Antonio Gramsci ed il giornalismo partigiano

Gramsci, improvvisatosi giornalista per le necessità politiche della lotta di classe, ci ha indicato la responsabilità storica dell’informazione autentica, contro i giornali-merce che avvelenano i pozzi della cultura e distorcono la realtà.


Antonio Gramsci ed il giornalismo partigiano Credits: postcard (la voce del popolo.net)

''Sono e mi chiamo Gramsci Antonio, pubblicista, ex deputato al Parlamento. (…) Tutta la mia attività nel partito comunista l'ho esplicata quale deputato e quale scrittore del giornale ''l'Unità'', e tutta la mia opera era facilmente controllabile in quanto si svolgeva in pubblico'' [1], dichiarò Antonio Gramsci, linguista, filosofo, giornalista, scrittore e politico secondo quanto riportato dal verbale di interrogatorio nel carcere giudiziario di Milano, datato 9 febbraio 1927.

Erano passati molti anni da quando, appena diciannovenne, aveva scritto il primo articolo per ''L'Unione Sarda'' in veste di corrispondente da Aidomaggiore. Anni durante i quali Gramsci fondò alcune testate e scrisse per giornali -tra cui ''Il Grido del popolo'', ''La Città Futura'', ''L'Ordine Nuovo'', ''Avanti!'' e ''l'Unità''- altri, numerosi ed illuminanti articoli dagli argomenti trasversali, recensioni e critiche teatrali comprese, adoperando di volta in volta toni impegnati o brillanti, durante i quali elaborò ed affinò la teoria e la prassi politica, anni di vicissitudini personali e familiari oltre che storiche, politiche, sociali e culturali.

Cambiano i contesti, mutano gli scenari con i loro microcosmi interdipendenti, ma restano invariate le lezioni di alcuni pensatori universali, maestri del pensiero più o meno noti, che sono giunti a noi grazie alle loro opere e che attenderebbero solo una nostra riscoperta, rivalutazione ed applicazione adattata ai nostri tempi. ''Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza'', secondo Gramsci nei Quaderni: tuttavia, in una società sempre più liquida, atomizzata, che esalta il 'dilettantismo gaglioffesco', per dirla come l'autore, a scapito dello sviluppo delle coscienze in sé e per sé quanti di noi, dagli aspiranti intellettuali integrali al resto degli uomini inscindibilmente 'sapiens e faber', sarebbero in grado di rilasciare una simile dichiarazione dinnanzi al Tribunale Speciale di un regime pressoché totalitario, rivendicando con orgoglio e coraggio il proprio operato fino alla fine dei propri giorni? E quanti di noi sarebbero altrettanto in grado di ''partecipare ad una concezione del mondo, [avere] una consapevole linea di condotta morale, quindi [contribuire] a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare”[2]?

Forse anche per queste ragioni, nell'ottantesimo anniversario della morte del pensatore, filosofo, scrittore e soprattutto giornalista sardo, appare quanto mai puntuale la considerazione del professor Angelo D'Orsi: ''Credo che il pensiero di Gramsci sia drammaticamente inattuale ma allo stesso tempo assolutamente necessario. Il mondo in cui viviamo è lontanissimo da Gramsci, sotto qualsiasi punto di vista. Ma ci sono degli elementi che lo rendono (…) necessario. Sono la sua personalità, la sua serietà, il suo rigore, ma anche il suo appassionato sarcasmo così diverso dalla sguaiataggine che vediamo oggi. (…) l'idea di un comunismo umanistico e anche la sua onnivora curiosità (…). Insomma, noi oggi avremmo davvero bisogno di figure come Gramsci'' [3].

Questi ed altri temi sono stati trattati ed attualizzati sabato 24 giugno, presso la Torre Aragonese di Ghilarza, nel corso della tavola rotonda sul libro ''Antonio Gramsci. Il giornalismo, il giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore de ''l'Unità'', a cura di Gian Luca Corradi, alla quale hanno partecipato Giorgio Macciotta, presidente della Fondazione Casa Gramsci, Francesco Birocchi, presidente dell'Ordine dei giornalisti della Sardegna, Celestino Tabasso, presidente dell'Associazione della stampa sarda, Costantino Cossu, responsabile delle pagine culturali de ''La Nuova Sardegna'', Giancarlo Ghirra del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti e Giorgio Fasca Polara, autore della postfazione del libro in questione nonché ex redattore parlamentare de ''l'Unità''. Quest'ultimo, ricollegandosi al pensiero sopra esposto, sottolinea come non si possa ''archiviare Gramsci ed il suo pensiero nel solo Novecento'', bensì si debba ''attualizzarlo in barba alle notizie costruite ad hoc dai ciarlatani della comunicazione al soldo dei leaders populisti di turno'' i quali ''tendono sempre più a delegittimare quasi completamente un'intera categoria, ossia quella dei giornalisti''.

Questo fenomeno, continua Frasca Polara, ''ha avuto inizio con il berlusconismo ma è poi continuato con la diffusione dei nuovi mezzi di comunicazione basati sull'uso troppo spesso sconsiderato di internet e dei social networks da parte di alcuni manipolatori dell'informazione, i quali sono ormai giunti all'esclusione pressoché totale dell'intermediazione giornalistica nella costruzione degli articoli e degli scritti in generale''.

La responsabilità della deriva di delegittimazione di una professione che dovrebbe essere socialmente e culturalmente cruciale, nell'analisi del presidente dell'Ordine dei giornalisti sardi Birocchi, ''è determinata in parte dal contesto storico e politico, dal mutamento della politica nelle sue forme istituzionali e partitiche, il quale causa a sua volta un profondo cambiamento nella partecipazione della società civile, della stampa e di tutto il settore editoriale che ne dovrebbe essere espressione e, dall'altra parte, dalla credibilità di alcuni giornalisti o 'narratori contemporanei', sovente impreparati, talvolta facinorosi, travolti da un sistema neoliberista dominante o egemone, per dirla à la Gramsci, che non permette loro di esprimersi al meglio, possibilmente scevri dalla precarietà e dallo sfruttamento che impera anche in questo settore ed incrina il necessario rapporto con la verità sostanziale dei fatti narrati''.

Anche il segretario dell'Associazione della stampa sarda Celestino Tabasso ha sottolineato come ''attualmente, alcuni giornalisti sempre più indifferenti vengono meno al proprio compito abdicando al loro ruolo di ricerca e verifica dei fatti e delle fonti, lasciando talvolta campo libero alle fake news, bufale che si diffondono sui social, o limitandosi a riportare testualmente delle dichiarazioni palesemente poco credibili di una delle parti in causa in un contenzioso, spesso la più forte ed influente, e determinando conseguenze imprevedibili per l'intero mondo dell'informazione. Le battaglie per l'identità professionale della parte ancora 'sana' del giornalismo e dell'editoria si perdono così anche a causa dell'assenza di scuole politico- giornalistiche, così come teorizzato da Gramsci, le quali dovrebbero consentire di contrastare l'imperare del 'giornale- merce', ben infiocchettato, ma concretamente privo di contenuti rilevanti''.

Proprio per questo si sottolinea, seguendo il pensiero di Gramsci espresso nei Quaderni del carcere, la necessità di formare i giornalisti, oggi afflitti dal precariato, perché la teoria non appare corroborata dalla pratica: se Tabasso si domanda provocatoriamente se ''oggi Gramsci si rivolgerebbe ad un giornale cartaceo o ad un post su un social network più vicino alla parte ricettiva dei lettori per assolvere alla sua funzione pedagogica'', Ghirra e Cossu fanno riferimento alla preconizzazione gramsciana dei limiti alle libertà dei giornalisti moderni legate alla prevalenza, nella linea editoriale di un giornale, delle questioni amministrative su quelle educative e degli interessi degli editori- spesso appartenenti a tutt'altro settore imprenditoriale- che considerano l'informazione alla stregua di merce e reificano inevitabilmente un'intera redazione la quale, secondo Tabasso, finirebbe per rappresentare, in questi casi, ''un esercito industriale di riserva, in linea con una diffusa involuzione produttiva, una categoria polverizzata tanto quanto il proletariato''.

A questo punto ci si potrebbe domandare per quale ragione si senta la necessità, oggi come ieri, di denunciare lo stato in cui versa il settore editoriale e la categoria professionale dei giornalisti: si potrebbe infatti obiettare che la crisi del capitalismo, visto da Gramsci come un ordine di civiltà e non soltanto come un aspetto economico strutturale, interessi ormai trasversalmente tutti i settori produttivi e coinvolga anche la parte politicamente più riluttante dell'opinione pubblica.

La risposta si potrebbe intuire anche solamente analizzando la sopra citata dichiarazione rilasciata da Gramsci presso il carcere giudiziario di Milano nel lontano 1927: la si potrebbe infatti valutare come un'orgogliosa rivendicazione del proprio status di pubblicista alla luce degli oltre 1500 articoli pubblicati che per l'autore, pur 'morendo alla giornata', ricoprono un ruolo cruciale in vista della realizzazione di un giornalismo integrale, oppure ancora, secondo la versione di Cossu, come ''metodo più efficace per colpire il fascismo e la limitazione delle libertà di pensiero, di espressione e di stampa tipiche di qualunque forma di autoritarismo giungendo così, potenzialmente, a mobilitare l'immaginario collettivo''.

Come ricordato da tutti i protagonisti della tavola rotonda ghilarzese proprio Gramsci, fondatore e

militante del Partito Comunista, teorizzò la centralità del ruolo dei giornalisti alla luce della loro funzione sociale, inscindibilmente connessa alla società civile: al fine di combattere lo Stato integrale fondato sull'egemonia e sulla violenza, quindi di per sé iniquo, bisognerebbe condurre una decisiva battaglia per le idee, allo scopo di costituire nuove egemonie in qualità di modelli da sostituire ai precedenti. Tale battaglia, nella visione gramsciana, deve potersi avvalere di intellettuali presenti all'interno di associazioni ed organismi privati che compongono la società civile (quali sindacati, partiti politici, editori e giornali) e, tra questi, di giornalisti i quali, rifacendosi al giornalismo europeo classico di matrice illuminista, considerino rivoluzionaria la verità e rinuncino all'abulica terzietà di tradizione anglosassone -che ha tradito l'obiettivo della creazione di educatori diffusi al servizio esclusivo della realtà dei fatti, e non dei padroni dell'editoria e della politica neoliberista ora egemone.

Ergo, se i giornalisti e tutti coloro i quali si apprestano a diventarlo dovrebbero, secondo Costantino Cossu, ''cominciare ad immergersi nella realtà di vita dell'opinione pubblica'' - punto di contatto nevralgico tra lo Stato e la società civile, secondo Gramsci - ''smettendo i panni di ingessati osservatori esterni nei quali sono stati relegati'' è altresì necessario, secondo le parole di Gramsci, “(…) che spariscano gli indifferenti, gli scettici, quelli che usufruiscono del poco bene che l'attività di pochi procura, e non vogliono prendersi la responsabilità del molto male che la loro assenza dalla lotta lascia preparare e succedere” [4].

Nonostante i tempi siano cambiati, molti ideali politici appaiano quanto mai sbiaditi, la 'transigente intransigenza' gramsciana, intesa come coerenza fino all'estremo sacrificio, sia stata soppiantata da una tanto sbandierata quanto nebulosa 'onestà intellettuale' ed il modello di produzione fordista sia giunto fino alla quarta rivoluzione industriale plasmando a suo uso e consumo perfino il settore terziario, persistono ancora -tanto in Italia quanto nel resto del mondo- numerosi intellettuali e giornalisti integrali, partigiani contro l'indifferenza così vicini a ''Gramsci che ci insegnò a servire solo ed unicamente la verità, che ci ha fatto capire come dovrebbe essere un giornalista nonostante la censura, le persecuzioni ed il carcere'', secondo quanto sostenuto da Birocchi.

È Giorgio Macciotta a rimarcare il significato, talvolta colpevolmente sconosciuto, del giornalismo integrale per Gramsci: citandolo testualmente, ''il tipo di giornalismo che si considera (…) si potrebbe chiamare integrale (…), cioè quello che non solo intende soddisfare tutti i bisogni (di una certa categoria) del suo pubblico, ma intende di creare e sviluppare questi bisogni e quindi di suscitare, in un certo senso, il suo pubblico e di estenderne progressivamente l'area'' [5].

Esso dipende direttamente anche dai lettori i quali, come ricordato sempre da Macciotta, sono intesi da Gramsci come ''elementi economici, in quanto determinano la tiratura del giornale, ed elementi filosofici, perché indirizzabili verso il consenso nei confronti di una nuova egemonia culturale e politica da parte di un nuovo gruppo, lo stesso che, attraverso i suoi intellettuali e giornalisti educatori, favorisca in loro la nascita e lo sviluppo di una coscienza critica''.

Al termine del lungo dibattito emerge una questione che, oltre a rappresentare un interrogativo aperto, si configura come speranza per l'avvenire: riuscirà la società civile ad educare ed integrare l'opinione pubblica, alquanto subalterna e talvolta serva inconsapevole dell'egemonia corrente, attraverso l'opera degli intellettuali organici e dei giornalisti partigiani, rivoluzionari di professione e per vocazione come furono Gramsci ed altri grandi maestri universali di pensiero?

Riusciranno i giornalisti educatori a trasmettere la cultura, ossia la ''conquista di una coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri'' [6], mettendosi completamente al servizio della verità dei fatti, quindi dei cittadini- loro compresi- e del loro diritto all'informazione e boicottando la stampa borghese che ''(…) tace, o travisa, o falsifica [i fatti], per ingannare, illudere, e mantenere nell'ignoranza il pubblico dei lavoratori’’ [7]?

Note:

  1. Citazione tratta dal libro ''Antonio Gramsci. Il giornalismo, il giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore de ''l'Unità'', a cura di Gian Luca Corradi, edito da Tessere, Firenze 2017. Per un confronto, ''Il processone'', a cura di Domenico Zucaro, Ed. Riuniti, Roma 1961.
  2. Citazione tratta da ''Gli intellettuali, i giornalisti'', Quaderni XXIX, VIII, XXVIII, e ripresa nel prima citato libro ''Antonio Gramsci. Il giornalismo, il giornalista'', G.L. Corradi, pp. 21-22.
  3. Citazione tratta dall'intervista di Donatella Coccoli al professor Angelo D'Orsi, ''Abbiamo bisogno di Gramsci'', su Left n° 16, 22- 28 aprile 2017, pp. 6-8.
  4. Citazione tratta da ''L'indifferenza'' di Antonio Gramsci, da ''Sotto la Mole'' del 26 agosto 1916. Ripresa nel libro ''Antonio Gramsci. Il giornalismo, il giornalista'', G.L. Corradi, pp. 104-106.
  5. Citazione ripresa da Macciotta nel corso dell'incontro e tratta da ''Giornalismo integrale'', Quaderno XXVII, in ''Antonio Gramsci. Il giornalismo, il giornalista'', G.L. Corradi, pp. 22-24.
  6. Citazione tratta da ''Socialismo e cultura'', da ''Il Grido del popolo'', 29 gennaio 1916. Ripresa nel libro ''Antonio Gramsci. Il giornalismo, il giornalista'', G.L. Corradi, pp. 80-84.
  7. Citazione tratta da ''I giornali e gli operai'', da ''Avanti'', 22 dicembre 1916. Ripresa nel libro ''Antonio Gramsci. Il giornalismo, il giornalista'', G.L. Corradi, pp. 110-111.

01/07/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Eliana Catte

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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