L’insostenibile leggerezza di alcuni studiosi nella divulgazione di leggende gramsciane. L’anticomunismo che abbaglia e induce all’errore.
Si tratta di dare alle cose il significato che esse devono avere e non che vorremmo avessero. Si sta scrivendo delle tendenze fuorvianti, se non apertamente menzognere, sulla vicenda politica e umana del nostro Gramsci, quasi fosse lo sport nazionale dell'intellighenzia borghese degli ultimi anni.
Si fa ancora una volta riferimento esplicito alla sua frizione con Togliatti, peraltro per nulla taciuta da parte comunista, cosa che, però, non dovrebbe tracimare nel vasto mare delle illazioni, dei sospetti, delle costruzioni ad hoc e dei romanzetti da bassa lega.
Franco Lo Piparo, docente presso l’Università di Palermo, ha prodotto negli ultimi due anni tre lavori con al centro la figura di Antonio Gramsci: il primo sui due “carceri”, quello fascista e quello comunista cui il leader comunista sarebbe stato condannato[1]; il secondo sull’esistenza di un 34° Quaderno del carcere[2] distrutto, eliminato, fatto fuori, stracciato (il lettore e la lettrice possono usare il verbo distruttivo più consono) da quel “maligno” (responsabile dell’uso del lemma è chi scrive) di Togliatti perché lì c’era indiscutibilmente rubricata la sconfessione gramsciana del comunismo e il suo approdo ad altri lidi politici, forse la socialdemocrazia (troppo a sinistra), meglio il liberalismo.
Ma addirittura, perché no?, se il poverino fosse sopravvissuto al carcere fascista, persino approndando alla Democrazia cristiana per dar man forte a De Gasperi contro il suo ex compagno Togliatti. Questo secondo libricino (il diminutivo ha senso vezzeggiativo in quanto non vuol essere riduttivo rispetto al contenuto) tra le varie assurdità appena accennate, grazie ad incroci di date e di situazioni, sostiene addirittura che molte delle intuizioni di Wittgenstein sarebbero state suggerite proprio dal nostro Gramsci attraverso i suoi colloqui con Sraffa nel corso degli ultimi anni di vita[3]. Verrebbe a questo punto voglia di contraccambiare l'attenzione scrivendo una sintesi alla presentazione del libricino: Un capolavoro di esaltazione visionaria e di trascendente innalzamento alle vette dell’assoluta creazione! Un'opera leggendaria.
A Lo Piparo si è aggiunto il suo sodale di ricerca pervicacemente antitogliattiana, il professor Mauro Canali dell’Università di Camerino, che ha prodotto un testo intorno al presunto tradimento compiuto da Togliatti rispetto a Gramsci[4]. Si sostiene che ad esempio pur se il Pci nel secondo dopoguerra definì una politica culturale che si richiamava a Gramsci, al contempo la tradì in toto, in ogni sua indicazione, soprattutto a riguardo delle avanguardie del Novecento. Senza dimenticare la ricostruzione della storia della lettera di Grieco a Gramsci che tanta amarezza suscitò nell’animo del recluso che fu indotto dal giudice istruttore Macis, come sostiene Ruggero Giacomini[5] (unico in questa turba di sedicenti ricercatori e studiosi a muoversi con il crisma del ricercatore vero), a credere che il Partito, proprio nella figura di Togliatti, stesse ordendo un complotto per impedire che l’iter avviato dall’URSS per la sua liberazione andasse in porto.
Insomma, nella mente di questi studiosi di Gramsci il mostro togliattiano si muove con astuzia e con perfidia nel tentativo di ridurre Gramsci nelle condizioni di non nuocere alla linea politica di un Partito ormai chiaramente stalinista al quale l’eresia gramsciana non può che portare disturbo. Non mi soffermo intorno alla presunta eresia di Gramsci rispetto all’ortodossia interna al movimento comunista internazionale visto che sono proprio i Quaderni del carcere a mostrare il chiaro schierarsi di Gramsci contro Trotskij e la sua critica allo stalinismo nelle forme del parlamentarismo nero che non rimanda ad un’eresia, semmai ad un atteggiamento di sospensione del giudizio che riprende i contenuti di quanto scritto da Gramsci stesso nella famosa lettera al CC del Pcus del 1926, la cui mancata consegna da parte di Togliatti ai dirigenti sovietici fu alla base del disaccordo fra i due.
Non bastavano Lo Piparo e Canali. Ora giunge, ultima soltanto in ordine cronologico in quanto alcuni contenuti del lavoro sono delle primizie, Noemi Ghetti, vicina a Massimo Fagioli, ossia schierata sul fronte della psicanalisi, con incursioni nella letteratura e nella filosofia nonché nella politica. Il titolo del libro[6] è un chiaro riferimento al Canto X dell’Inferno dantesco, dell’autore del quale e dei cui protagonisti l’autrice si era già interessata[7]. Nel rispetto dell’enunciato di Wittgenstein secondo il quale è meglio fare silenzio intorno a ciò che non si conosce (e molti di questi sedicenti studiosi di Gramsci e dei suoi rapporti con Togliatti dovrebbero farne tesoro), scriverò qualcosa esclusivamente sugli aspetti politico-teorici e filologici del testo. Già dall’Introduzione si coglie qualcosa di analiticamente poco corretto. Infatti si sostiene la presenza costante e continua nella linea politica del Pci del secondo dopoguerra di un’opzione cattolica (il cosiddetto cattocomunismo) apertamente antigramsciana: ovviamente il padre di questo atteggiamento è il “cattivo” Togliatti che, nel mentre proclama la continuità del Pci con il pensiero del suo rifondatore, cioè Gramsci, in realtà lo smentisce apertamente. Sulla questione specifica va fatta chiarezza sulla base di una semplice storicizzazione della vicenda, ossia della mutazione della posizione di Gramsci nei confronti della “quistione vaticana” (posizione che, a detta della Ghetti anche nel capitolo del libro dedicato al tema specifico[8], rimarrebbe quella di un cocciuto ed ostinato mangiapreti anticlericale senza alcuna capacità analitica riguardante la storia d’Italia). Andrebbe ripercorsa tutta la storia degli scritti dedicati da Gramsci al problema dal 1912 ai Quaderni per rendersi conto che dalle posizioni del 1918, prese come riferimento dalla Ghetti, a quelle del carcere ci sono ulteriori sedimentazioni di pensiero o, per usare la terminologia gramsciana, delle mutazioni molecolari che conducono il detenuto politico a redigere delle note[9] ove si operano dei distinguo all’interno del movimento cattolico prendendo in considerazione l’evento dello scioglimento del Partito popolare in conseguenza della promulgazione delle “leggi fascistissime” nel 1926 e la sopravvivenza dell’Azione cattolica come forma del movimentismo cattolico fino alla presenza, ovviamente impossibile da cogliere per Gramsci, ma sottolineate infatti da Togliatti nella presenza dei cattolici nel movimento della Resistenza. Vorrei insistere sul punto e cito: “In Italia, a Roma, c’è il Vaticano, c’è il papa: lo Stato liberale ha dovuto trovare un sistema di equilibrio con la potenza spirituale della chiesa: lo Stato operaio dovrà anch’esso trovare un sistema di equilibrio”[10]. Da una semplice comparazione di date si evince che lo scritto gramsciano appena citato è posteriore di due anni rispetto a quello citato dalla Ghetti nel quale il nostro Gramsci affermava che ogni compromesso con la Chiesa cattolica avrebbe comportato una subordinazione ad essa dello Stato laico (e questo riferimento cronologico ha valore anche rispetto a tutti gli altri rimandi che l’autrice opera nei confronti degli scritti gramsciani precarcerari sul tema).
Da qui al discorso di Togliatti alla Costituente con cui veniva accolto nell’art. 7 il riferimento ai Patti Lateranensi il passo è molto più breve di quanto la Ghetti possa immaginare, visto che, pur di addossare al Migliore tutte le responsabilità di una sua supposta contrapposizione a Gramsci, arriva a porre la sua educazione cattolica di matrice salesiana quasi all’origine di quelle che saranno le scelte comuniste non solo nella Costituente, ma anche nel corso del secondo dopoguerra. Ma poiché ci è stato insegnato proprio da Gramsci che i testi non vanno sollecitati[11], citerò, seppur lungamente, ma ne vale la pena, il discorso tenuto da Togliatti alla Costituente il 25 marzo del 1947, il discorso in cui, appunto, si parlava dell’art. 7 e che la Ghetti non si perita di prendere in considerazione. Riferendosi a Dossetti, che rinveniva nei corsi universitari di diritto ecclesiastico di Ruffini a Torino le origini della formulazione dell’art. 7, Togliatti continuava nel modo seguente: “Veniva alle volte, e si sedeva in quell’aula, un uomo, un grande scomparso, amico e maestro mio, Antonio Gramsci (…) egli parlava con me anche del problema che ci occupa in questo momento, del problema dei rapporti fra la chiesa cattolica e lo Stato italiano (…) e ricordo che Gramsci mi diceva che il giorno in cui si fosse formato in Italia un regime socialista, uno dei principali compiti di questo governo, di questo regime, sarebbe stato di liquidare completamente la questione romana garantendo piena libertà alla Chiesa cattolica”[12].
Un elemento autobiografico mi sia consentito di utilizzare per mettere un freno ad una delle temerarie uscite anticomuniste dell’autrice la quale sostiene che, anche al momento della pubblicazione dell’edizione critica dei Quaderni nel 1975[13], Gramsci era oggetto di discussione per una cerchia ristretta di addetti ai lavori ed oscurato dall’ombra di Togliatti[14]. Proprio nel 1975, in coincidenza con la pubblicazione dell’edizione Gerratana degli scritti carcerari gramsciani e, forse, proprio grazie a ciò, decisi di affrontare il mio lavoro di laurea su tematiche gramsciane, insieme ad altri amici e compagni che fecero scelte simili, verso le quali, peraltro, mi aveva spinto il titolo del tema dell’Esame di Maturità (1972) da me sostenuto consistente nella famosa lettera al figlio Delio sulla storia[15]. Se un tema di Maturità, in epoca di potere democraticocristiano, aveva come oggetto Gramsci, almeno come nome il nostro sarà stato scoperto da molti studenti italiani. Certamente, resta il fatto che ancora oggi proprio la nostra scuola a lui dedichi spazio inesistente; ma questo non è responsabilità dell’ombra di Togliatti o di altri dirigenti comunisti e, horribile dictu!, neanche di Stalin, bensì della scuola italiana. Se però la Ghetti ha voluto operare, come scrive, una forma di risarcimento nei confronti dei suoi studenti attraverso la pubblicazione di questo suo libro che dovrebbe avere una valenza divulgativa, si consenta a quell’umile lettore quale sono di far presente che non si fa opera di divulgazione del pensiero di un autore attraverso l’interpretazione di quello stesso pensiero, ma presentandolo senza “sollecitazioni” né colorite varianti poliziesche a tinte fosche intorno a una vicenda che meriterebbe maggior rispetto e, soprattutto, maggior cautela filologica.
A proposito della cautela filologica e delle mistificazioni, sulle quali ultime l’autrice molto spende pur di gettare luce orrenda sull’operato dei dirigenti comunisti del secondo dopoguerra, i quali furono, a suo dire, lettori e diffusori per scopi politici immediati di varianti non autentiche dell’opera gramsciana, vorrei fissare l’attenzione su due questioni. La Ghetti sostiene che Gramsci studiò “attentamente” i Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx in quanto “pubblicati postumi nel 1888”[16]. Forse l’autrice confonde i Manoscritti con le marxiane Tesi su Feuerbach (1845) pubblicate da Engels appunto nel 1888 in appendice al volume Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca[17]. I Manoscritti marxiani del 1844 sono stati pubblicati nel 1932 per la prima volta da Adoratski per cui è abbastanza difficile credere che Gramsci potesse conoscerli, come peraltro sottolineato da un insigne studioso del pensiero gramsciano come è stato Nicola Badaloni[18]. Peraltro, sfogliando “attentamente” i Quaderni di traduzioni carcerari[19] (proprio per uno scrupolo) ci sono traduzioni da Marx ma non dei Manoscritti (d’altronde, per quanto si è scritto, come sarebbe stato possibile?)[20].
Sempre nella stessa pagina, che inaugura un capitolo intitolato “Il comunismo e l’irrazionale”, come incipit del paragrafo “Amore e rivoluzione”, la Ghetti cita un passaggio dei Manoscritti nella traduzione di Bobbio[21] (se si fosse data la briga di leggere la Nota alla traduzione di Bobbio l’autrice avrebbe scoperto da penna non comunista che la traduzione veniva effettuata sulla prima edizione dello scritto di Marx del 1932) rammaricandosi che il filosofo abbia usato, nella sua traduzione, i termini “maschio” – “femmina” invece di “uomo – donna”, sminuendo così il senso storico profondo della questione del rapporto uomo-donna, divenuta centrale con la Rivoluzione d’ottobre, e privando quei termini della forza che designa “la diversità sessuale specificamente umana”, che li colloca in una posizione molto vicina “alla sensibilità gramsciana”[22]. Se l’autrice avesse compulsato anche la traduzione di Galvano della Volpe[23], avrebbe riscontrato con i propri occhi che in questa traduzione compaiono le parole “uomo” – “donna”, molto più vicine, come da lei sostenuto, alla “sensibilità gramsciana”. Proprio un traduttore interno al Pci di Togliatti aveva colto la sensibilità gramsciana e il senso più profondo di quello che Marx intendeva come, parole dell’autrice, “il principio eversivo della centralità del rapporto uomo-donna nella storia della civiltà”[24]. Dispiace contraddirla, però, sul fatto che quel rapporto era così centrale per Gramsci non in dipendenza della lettura del testo marxiano, che non poteva conoscere, ma in virtù di un’esperienza vissuta nel corso della quale conobbe delle donne, una delle quali divenne madre dei suoi due figli, a cui lo legarono vincoli “für ewig” determinati anche dalle condizioni del loro incontro. Non ricorrere alla traduzione dellavolpiana del testo di Marx lascia intendere, visto che nel libro della Ghetti si scrive spesso di psicanalisi e di irrazionale, ad un rimosso costituito dai comunisti in genere e da quelli del periodo togliattiano del secondo dopoguerra, in particolare (anche se della Volpe, pur militando in quel Pci, proprio togliattiano non fu mai).
Un rimosso che si sedimenta e procura una malattia viscerale: l’anticomunismo che abbaglia, induce all’errore e procura letture invero molto ideologiche in quanto edificate su un’unica idea: il presunto e surrettiziamente costruito tradimento di Togliatti nei confronti di Gramsci.
Note
[1] F. Lo Piparo, I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista, Donzelli, Roma, 2012
[2] F. Lo Piparo, L’enigma del quaderno. La caccia ai manoscritti dopo la morte di Gramsci, Donzelli, Roma, 2013
[3] F. Lo Piparo, Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere, Donzelli, Roma, 2014
[4] M. Canali, Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata, Marsilio, Venezia, 2013
[5] R. Giacomini, Il giudice e il prigioniero. Il carcere di Antonio Gramsci, Castelvecchi, Roma, 2014
[6] N. Ghetti, Gramsci nel cieco carcere degli eretici, L’Asino d’oro, Roma, 2014
[7] N. Ghetti, L’ombra di Cavalcanti e Dante, L’Asino d’oro, Roma, 2011
[8] N. Ghetti, Gramsci nel cieco carcere degli eretici, cit., pp. 55-70
[9] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, in specie il Quaderno 20 redatto fra il 1934 e il 1935 e intitolato Azione cattolica – Cattolici integrali – gesuiti - modernisti
[10] A. Gramsci, L’Ordine Nuovo, 20 marzo 1920 in L’Ordine nuovo 1919-1920, a cura di V. Gerratana e Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino, 1987, p. 468
[11] A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 838 (si tratta del Quaderno 6, & 198)
[12] Assemblea Costituente, Sull’articolo 7 della Costituzione, seduta del 25 marzo 1947 in P. Togliatti, Discorsi parlamentari (1946-1951), Camera dei deputati, Roma, 2007 (si tratta della II ristampa dell’edizione del 1984), p. 82
[13] A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit.
[14] N. Ghetti, Gramsci nel cieco carcere degli eretici, cit., p. XIV
[15] A. Gramsci, Lettere dal carcere 1926-1937, a cura di Antonio A. Santucci, Sellerio editore, Palermo, 2013 (si tratta della II edizione in volume unico essendo la I edizione del 1996 in due volumi), pp.805-806
[16] N. Ghetti, Gramsci nel cieco carcere degli eretici, cit., p. 95
[17] F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972 (si tratta della prima ristampa della II edizione essendo la I edizione del 1950). Il testo di Engels è tradotto da Togliatti mentre le Tesi su Feurbach (pp.81-86) da Mario Rossi.
[18] N. Badaloni, Filosofia della praxis in Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, Editrice l’Unità, Roma, 1987, p. 93
[19] Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci, Quaderni di traduzioni (1929-1932), a cura di G. Cospito e G. Francioni, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 2007, volumi I-II
[20] Per un’ulteriore conferma dell’errore in cui è incappata la Ghetti si consultino altri lavori divulgativi del pensiero di Marx; uno fra tanti N. Merker, Karl Marx (1818-1883), Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 44
[21] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, prefazione e traduzione di N. Bobbio, Einaudi, Torino, 1975 (si tratta della I edizione nella collana NUE dopo la I edizione del 1949 e la II edizione del 1968 con ristampa nel 1973), pp. 109-110
[22] N. Ghetti, Gramsci nel cieco carcere degli eretici, cit., p. 95
[23] K. Marx, Opere filosofiche giovanili, a cura di Galvano Della Volpe, Editori Riuniti, Roma, 1977 (si tratta della III ristampa alla IV edizione essendo la I edizione del 1950), p. 225
[24] N. Ghetti, Gramsci nel cieco carcere degli eretici, cit., p. 95