Segue da: La concezione del marxismo di Gramsci
Link al video della lezione tenuta su temi analoghi per l’Università popolare Antonio Gramsci
Incredibilmente attuale appare la descrizione da parte di Gramsci di fasi, come quella che stiamo anche oggi vivendo, in cui il vecchio muore e il nuovo ancora non può nascere: “la crisi si presenta praticamente nella sempre crescente difficoltà di formare i governi e nella sempre crescente instabilità dei governi stessi: essa ha la sua origine immediata nella moltiplicazione dei partiti parlamentari, e nelle crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti (…). Le forme di questo fenomeno sono anche, in una certa misura, di corruzione e dissoluzione morale: ogni frazione di partito crede di avere la ricetta infallibile per arrestare l’indebolimento dell’intero partito, e ricorre a ogni mezzo per averne la direzione o almeno per partecipare alla direzione, così come nel parlamento il partito crede di essere il solo a dover formare il governo per salvare il paese o almeno pretende, per dare l’appoggio al governo, di doverci partecipare il più largamente possibile; quindi contrattazioni cavillose e minuziose, che non possono non essere personalistiche in modo da apparire scandalose, e che spesso sono infide e perfide. Forse, nella realtà, la corruzione personale è minore di quanto appare, perché tutto l’organismo politico è corrotto dallo sfacelo della funzione egemonica” [1].
Il risorgimento e la questione meridionale
Antonio Gramsci interpreta il risorgimento italiano come una “rivoluzione mancata”, in quanto le forze radicali (i democratici organizzati da Mazzini nel Partito d’Azione) sono state egemonizzate dai moderati (i liberali conservatori guidati da Cavour), a causa della loro incapacità di comprendere e farsi carico dei bisogni reali delle masse – in larga parte costituite da lavoratori agricoli costretti a lavorare le terre dei latifondisti – in particolare la questione della riforma agraria. Le masse popolari, dunque, si sarebbero mobilitate a fianco delle forze democratiche – com’era avvenuto con i giacobini francesi – facendole prevalere nel confronto-scontro con i moderati, unicamente se i mazziniani avessero sostenuto la loro atavica “fame” di terra, che aveva consentito l’affermazione della Rivoluzione francese.
La mancata riforma agraria e il blocco sociale tra industriali del Nord, latifondisti del Sud e classe dirigente liberale – affermatosi come dominante con l’Unità d’Italia – è alla base della questione meridionale, causa dello sviluppo disuguale dell’Italia unita. Un’essenziale analisi su tale questione – destinata a rimanere predominante nella storia del nostro paese – era stata consegnata precedentemente da Gramsci a un importante saggio intitolato appunto: La questione meridionale cui si era dedicato immediatamente prima del suo arresto nel 1926 a cause delle leggi speciali del fascismo.
Più in generale nei Quaderni del carcere Gramsci mostra che tale questione aveva segnato già durante il Risorgimento la sconfitta delle forze progressiste, allora su posizioni democratiche, di fronte all’opzione moderata dei liberali. La mancata soluzione di tale questione ha in seguito – in particolare durante il decisivo Biennio rosso (1919-20) – impedito di saldare le lotte operaie del nord, coordinate dal Partito socialista, e le sporadiche e generalmente spontanee sollevazioni dei contadini del sud che – non essendo state in grado storicamente di esprimere intellettuali organici – risultavano prive di un concreto programma politico in grado di dare soluzione ai loro bisogni espressi in modo disorganico dalle loro lotte. La mancata saldatura delle rivendicazioni dei lavoratori del nord con quelli del sud è stata, a parere di Gramsci, la principale causa della sconfitta del movimento operaio nel biennio rosso.
Al di là delle colpe del corporativismo economicista dominante nel movimento sindacale e dell’attendismo massimalista della maggioranza del Partito socialista, Gramsci individua le maggiori responsabilità negli intellettuali tradizionali meridionali, il cui principale esponente è Benedetto Croce, che hanno impedito alle masse contadine di prendere coscienza di sé e le hanno così abbandonate – come già nel Risorgimento – all’egemonia dell’oscurantismo clericale. Al contrario, il fascismo, interpretato da Gramsci come la risposta delle classi dominanti alle lotte dei subalterni – ancora incapaci di affermarsi sul piano politico – è riuscito ad affermarsi proprio grazie alla sua capacità di dare uno sbocco politico alle astratte aspirazioni e alle frustrazioni sociali di un ceto medio in via di proletarizzazione distribuito sull’intero territorio nazionale.
Il moderno Principe
Per resuscitare e guidare all’azione politica la volontà collettiva nazional-popolare dei ceti subalterni, rendendola in grado di farsi interprete di una “riforma intellettuale e morale” del paese, Gramsci ritiene indispensabile elaborare un progetto politico-culturale adeguato alle contraddizioni reali della concreta fase storica, che consenta al proletariato di porsi come classe egemone di un ampio blocco sociale. Il progetto di Rivoluzione in occidente diviene praticabile solo se il partito sarà in grado di ricostituirsi come “moderno principe”, ossia sulla base del nuovo modello di partito elaborato da Gramsci, richiamandosi alla lezione de Il Principe, l’opera in cui Niccolò Machiavelli aveva delineato i contorni della figura di una soggettività politica in grado di superare una situazione di crisi, conquistando il potere e fondando un nuovo Stato, rappresentativo di un più ampio blocco sociale. Il soggetto rivoluzionario nel mondo moderno non può più essere più un singolo individuo come il principe di Machiavelli, ma deve divenire secondo Gramsci l’élite collettiva in grado di rendere una massa disgregata di individui, subalterna sul piano economico – in quanto priva di un’autonoma concezione del mondo – una totalità organica che si faccia interprete di un progetto di società più universale, razionale, giusta e partecipativa della società borghese.
Il partito come intellettuale collettivo
A tale fine, Gramsci sviluppa un’idea di partito quale intellettuale collettivo in cui ogni militante sia – almeno tendenzialmente – un’avanguardia riconosciuta dalle masse, capace di guidarle dalle lotte per migliorare la propria condizione economica, al livello superiore del conflitto politico per il potere. Il partito è, dunque, pensato da Gramsci come un intellettuale collettivo che incarna la coscienza storica ed è in grado di porsi come avanguardia dei subalterni in quanto sia fa interprete dei loro reali e più profondi bisogni e interessi. La grande ambizione che coltiva Gramsci è far divenire il proletariato moderno classe universale mediante un’opera di capillare formazione politica, intellettuale e morale delle avanguardie delle masse. La funzione organizzativa ed educativa del partito come intellettuale collettivo è a suo avviso decisiva, perciò Gramsci critica nel modo più netto lo spontaneismo del sindacalismo rivoluzionario. In effetti, per consentire a una classe sociale di prendere coscienza di sé, ovvero di passare dalla potenza del suo essere in sé un gruppo sociale oggetto di analisi sociologica, all’atto del porsi per sé quale perno in grado di fare egemonia su un blocco storico antagonista in contrapposizione al blocco sociale dominante. In tal modo la sua avanguardia, in grado di organizzare la classe, ovvero il Partito comunista come principe moderno può assumere la determinante funzione direttiva in un blocco sociale incentrato sul proletariato moderno, ma che agisce in vista degli interessi della grande maggioranza che vive in condizione di subalternità nella società borghese.
Come abbiamo già visto, il partito dovrà costituirsi quale intellettuale collettivo, in quanto non può che avere, secondo Gramsci, di mira il tendenziale superamento del dualismo fra intellettuali – in un primo momento provenienti essenzialmente dalle classi agiate – e militanti proletari destinati altrimenti a rimanere meri esecutori delle direttive del gruppo dirigente. Tale concezione fondata su una visione del mondo radicalmente immanente, che di autodefinisce storicismo assoluto, porta Gramsci a considerare la progressiva affermazione della transizione al socialismo in funzione del processo di superamento del tradizionale dualismo fra dirigenti e diretti, secondo un percorso che dovrà essere sperimentato precedentemente all’interno del partito. Tale Weltanschauung porta altresì Gramsci a considerare utopistica una società comunista priva di conflitti, in quanto ritiene che essi dal piano economico e sociale non potranno che tendere a svilupparsi sul superiore piano culturale ed etico-filosofico.
Il blocco sociale
Secondo la concezione del marxismo quale filosofia della praxis sviluppata da Gramsci, lo Stato non può esser considerato come uno strumento neutro, in quanto è sempre funzionale al dominio della classe dirigente sulle classi subalterne. Questo dominio, in realtà, non è mai esercitato da una sola classe, poiché isolatamente non sarebbe in grado di dominare ed egemonizzare l’intera società, ma è fondato su quello che Gramsci definisce un blocco storico e sociale. In altri termini, vi è certamente in ogni modo di produzione una classe dominante innanzitutto dal punto di vista strutturale (economico e sociale) – ad esempio, nei Paesi a capitalismo avanzato, l’alta borghesia – ma tale ceto non esercita da solo il dominio. In effetti il suo effettivo potere si fonda su un’alleanza, ovvero un blocco sociale in cui egemone è l’alta borghesia, ma che si compone altresì dei suoi indispensabili alleati, sebbene in posizione subordinata, ovvero il ceto medio e la piccola e media borghesia. Del resto queste ultime classi hanno una decisiva posizione sociale intermedia fra il proletariato moderno e l’alta borghesia.
Così se è evidente che il soggetto rivoluzionario non può che sorgere fra i subalterni, gli sfruttati, ovvero il proletariato urbano – che non ha altro da perdere che le proprie catene – in quanto lo Stato non può che essere una forma classista di dominio, ovvero di dittatura, della classe dominante sulle classi dominate. Secondo la teoria marxista lo Stato è una forma di dittatura dell’alta borghesia, in alleanza con il ceto medio e la piccola borghesia – mantenute però in una posizione subalterna – ai danni del proletariato e, più in generale, di tutti gli sfruttati e i subalterni. Evidentemente, la classe contro la quale è principalmente diretta la dittatura è non a caso proprio quella potenzialmente rivoluzionaria.
D’altra parte, però, Gramsci ritiene che se il proletariato industriale non è in grado di infrangere il blocco sociale dominante, conquistando alla propria egemonia i ceti intermedi in via di proletarizzazione, sarà sempre condannato alla sconfitta. Detto altrimenti, se nel modo di produzione capitalistico a esercitare la dittatura è la grande borghesia, in particolare nei confronti del proletariato industriale, se tutti i ceti intermedi continuassero a rimanere sotto l’egemonia della classe dominante, la classe maggiormente oppressa rimanendo isolata perderebbe la possibilità stessa di rovesciare tale situazione. Che cosa dovrebbe, dunque, fare a parere di Gramsci il proletariato urbano, organizzato nel Principe moderno, ossia il soggetto rivoluzionario? Dovrebbe conquistarsi il sostegno dei ceti intermedi, attirandoli nel blocco sociale antagonista, non però in funzione dominante, ma destinandogli un ruolo subalterno. In altri termini, come oggi imprenditori e banchieri dominano la società mediante l’alleanza con piccoli proprietari, bottegai, colletti bianchi e professionisti – mantenuti, comunque, in una posizione subordinata – il proletariato per liberarsi dovrebbe divenire in grado di esercitare la propria egemonia proprio su tali gruppi sociali intermedi.
Note
[1] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1977, p. 1639.