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Il dibattito sulla Rivoluzione d’Ottobre
La maggioranza dei partiti socialisti europei non solo aveva sostenuto le proprie borghesie nel corso della prima guerra imperialistica mondiale, ma condanna la rivoluzione dell’ottobre 1917, considerandola un colpo di mano dei bolscevichi, che avrebbero forzato soggettivisticamente il corso della storia. Secondo diversi dirigenti socialisti, la rivoluzione sarebbe necessariamente degenerata in una dittatura anti-democratica se i bolscevichi si fossero aggrappati al potere conquistato, dal momento che esso sarebbe stato privo di basi reali ovvero sarebbe stato privo del necessario ampio consenso da parte delle masse. A tali posizioni si opposero le componenti dei partiti socialisti che avevano contrastato sino all’ultimo la guerra e che cercheranno di riprodurre l’esperienza della Rivoluzione di ottobre nei propri paesi. Queste organizzazioni rivoluzionarie si dotarono, a partire dal 1919, di un struttura centralizzata: la Terza Internazionale, cui si opporrà una ricostituita Seconda Internazionale. Gli esponenti di quest’ultima portano avanti una polemica sempre più dura contro la Russia sovietica. Così, considerando inseparabili socialismo e democrazia parlamentare, Bernstein condanna la via rivoluzionaria al potere in quanto il solo legittimo strumento d’azione politica sarebbe il suffragio universale mediante il quale i socialisti potranno far sì che i lavoratori, da strumenti dello sviluppo economico, divengano a tutti gli effetti cittadini. In effetti secondo Bernstein la democrazia parlamentare doveva rimanere l’unico mezzo per conseguire il socialismo, dal momento che la realizzazione della democrazia comporta la soppressione del dominio di classe. Del resto, essendo mutato sostanzialmente il capitalismo rispetto a quello analizzato da Marx, anche le forme di lotta politica dei lavoratori dovrebbero secondo Bernstein mutare: occorreva considerare storicamente superata la prospettiva della presa del potere e la stessa lotta di classe era ormai da ritenersi un residuo del passato. Egualmente critico nei confronti del paese dei soviet, dei bolscevichi e di Lenin è Kautsky, il quale sostiene – in una serie di scritti confluiti ne La dittatura del proletariato (1918) – che Marx avrebbe inteso con la “dittatura del proletariato” nient’altro che l’allargamento degli spazi di democrazia, attraverso la conquista della maggioranza parlamentare – e il conseguente controllo sul governo – da parte dei socialisti. La violenza sarebbe, perciò, legittima solo nei confronti di chi non si sarebbe sottomesso alla volontà della maggioranza parlamentare. La via democratica diviene agli occhi di Kautsky l’unica garanzia di un superamento reale e duraturo della società capitalista. A parere di Kautsky, infatti, la dittatura operaia non solo non comporterebbe l’abolizione della democrazia, ma il suo progressivo compimento. Del resto anche precedentemente Kautsky non aveva mai dato rilievo alle teorie di Marx ed Engels sulla necessità del progressivo estinguersi dello Stato nella società socialista. A suo parere non esisterebbe socialismo senza democrazia, ovvero senza conservare all’interno dello stato socialista le principali istituzioni affermatesi nel corso dello sviluppo dei più avanzati Stati borghesi quali: il multipartitismo, l’eguaglianza giuridica e politica dei cittadini e la salvaguardia delle minoranze politiche.
Stato e rivoluzione
Di contro a tali tesi, Lenin scrive nel 1917 Stato e rivoluzione in cui, mediante l’analisi dei testi di Marx ed Engels sullo Stato, denunzia come un abbandono dello spirito del marxismo il tentativo operato da Kautsky di sostenere che la politica dei partiti socialdemocratici occidentali, i quali ponevano sempre più in secondo piano la via rivoluzionaria, costituisse uno sviluppo organico delle teorie marxiane. In altri termini Lenin si oppone al tentativo di giustificare con padri del socialismo scientifico la politica dei partiti socialisti che avevano rinunziato alla presa del potere. A tale proposito Lenin sottolinea come, dal punto di vista del materialismo storico, lo Stato non possa essere considerato, come riteneva Kautsky, un organismo neutro, al di fuori e al di sopra del conflitto fra le classi sociali. Lo Stato è uno strumento della classe dirigente, mediante cui quest’ultima legalizza il suo dominio economico, reprimendo, attraverso il monopolio della violenza e il controllo dell’opinione pubblica le classi subalterne che pongono in questione tale assetto sociale. Da qui la necessità di spezzare la macchina dello Stato borghese, per costruire uno Stato socialista che operi nella direzione del superamento dello Stato, le cui funzioni separate (l’apparato politico, giuridico e amministrativo) sarebbero state progressivamente riassorbite nella società civile.
La democrazia reale nella teoria di Lenin
Dunque, a parere di Lenin la democrazia è reale solo quando regola i rapporti fra le diverse fazioni della classe dominante in concorrenza fra loro, mentre nei confronti dei subalterni è solo una forma di dominio occulto e vela la sua natura di dittatura di classe. Gli appare, perciò, insensato che i rappresentanti dei lavoratori si illudano di poter governare uno Stato borghese o che si possa giungere al socialismo con un semplice allargamento della democrazia formale [1].
Dalla democrazia sovietica all’estinzione dello Stato
Dunque Lenin ritiene che occorra spezzare il potere dello Stato borghese al fine di trasformarlo radicalmente, per renderlo funzionale ai bisogni dei lavoratori, che eserciteranno la propria direzione attraverso una democrazia consiliare e non parlamentare borghese. Tale potere non dovrà però, ipostatizzarsi, fossilizzarsi giacché ha come scopo finale il superamento della stessa classe chiamata a esercitare la dittatura nei confronti della borghesia. Socializzando i mezzi di produzione, difatti, l’opposizione fra forza-lavoro e capitale verrà meno: in tal modo anche la funzione repressiva e di dominio di classe dello Stato verrà estinguendosi, in quanto le sue mansioni saranno progressivamente riassorbite nella società civile sino a divenire del tutto superflua una volta compiuta la transizione al socialismo, grazie all’abitudine lentamente acquisita a osservare regole elementari di convivenza. Osserva, a tal proposito, Lenin: “L’espressione: ‘lo Stato si estingue’ è molto felice in quanto esprime al tempo stesso la gradualità del processo e la sua spontaneità. Soltanto l’abitudine può produrre un tale effetto, e senza dubbio lo produrrà, poiché noi osserviamo attorno a noi milioni di volte con quale facilità gli uomini si abituano a osservare le regole per loro indispensabili della convivenza sociale, quando non vi è sfruttamento e quando nulla provoca l’indignazione, la protesta, la rivolta e rende necessaria la repressione” [2]. Ciò diverrà possibile se – mediante la fase di transizione della dittatura del proletariato, volta a contrastare i tentativi controrivoluzionari della borghesia nazionale e internazionale – si instaurerà fra tutti i lavoratori una democrazia sempre più integrale che permetterà di riassorbire progressivamente nella società civile le funzioni separate dello Stato. Non si dovrebbe, dunque, eliminare gli istituti rappresentativi, ma al contrario potenziarli e renderli efficienti attraverso la partecipazione e il controllo esercitato dalle masse, mediante i consigli dei lavoratori.
La polemica Lenin-Luxemburg su democrazia e dittatura del proletariato
Diverso l’atteggiamento di Lenin verso chi, come Rosa Luxemburg, pur sostenendo la Rivoluzione di Ottobre e l’esigenza di superare la democrazia formale borghese criticava ogni lesione dei principi democratici nella Russia socialista. Per quanto Luxemburg ritenesse grandiosa la Rivoluzione russa, a suo parere era destinata a fallire, dal momento che si era preteso di saltare troppe fasi del processo di sviluppo socio-economico. Proseguendo su tale strada, in effetti, si sarebbe finito con il sostituire alla dittatura del proletariato la dittatura di un Partito erettosi a Stato [3]. A Luxemburg Lenin controbatteva che, sino a quando la società fosse rimasta divisa in classi in lotta fra loro, vi sarebbe stato bisogno dello Stato, che è comunque strumento di coercizione ed egemonia della classe dirigente. Per cui sino a che vi sarà lo Stato, la democrazia sarà reale solo all’interno della classe dirigente, mentre verso le classi dominate sarà esercitata una dittatura più o meno aperta della classe dominante. D’altra parte Lenin riteneva molte delle misure che limitavano la democrazia prese dopo la rivoluzione solo delle contingenti necessità per difendere la transizione al socialismo di fronte allo stato di assedio imposto dalla violenza controrivoluzionaria dei nemici di classe nazionali e internazionali. Così, ad esempio, pur sostenendo la necessità di sospendere il pluripartitismo – nel momento in cui le altre forze politiche avevano sostenuto nella Guerra civile (1918-20) le forze controrivoluzionarie – o di accentrare le decisioni principali nella mani del partito nella situazione di emergenza creatasi con la guerra civile, o infine di porre dei limiti alla stessa democrazia interna del partito nel momento in cui l’opposizione di sinistra aveva favorito l’insurrezione dei marinai di Kronstadt, non considerò mai tali misure come valide universalmente, anzi insisté sempre sul fatto che si trattava di una tragica necessità storica da superare al più presto.
L’aristocrazia operaia sposta il baricentro della rivoluzione internazionale da ovest verso est
Per Lenin, infine, la possibilità di ridistribuire parzialmente gli extra-profitti estorti ai popoli coloniali aveva consentito alle borghesie dei paesi imperialisti di corrompere i dirigenti dei sindacati e dei partiti dei lavoratori, creando delle aristocrazie operaie favorevoli alla politica imperialista. Per tale motivo il processo rivoluzionario in futuro non solo non sarebbe ripartito dai paesi maggiormente sviluppati, ma si sarebbe sviluppato dalle lotte di liberazione nazionale dei popoli coloniali [4].
Note
[1] Tanto più che, secondo Lenin. “la dittatura del proletariato, vale a dire l’organizzazione dell’avanguardia degli oppressi in classe dominante per reprimere gli oppressori, non può limitarsi a un puro e semplice allargamento della democrazia. Insieme a un grandissimo allargamento della democrazia, divenuta per la prima volta una democrazia per i poveri, per il popolo, e non una democrazia per i ricchi, la dittatura del proletariato apporta una serie di restrizioni alla libertà degli oppressori, degli sfruttatori, dei capitalisti. Costoro noi li dobbiamo reprimere, per liberare l’umanità dalla schiavitù salariata; si deve spezzare con la forza la loro resistenza; ed è chiaro che dove c’è repressione, dove c’è violenza, non c’è libertà, non c’è democrazia” V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, cap. V, § 2.
[2 ] Ibidem.
[3] Muovendo dalla critica alla concezione leninista del partito, intesa come una direzione intellettuale separata dalle masse, Luxemburg criticò il sistema sovietico per le sue carenze di democrazia, che riducevano la dittatura del proletariato alla dittatura del nucleo ristretto dei membri del partito bolscevico. In altri termini, le limitazioni imposte dopo la rivoluzione dai bolscevichi alla democrazia politica sarebbero i sintomi di una china pericolosa che avrebbe portato a sovrapporre alla dittatura del proletariato la dittatura di un partito fattosi Stato. Così, pur sostenendo sino a sacrificare la propria vita nel 1919 l’ondata rivoluzionaria apertasi con l’Ottobre, Luxemburg rimase una critica inflessibile di ogni lesione del principio democratico, anche formale, nella Russia rivoluzionaria.
[4] La frattura del movimento operaio in occasione della Prima guerra mondiale era stata, infatti, anticipata dal contrasto fra chi, anche in virtù della parziale redistribuzione ai proletariati dei sovrapprofitti accumulati mediante la politica imperialista, riteneva superata la politica volta ad una trasformazione rivoluzionaria dell’ordine costituito e chi riteneva più che mai urgente l’alleanza con le forze dei paesi dominati in vista di un rivolgimento mondiale.