano la religione, poiché appartengono alla sua stessa sfera mentale, ma i principii che sono superiori storicamente (in quanto esprimono esigenze nuove e superiori) a quelli della Rivoluzione francese, cioè quelli che si fondano sulla realtà effettuale della forza e della lotta” (27, 2: 2315) [3]. Tanto è vero che, in caso di contrasto fra due diritti contrastanti, ad esempio il diritto di coalizione o la libera contrattazione individuale della forza-lavoro, o il diritto di stabilire l’orario di lavoro è sempre stata la forza a decidere per una parte piuttosto che per l’altra. In tali casi sono sempre i padroni a sostenere i diritti individuali, di libera compra-vendita della forza-lavoro, di contro ai proletari che necessitano del diritto di coalizione poiché individualmente i rapporti di forza sono del tutto a loro sfavore, sebbene tale diritto sia considerato dalla borghesia un residuo del corporativismo medievale. Si pensi alla presunta equidistanza del governo fascista che pretendeva di porre sullo stesso piano i diritti degli uni e degli altri, vietando al contempo il diritto di sciopero e quello di serrata. Non potendo ricorrere a tale strumento di lotta, la forza-lavoro vide progressivamente calare il proprio prezzo nella libera contrattazione fondata sul rispetto dei diritti umani. Va, dunque, sempre ricordato che senza un’adeguata e autonoma organizzazione dei lavoratori sui luoghi di produzione, una volta venduta liberamente la propria forza-lavoro il suo utilizzo è del tutto alla mercé dell’acquirente, con buona pace dei diritti dell’uomo alla libertà, eguaglianza e fraternità.
Note:
[1] Dunque, come osserva Gramsci: “la polemica in realtà mira ad infrenare l’influsso che specialmente sui giovani intellettuali potrebbe avere (e hanno realmente) le correnti popolari del ‘diritto naturale’, cioè quell’insieme di opinioni e credenze sui ‘proprii’ diritti che circolano ininterrottamente nelle masse popolari, che si rinnovano di continuo sotto la spinta delle condizioni reali di vita e dello spontaneo confronto tra il modo di essere dei diversi ceti. La religione ha molto influsso su queste correnti, la religione in tutti i sensi, da quella come è realmente sentita e attuata a quella quale è organizzata e sistematizzata dalla gerarchia, che non può rinunziare al concetto di diritto popolare. Ma su queste correnti influiscono, per meati intellettuali incontrollabili e capillari, anche una serie di concetti diffusi dalle correnti laiche del diritto naturale e ancora diventano ‘diritto naturale’, per contaminazione le più svariate e bizzarre, anche certi programmi e proposizioni affermate dallo ‘storicismo’. Esiste dunque una massa di opinioni giuridiche popolari, che assumono la forma del ‘diritto naturale’ e sono il ‘folclore’ giuridico. [..] Né è da pensare che l’importanza di questa quistione sia sparita con l’abolizione delle giurie popolari, perché nessun magistrato può in una qualsiasi misura prescindere dall’opinione: è anzi probabile che la quistione si presenti in altra forma e in misura ben più estesa che nel passato, ciò non mancherà di sollevare pericoli e nuove serie di problemi da risolvere” Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi Torino 1977, pp. 2316-17. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Osserva a tal proposito con il consueto acume Gramsci: “Hegel aveva affermato che la servitù è la culla della libertà. Per Hegel come per Machiavelli, il ‘principato nuovo’ (cioè il periodo dittatoriale che caratterizza gli inizi di ogni nuovo tipo di Stato) e la connessa servitù sono giustificati solo come educazione e disciplina dell’uomo non ancora libero. Però B. Spaventa (Principii di etica, Appendice, Napoli, 1904) commenta opportunamente: ‘Ma la culla non è la vita. Alcuni ci vorrebbero sempre in culla’” (11, 5: 1370).
[3] Il diritto personale è, del resto, un’eredità del mondo romano e da tal punto di vista nel Medioevo era proprio solo dei popoli latini subalterni, mentre tanto i popoli germanici, quanto i membri della chiesa avevano la possibilità di far valere i propri diritti facendo forza su un’organizzazione collettiva. Emergono così i limiti del diritto personale romano, antecedente del diritto dell’uomo, e la permanenza nel diritto moderno del dualismo presente nella società medievale: “per il diritto romano, l’essere diventato diritto personale volle dire essere messo in una posizione inferiore a quella spettante alle leggi popolari o Volksrechte, vigenti nel territorio dell’Impero d’Occidente, la cui conservazione o modificazione spettavano non già al potere sovrano, regio o imperiale, o per lo meno non ad esso solo, ma anche e principalmente alle assemblee dei popoli ai quali appartenevano. Invece i sudditi romani dei regni germanici, e poi dell’Impero, non furono considerati come un’unità a sé, ma come singoli individui, e quindi non ebbero una particolare assemblea, autorizzata a manifestare la sua volontà collettiva circa la conservazione e modificazione del proprio diritto nazionale” (3, 87: 369). Al contrario, “per il diritto canonico invece la riduzione a diritto personale non avvenne, essendo il diritto di una società diversa e distinta” (ibidem).