Segue da La questione dei diritti umani nei Quaderni del carcere
Antonio Gramsci considera decisivo il nesso tra democrazia ed egemonia, al punto da scrivere: “tra i tanti significati di democrazia, quello più realistico e concreto mi pare si possa trarre in connessione col concetto di egemonia. Nel sistema egemonico, esiste democrazia tra il gruppo dirigente e i gruppi diretti, nella misura in cui [lo sviluppo dell’economia e quindi] la legislazione [che esprime tale sviluppo] favorisce il passaggio [molecolare] dai gruppi diretti al gruppo dirigente” [1]. È proprio questo, secondo Gramsci, il significato principale della democrazia moderna: il potere politico oltre che sulla coercizione si fonda sull’egemonia, garantita dallo sviluppo economico e dalla sua corrispondente sanzione giuridica, che favorisce il passaggio molecolare dai ceti subalterni al blocco sociale dominante. Su tale possibilità si fonda il portato progressivo dello Stato moderno borghese che sradica la concezione conservatrice delle istituzioni precedenti, fondate sull’esigenza di garantire la casta chiusa al potere. Come osserva a questo proposito Gramsci: “la classe borghese pone se stessa come un organismo in continuo movimento, capace di assorbire tutta la società, assimilandola al suo livello culturale ed economico: tutta la funzione dello Stato è trasformata: lo Stato diventa ‘educatore’” (2, 8: 937).
La concezione idealista dello Stato etico non è, dunque, necessariamente in contrasto con la concezione liberale volta a lasciare il massimo spazio all’attività della società civile facendo dello Stato il “guardiano della ‘lealtà del gioco’ e delle leggi di esso” (26, 6, 2302-2303). La stessa concezione liberale si è affermata e domina nello Stato moderno mediante l’intervento legislativo. Dunque, solo ideologicamente è possibile contrapporre la società politica alla società civile, in quanto si tratta di due distinti attributi di una medesima sostanza. Perciò, Gramsci sostiene, in aperta polemica con l’ideologia liberale ancora oggi dominante: “rientra nella categoria dell’economismo tanto il movimento teorico del libero scambio come il sindacalismo teorico. [..] Nel primo caso si specula incoscientemente (per un errore teorico di cui non è difficile identificare il sofisma) sulla distinzione tra società politica e società civile e si afferma che l’attività economica è propria della società civile e la società politica non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma in realtà questa distinzione è puramente metodica, non organica e nella concreta vita storica società politica e società civile sono una stessa cosa. D’altronde anche il liberalismo deve essere introdotto per legge, per intervento cioè del potere politico: è un fatto di volontà, non l’espressione spontanea, automatica del fatto economico” (4, 38, 460).
Allo stesso modo, l’eticità dello stato, ovvero l’accordo fra norma d’azione individuale e sociale, è – sottolinea Gramsci – opera tanto “coattiva nella sfera del diritto positivo”, quanto “spontanea e libera” sul piano della società civile (6, 84: 757). Come osserva a tal proposito Gramsci: “la rivoluzione portata dalla classe borghese nella concezione del diritto e quindi nella funzione dello Stato consiste specialmente nella volontà di conformismo (quindi eticità del diritto e dello Stato). Le classi dominanti precedenti erano essenzialmente conservatrici nel senso che non tendevano ad elaborare un passaggio organico dalle altre classi alla loro, ad allargare cioè la loro sfera di classe ‘tecnicamente’ e ideologicamente: la concezione di casta chiusa” (2, 8: 937).
Dunque Gramsci, al contrario di quanto fa oggi certa sinistra, pur mostrando l’importanza storica dell’affermarsi dello stato di diritto, riconduce il momento giuridico alla politica, ovvero “all’arte di governare gli uomini, di procurarsene il consenso permanente” (5, 127: 657-58), polemizzando contro la scuola positiva del diritto, il cui storicismo è apparente in quanto assolutizza la tradizione giustificandola non su basi razionali, ma in nome della presunta naturalità, che finisce per costituire un’origine trascendente della norma giuridica. A ulteriore dimostrazione dell’uso quanto meno disinvolto della storia da parte di detta scuola, Gramsci mostra come la giurisprudenza romana, cui si appella la scuola storica del diritto, sia “un prodotto schiettamente feudale nel senso primitivo di prima del Mille” (5, 123: 643). Gli studi giuridici che si richiamano al diritto romano sorgono dal bisogno concreto “di dare assetto legale ai nuovi e complessi rapporti politici e sociali”. Per tale motivo il richiamo al modello romano dà una veste pseudo-universale allo sviluppo della più minuziosa casistica da cui sono sorte le giurisprudenze locali volte a sancire l’esistente, ovvero la ragione del più forte: “i principi del diritto romano vengono dimenticati o posposti alla glossa interpretativa che a sua volta è stata interpretata, con un prodotto ultimo in cui di romano non c’è nulla, altro che il principio puro e semplice di proprietà” (5, 123: 643).
Tornando alla norma giuridica, si tratta per Gramsci di battersi contro ogni concezione trascendente del diritto, mostrando come esso sia prodotto dell’azione concreta dei diversi gruppi sociali in conflitto fra loro che, per le loro necessità storiche, trasformano lo stato esistente delle cose e, dunque, anche la norma giuridica che lo sancisce. Certo per la funzione che il diritto assume nella totalità della vita di uno stato esso è necessariamente in relazione con ogni altra funzione e tale relazione non muta meccanicisticamente ad ogni trasformazione del contenuto specifico dell’elemento giuridico. È la prassi umana a plasmare di sé il diritto, che non può divenire un feticcio deducibile dai costumi storici. Al punto che in caso di contrasto fra diritti, ad esempio fra diritto di coalizione e libera contrattazione individuale della forza lavoro, è sempre la forza a decidere. In tal caso sono i proprietari a sostenere i diritti individuali di scambio, di contro ai lavoratori che necessitano del diritto di coalizione poiché individualmente i rapporti di forza sono a loro sfavore, sebbene esso possa apparire un residuo del corporativismo medievale. Si pensi alla presunta equidistanza del governo fascista che pretendeva di porre sullo stesso piano i diritti degli uni e degli altri vietando al contempo il diritto di sciopero e quello di serrata. Non potendo ricorrere a tale strumento di lotta, la forza lavoro vide progressivamente calare il proprio prezzo nella libera contrattazione, fondata sul rispetto della libertà ed eguaglianza giuridica dei contraenti. Più in generale, in mancanza di un’adeguata organizzazione dei lavoratori sui luoghi di produzione, una volta venduta liberamente la forza-lavoro il suo utilizzo è tutt’ora alla mercé dell’acquirente, con buona pace della Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Il diritto naturale, i diritti umani e l’importanza che hanno avuto per le masse popolari
Lo stesso diritto naturale, su cui si basano i diritti umani, è criticato da Gramsci in quanto in continuità con la concezione giuridica dell’ancien régime fondata su presupposti metafisici: “concettualmente non i principii della Rivoluzione francese superano la religione, poiché appartengono alla sua stessa sfera mentale, ma i principii che sono superiori storicamente (in quanto esprimono esigenze nuove e superiori) (..), cioè quelli che si fondano sulla realtà effettuale della forza e della lotta” (27, 2: 2315). Del resto Gramsci pone in evidenza come l’appello al diritto “naturale” è stato strumentalizzato dalle forze reazionarie avverse alla Rivoluzione francese – da Burke a Taine – che avevano condannato come “artificiali” gli interventi rivoluzionari del soggetto storico – che hanno posto in essere le istituzioni della Rivoluzione francese – in quanto pretendevano di poter negare il “naturale” corso del mondo. Le accuse di ideologico e convenzionale rivolte contro le istituzioni rivoluzionarie, astrattamente contrapposte ad una presunta naturalità del diritto costituito, erano funzionali a contrastare ogni tentativo di mettere radicalmente in discussione l’esistente. A parere di Gramsci a essere meramente convenzionale è proprio il mondo storico negato dal progresso reale del genere umano cui si appellano i reazionari. Perciò, come osserva Gramsci, “in verità i peggiori ‘scientifisti’ sono i reazionari che si proiettano una ‘evoluzione’ di proprio comodo e ammettono l’importanza e l’efficacia dell’intervento della volontà umana fortemente organizzata e concentrata, solo quando è reazionaria, quando tende a restaurare ciò che è stato, come se ciò che è stato ed è stato distrutto non sia altrettanto ‘ideologico’, ‘astratto’, ‘convenzionale’ ecc., di ciò che non è stato effettuato e anzi molto di più” (2, 91: 249).
Tuttavia, pur condividendo la critica marxiana alla “naturalizzazione” del diritto e più in generale delle determinazioni fondamentali della società capitalistica – quale strumento della borghesia per dare veste universale alla propria struttura sociale – pur rigettando il presunto portato sovrastorico del diritto naturale, Gramsci è più disponibile a riconoscere la portata rivoluzionaria del diritto naturale su cui si fonda la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, anche perché meno urgente era nella sua epoca l’esigenza di autonomizzare il partito del proletariato dai partiti democratici piccolo-borghesi che, su tali ideali, si fondavano. In altri termini Gramsci riconosce il portato progressivo e universalizzante che i diritti dell’uomo e del cittadino hanno svolto in una determinata epoca storica, per la loro capacità di trasformare i costumi sociali esistenti [2]. Gramsci pone in luce la funzione educativa, creativa di tali diritti, fondamento della sovrastruttura giuridica dello stato borghese, che hanno rinnovato in profondità i costumi sociali dell’ancien régime. L’universalismo dei diritti naturali ha una funzione progressiva in particolare di fronte all’emergere sempre più aperto del particolarismo, del privilegio del sistema capitalistico.
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Note
[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi Torino 1977, p. 1056. D’ora in poi citeremo l’opera fra parentesi direttamente nel testo indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Gramsci reinterpreta la concezione marxiana del “diritto naturale” per replicare alla critica che ne aveva fatto Benedetto Croce. Entrambi credono che in generale la critica alla natura storico-occasionale, al fine politico-ideologico non comporti necessariamente la falsificazione di un concetto. A parere di Croce la critica di Marx colpiva l’uso storico-ideologico del concetto e non il suo valore metafisico; la critica al fine particolare, politico del concetto non ne mette in discussione il valore universale.