La tarda riflessione di Brecht su teatro e arte

Brecht nel Piccolo Organon per il teatro si era limitato a rivedere i punti maggiormente unilaterali della precedente riflessione, ma era cosciente della necessità di reimpostare l’intera teoria, in quel progettato “grande” Organon che prima l’impegno pratico-organizzativo nel Berliner Ensemble, poi la morte prematura gli impedirono di realizzare.


La tarda riflessione di Brecht su teatro e arte

Anche se, soprattutto negli ultimi anni, si è spesso riconosciuta l’importanza dell’ultima fase della riflessione sul teatro e, più in generale sull’arte di Bertolt Brecht, non altrettanto spesso sono state adeguatamente analizzate le possibili connessioni tra i diversi, sempre frammentari e talvolta contraddittori aspetti che la caratterizzano. Chi, però, non intende sottrarsi a questo “ingrato” compito dovrebbe iniziare con il considerare quest’ultima fase in stretta connessione con la precedente.

I grandi drammi della maturità – ultimati nella fase precedente – possono in effetti essere interpretati come un’implicita risposta alle critiche da sempre rivolte alla produzione di Brecht: l’intellettualismo, la presunta scarsa importanza riconosciuta al godimento [Genuß] estetico di fronte all’addottrinamento politico, l’attitudine nichilista verso l’intera tradizione teatrale, evidente nel tentativo di sostituire alla secolare impostazione drammatica della pièce l’allotria dell’ impostazione epica.

Se le opere della maturità furono in grado di dare un’adeguata risposta sul piano scenico a un po’ tutte queste critiche – come dovettero riconoscere anche gli avversari più irriducibili – lo stesso non si può dire per la produzione teorica di Brecht, in cui molte questioni non sembravano affatto trovare un’adeguata soluzione – nella limitata parte di tale produzione allora pubblicata e discussa – se non nelle radicali e spesso provocatorie tesi dei primi anni trenta. Proprio da queste ultime mossero i principali detrattori dell’opera di Brecht per mostrare, al di là degli indubitabili successi scenici, la presunta inconsistenza e, addirittura, l’intima contraddittorietà del tentativo di riforma dell’arte drammatica intrapreso da Brecht. Del resto, anche i critici più benefici non sembrano in grado di allontanare del tutto il sospetto che ci fosse una qualche non risolvibile aporia tra la teoria brechtiana e la prassi scenica. Da questa difficoltà nasceva poi quel ricco filone della letteratura critica su Brecht [Brechtforschuung], neanche oggi del tutto estinto, che ha cercato di individuare la grandezza del teatro brechtiano proprio nella sua capacità di sottrarsi alle astratte e intellettualistiche definizioni teoriche. La teoria finì, così, per essere del tutto rigettata in quanto considerata capace di compromettere, in nome di astrusi e irrealizzabili princìpi, la stessa interpretazione e ricezione della produzione artistica. Tale impostazione ha consentito a molti interpreti di sottrarsi al duro compito di analizzare le riflessioni brechtiane sull’arte e di darne conto in tutta la loro complessità.

Brecht, da parte sua, pur considerando con disappunto ogni eccessiva semplificazione del complesso rapporto che legava la sua opera alla sua teoria, era ben cosciente delle carenze e unilateralità ancora presenti in quest’ultima, nonostante l’importante tentativo compiuto con il Piccolo Organon per il teatro per riequilibrare criticamente la sua riflessione sul dramma, recuperando proprio quegli aspetti lasciati in secondo piano dall’impostazione polemica prevalente negli scritti precedenti. L’eccessiva preponderanza data alla componente didattica era stata radicalmente rivista ed erano stati riconosciuti tutti i diritti – precedentemente negati nella violenta polemica contro il dramma “culinario” – agli aspetti del godimento estetico [Genuß] [1]. Anche l’atteggiamento di aprioristico e provocatorio rifiuto nei confronti dell’arte e dell’estetica della tradizione, soprattutto di quella classica, fu, almeno in parte, rigettato da Brecht. Tuttavia, come risultava già dal titolo dato a quest’opera, si trattava di un tentativo di sistematizzazione e revisione ancora provvisorio. Brecht in questo “piccolo” Organon si era limitato a individuare e rivedere i punti maggiormente unilaterali e, quindi, più facilmente attaccabili della precedente riflessione, ma era ben cosciente della necessità di reimpostare alla luce di questi “aggiustamenti” l’intera teoria, in quel progettato “grande” Organon che prima l’impegno pratico-organizzativo nel Berliner Ensemble poi la stessa prematura morte gli impedirono di realizzare. Ora è proprio la coscienza della gravità della mancanza di questo “grande” Organon a farci considerare con la massima attenzione critica le sparse riflessioni degli anni cinquanta, in quanto è proprio qui che bisogna cercare gli elementi e i risultati, seppur frammentari, di questo lungo e tormentato processo di revisione critica cui Brecht sottopose la sua opera. 

Una soluzione enigmatica: il teatro dialettico

Intorno alla metà degli anni cinquanta Brecht cominciò a riordinare alcuni brevi scritti precedentemente composti in vista della stesura di un volume che avrebbe dovuto avere l’emblematico titolo di: La dialettica nel teatro [2]. Di questo ambizioso progetto ci restano una decina di scritti selezionati e ordinati dallo stesso Brecht e una brevissima introduzione che inizia con queste significative parole: “gli studi seguenti che ebbero per tema il capitolo 45 del Breviario di estetica teatrale, suggeriscono il dubbio se il termine di “teatro epico” non sia troppo formale per quel teatro che con tale termine si intende e in parte si è messo in pratica” [3].

Più in generale, a parere di Brecht, l’elemento “epico” doveva essere inteso solo come una premessa necessaria per la sua riforma del teatro, ma insufficiente in quanto tale a esaurirne le potenzialità. Infatti, il termine in sé, come aggiunge subito dopo  Brecht, non sembrava in grado di dar conto delle fonti principali da cui doveva scaturire il godimento estetico delle sue opere. Questa designazione era quindi da considerarsi insufficiente e, tuttavia, Brecht confessava di non poterne offrire, per il momento, nessuna migliore in cambio.

Peraltro, un elemento costante della riflessione di Brecht degli anni cinquanta è certamente proprio l’attitudine ambivalente nei riguardi del teatro epico, uno degli elementi cardine del suo tentativo di riforma teatrale e la base stessa di ogni sviluppo ulteriore, ma anche uno degli aspetti più discussi, criticati e troppo spesso fraintesi da parte della critica della sua opera. Brecht appare da un lato disposto a rimettere interamente in discussione la concezione del teatro epico, ma, dall’altra, oppone un deciso rifiuto a ogni critica e a ogni soluzione di compromesso.

Se per noi oggi, dopo l’affermazione mondiale del teatro brechtiano e di alcuni aspetti della sua teoria, il termine “teatro epico” non fa più problema in quanto è, per così dire, entrato nel lessico abituale di chi si interessa di teatro; ciò non valeva certamente per i critici teatrali degli anni cinquanta, per i quali costituiva un problema certamente di non poco conto. Ora, anche in questo caso, per noi, alla luce degli studi di Peter Szondi e di tanti altri valenti critici che hanno operato sulla sua scia, è evidente come nei maggiori interpreti del teatro del diciannovesimo secolo fossero implicitamente presenti quegli elementi di crisi della drammaturgia tradizionale che, sviluppati nel ventesimo secolo, avrebbero dato vita al nuovo dramma in cui l’epico gioca un ruolo in molti casi centrale [4].

Tutto ciò non era altrettanto chiaro e niente affatto evidente a quei critici della Germania che si attardavano a salvaguardare la struttura drammatica tradizionale di aristotelica memoria, alla cui luce gli elementi epici dovevano apparire necessariamente allotri e, quindi, capaci di mettere a repentaglio la struttura stessa del dramma tradizionale [5]. Ciò valeva anche per i vecchi critici della Repubblica democratica tedesca che, sulla base di alcune indicazioni, il più delle volte mal comprese, di György Lukács, si sforzavano di costruire il nuovo dramma socialista sulla base della solida tradizione del dramma borghese, continuando a intendere schematicamente come grande dramma borghese il teatro naturalista.

Del resto, sebbene nella Repubblica democratica tedesca Brecht disponesse di mezzi economici e umani impensabili per un drammaturgo del mondo occidentale, incontrò non poche difficoltà. Una parte non indifferente della critica in questo paese nascondeva, infatti, sotto una patina di progressismo, una concezione del teatro sostanzialmente conservatrice e, quindi, da subito ostile alle concezioni brechtiane. Non potendo mettere sotto processo i drammi brechtiani, che incontravano un discreto successo di pubblico, gli attacchi si concentrarono sulla più vulnerabile teoria. Molte di queste critiche si limitavano a mettere sotto accusa le definizioni di teatro epico e di drammaturgia non-aristotelica, che si prestavano meglio alla liquidazione dell’esperienza brechtiana come un formalismo avanguardistico che aveva rotto tutti i ponti con il passato. Tuttavia, molti dei nemici di Brecht celavano la superficialità dei loro attacchi dietro l’autorità di Lukács, che, come è noto, aveva criticato negli anni trenta alcuni aspetti dell’opera brechtiana. La stessa definizione di teatro epico non poteva che apparire ai loro occhi come una contraddizione in termini o una stramberia di un recidivo avanguardista.

Dinanzi a tali attacchi Brecht tende ad assumere un’attitudine distaccata, ironica, che sembra comprendere le difficoltà, le incomprensioni e lo scandalo che la sua teoria tendeva a suscitare. Di questa posizione è certamente indicativa la risposta che egli diede a chi chiedeva il motivo per il quale i suoi drammi fossero spesso rifiutati aprioristicamente dalla critica: “credo che tutto il male sia nato dal fatto che i miei lavori, per ottenere gli effetti cui tendono, dovevano essere recitati con precisione: il che mi costrinse a descrivere, ai fini di un’arte drammatica non aristotelica (che guazzabuglio!), i lineamenti di un teatro epico (che diavoleria!)” [6]. 

Note:

 [1] Sotto questo aspetto molto importante è stato l’influsso dell’Ars Poetica di Orazio. Brecht, infatti, in questi ultimi anni sentiva molto vicine le esigenze di equilibrio espresse dal poeta latino.

[2] Questi frammenti sono stati raggruppati secondo le indicazioni lasciate da Brecht e pubblicati dopo la sua morte in Brecht, Bertolt, Schriften zum Theater, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1957. Se ne può leggere la traduzione italiana in Id., Scritti teatrali, 3 voll., a cura di E. Castellani, Einaudi, Torino 1975, vol. II, pp.237-261.

[3] Ivi, p. 237.

[4] Cfr. Szondi, Peter, Teoria del dramma moderno, Einaudi, Torino 1962, e Kesting, Marianne, Das Epische Theater. Zur Struktur des modernen Dramas, settima edizione, Kohlhammer, Stuttgart 1978.

[5] Cfr. Erpenbeck, F., Episches Theater oder Dramatik?, in “Theater der Zeit” n. 12, 1954, pp. 16-21. 

[6] Brecht, B., Scritti…op. cit., vol. II, p. 218.

17/03/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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