La parabola dell’economia politica – Parte IX: Marx, il processo di circolazione del capitale

I presupposti dell'accumulazione del singolo capitale non coincidono con i presupposti dell'accumulazione per l'intera società. Questi ultimi non possono essere assicurati dalla mano invisibile del mercato ma vengono realizzati solo al prezzo di crisi e fallimenti.


La parabola dell’economia politica – Parte IX: Marx, il processo di circolazione del capitale

La rotazione del capitale

Il secondo libro del Capitale tratta del processo di circolazione. Parlando della metamorfosi del capitale, D-M-D’, abbiamo visto che la circolazione, per esteso D-M(Fl,Mp)...P...M’-D’, è interrotta dal tempo di produzione, P. Tale tempo a sua volta si suddivide in tempo di lavoro, tempo di pausa (le notti, le festività, le interruzioni ecc.) e tempo occorrente perché si sviluppino processi naturali, come nel caso delle colture agricole, delle fermentazioni, delle trasformazioni chimiche ecc. Il tempo di circolazione a sua volta si suddivide in tempo d’ordine, tempo di consegna e tempo di pagamento e si riferisce sia alla fase D-M, l'acquisto di mezzi di produzione e forza-lavoro che alla fase M'-D', la vendita del prodotto.

La sommatoria di tutti questi tempi costituisce il tempo di rotazione del capitale, cioè il tempo che trascorre dall'anticipazione del denaro per acquistare i fattori produttivi D-M(Fl,Mp) fino al ritorno, con la vendita del prodotto, di una somma di denaro maggiore di quello anticipato, M'-D’. In uno stesso capitale tuttavia i tempi di rotazione delle singole componenti differiscono. La materia prima “ritorna” come denaro dopo l'unico solo ciclo di circolazione in cui viene acquistata, trasformata e venduta; invece una macchina che cede gradualmente il suo valore al prodotto, via via che si logora, viene in genere interamente rimpiazzata dopo un certo numero di cicli produttivi e per ognuno se ne determina, sotto la voce “ammortamento” l’entità della sua perdita di valore, coincidente con il valore trasferito al prodotto. Astraendo per semplicità dal capitale fisso, quanto più breve è il tempo di rotazione, tante più rotazioni effettua un determinato capitale nel corso dell’anno. Per esempio, se il tempo di rotazione è un anno, come in molte produzioni agricole, allora nell’anno avviene una sola rotazione, se invece è un mese, avvengono dodici rotazioni all’anno, se è di dieci giorni, avvengono trentasei rotazioni e mezzo. Uno stesso capitale, quindi riesce a valorizzarsi tante più volte quanto più è breve il tempo di rotazione. Da qui la pulsione del capitale ad abbreviare il più possibile ogni frazione del tempo di rotazione.

La convenienza a ridurre il tempo di rotazione la si può considerare esaminando la cosa da una diversa angolatura. Supponiamo che un capitale di 100c+100v fornisca un plusvalore di 100 (saggio del plusvalore del 100%) in un mese (tempo di rotazione). Al termine di ogni periodo di rotazione, il capitale anticipato ritorna in forma monetaria e quindi può nuovamente essere impiegato per un nuovo ciclo produttivo senza ulteriori anticipazioni di denaro. In un anno si verificano 12 rotazioni e perciò il plusvalore realizzato è pari a 1.200. Il saggio del plusvalore per il singolo ciclo produttivo rimane del 100%, ma su base annua il tale saggio diventa pari a 1.200/100, cioè il 1.200%! Un altro capitale che abbia la stessa composizione (c=v) e lo stesso saggio del plusvalore (v=pv), ma un tempo di rotazione di un anno, per realizzare lo stesso plusvalore dovrebbe essere di 1.200c+1.200v, cioè occorrebbe un capitale dodici volte superiore per ottenere su base annua lo stesso plusvalore.

La riduzione del tempo di circolazione e del tempo di produzione hanno effetti identici essendo entrambi componenti del tempo di rotazione. Supponiamo per esempio, ancora ipotizzando lo stesso saggio del plusvalore del 100%, un capitale di 150c+150v, che dia 150 di plusvalore e che il tempo di rotazione di un mese, per semplicità posto di 30 giorni, si suddivida in tempo di produzione di 10 giorni e tempo di circolazione di 20 giorni. In realtà la produzione, per essere efficiente, deve essere continua, senza pause che comporterebbero arresti delle macchine, costi di affitto degli immobili ecc. improduttivamente. Quindi dopo 10 giorni di produzione non è ragionevole fermare il ciclo produttivo per 20 giorni in attesa che rientri il capitale monetario occorrente a riacquistare i fattori produttivi e si acquistino questi ultimi. Di conseguenza il capitale di cui sopra (300) dovrebbe essere diviso in tre tranches di 100 per ogni decade. Al termine del periodo di 10 giorni di produzione con il capitale di 100, prima del ritorno del denaro dalla vendita del prodotto, dovrebbe essere anticipato un nuovo capitale di 100 per mantenere la produzione nella seconda decade, e poi un nuovo capitale di 100 per la terza decade. Solo al termine della terza decade ritornerebbe in forma monetaria il primo capitale. Al termine della quarta decade ritornerebbe il secondo capitale e al termine della quinta il terzo e così via. In questo modo risultano impegnati permanentemente, alternandosi nelle varie fasi produttiva e di circolazione, 300 unità di capitale per avere un plusvalore di 150 al mese e 1.800 all’anno. Potendo ridurre della metà (10gg) il tempo di circolazione, sarebbe possibile suddividere lo stesso capitale di 300 in due sole tranche di 150 necessarie a coprire due decadi (1 di produzione e 1 di circolazione) e quindi aumentare del 50% la scala della produzione. Il plusvalore per ogni rotazione sarebbe ancora 150 ma le rotazioni nell'arco di un anno sarebbero 18 e non 12. Il plusvalore su base annua sarebbe pertanto 150x18=2.700 e non più 1.800. Altro elemento da considerare ai fini del risultato economico dell'impresa sono i costi di circolazione. A titolo di esempio si possono elencare i costi di stoccaggio delle merci, le perdite derivanti dal loro deperimento, i costi della contabilità, dell'amministrazione e della pubblicità.

In particolare i costi derivanti dallo stoccaggio delle merci sono una necessità: per non interrompere il ciclo produttivo è necessario che esista una scorta di mezzi di produzione da cui attingere con continuità.

Tutti questi costi non aggiungono nessuna utilità alle merci, pur aumentandone il costo per il capitalista. Essi si riducono quindi in faux frais, una pura perdita di plusvalore e per questo esiste una pulsione alla riduzione di questi costi.

Fanno eccezione i costi di trasporto. Come all’interno della fabbrica il trasporto di un semilavorato da una lavorazione all’altra, per esempio attraverso la catena di montaggio, è una necessità del processo produttivo, altrettanto è necessario il trasporto da una fabbrica all’altra o dal luogo di produzione al luogo di vendita, con tutti i passaggi intermedi. Inoltre una merce già pronta nel luogo di vendita finale ha maggiore utilità e un valore maggiore rispetto a quella appena uscita dalla catena della produzione. Il lavoro speso nel trasporto, quindi aggiunge valore alla merce e si configura come lavoro produttivo e l’attività di trasporto come un ramo industriale vero e proprio, oggi uno dei più importanti. Ovviamente i capitalisti tendono a risparmiare questi costi, al pari dei costi di circolazione.

Nel XIX secolo Marx poté enfatizzare l’importanza, ai fini della riduzione del tempo di rotazione e dei costi di circolazione, dei treni a vapore adibiti al trasporto di merci e del telegrafo per comunicare a distanza in tempi rapidi. Oggi abbiamo processi di produzione sempre più veloci (tempo di produzione), il lavoro notturno e festivo sempre più utilizzato per la produzione a ciclo continuo (tempo di pausa), l’intervento della chimica per ridurre i tempi naturali di maturazione del prodotto (la produzione di un pollo, dalla deposizione dell'uovo da parte della chioccia, alla sua presenza come carne negli scaffali dei supermercati dura appena, nella produzione industriale, 40 giorni), la cosiddetta produzione “just in time”, che evita in larga parte la sosta delle merci nei magazzini in attesa della vendita (tempo di ordine e costi di stoccaggio), i treni ad alta velocità per il trasporto merci (tempo di consegna), Internet per comunicare in tempo reale da una faccia all’altra della terra (tempi di ordine e, per i beni immateriali, di consegna) e per effettuare pagamenti online (tempi di pagamento). Buona parte del cosiddetto postfordismo e della produzione snella, anziché negare il paradigma marxiano, come sostengono tanti amanti dei “post”, si spiega proprio attraverso questo paradigma, oltre a costituire un formidabile strumento per intensificare lo sfruttamento dei lavoratori, che infatti è stato imposto, a partire dalla fabbrica Toyota, dopo una sconfitta della classe lavoratrice.

La riproduzione e l’accumulazione del capitale

Il modo di produzione capitalistico ha dominato per secoli nei Paesi economicamente più sviluppati. Senza dubbio, come già Marx ed Engels avevano affermato nel Manifesto del Partito Comunista, ha dato grande impulso a questo sviluppo, abbattendo ogni barriera che si frapponeva all’accumulazione di capitale e promuovendo innovazione attraverso la competizione fra i vari capitali. Ha potuto svolgere questo ruolo, nonostante il suo carattere antagonistico e iniquo, perché in grado di riprodurre le condizioni della sua esistenza. Queste condizioni devono essere esaminate in maniera più dettagliata.

Il processo produttivo si apre con la spesa da parte del capitalista del suo capitale monetario nell’acquisto dei mezzi di produzione (capitale costante) e della forza lavoro (capitale variabile). La forza lavoro, come qualsiasi altra merce, viene pagata secondo il suo valore. Al termine del processo di produzione queste componenti materiali del capitale sono trasformate in merci aventi un valore superiore a quello del capitale anticipato. Il plusvalore diventa proprietà del capitalista e, una volta realizzato, viene di norma trasformato in nuovo capitale produttivo. Al lavoratore salariato si contrappone così, sotto la medesima forma di capitale, cioè di cosa a lui estranea, lo stesso valore che egli stesso ha prodotto. E dovrà nuovamente vendere la sua forza-lavoro per potersi riprodurre. Così il capitale riproducendo se stesso riproduce anche le condizioni della sua esistenza.

Il capitale può però riprodursi soltanto se la merce prodotta viene venduta e il ricavato può essere riconvertito in nuovo capitale produttivo. La prima condizione – la realizzazione, la vendita della merce – può essere difficoltosa se essa non corrisponde al bisogno che la collettività ha della merce stessa, inteso come bisogno solvibile, includendo quindi fra le condizioni della riproduzione l’esistenza di possessori di denaro in misura sufficiente a permettere il collocamento della merce nel mercato. La seconda condizione consiste nel fatto che il denaro ottenuto dalla vendita dei prodotti, incluso il plusvalore, possa essere ritrasformato in mezzi di produzione e forza-lavoro per iniziare un nuovo ciclo produttivo su scala allargata, e ciò in maniera continuativa. Quindi occorre che a livello sociale siano prodotte quantità adeguate di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza.

Poiché la produzione capitalistica è immediatamente produzione di valore, di ricchezza astratta, e solo strumentalmente produzione di valori d’uso, anche la riproduzione capitalistica è immediatamente riproduzione del valore del capitale anticipato e della sua eccedenza (plusvalore) che può essere consumata improduttivamente, reimmettendo nella circolazione capitalistica solo l’equivalente del capitale inizialmente anticipato (riproduzione semplice) oppure, come avviene di norma, reimmettendovi anche una parte importante del plusvalore, da impiegare per acquisire una quantità maggiorata di mezzi di produzione e forza-lavoro e allargare così la scala della produzione (riproduzione allargata).

Se esaminiamo la cosa non dal punto di vista del singolo capitalista e del singolo lavoratore, ma dal punto di vista della classe capitalistica nel suo insieme e della classe lavoratrice nel suo insieme, si vede che la classe dei capitalisti dà continuamente a quella dei lavoratori, nella forma di salari, una parte del prodotto del loro lavoro che viene utilizzata per acquistare mezzi di sussistenza e quindi riprodurre la classe dei lavoratori. Questa parte del prodotto affluisce alla classe dei lavoratori in forma monetaria proprio perché il prodotto complessivo del suo lavoro non le appartiene, ma appartiene al capitalista. Ciò non toglie che ciò che il capitalista paga al lavoratore sia una parte del lavoro oggettivato nel prodotto del lavoratore.

La riproduzione deve però investire non solo il capitale variabile ma tutto il capitale. Se un capitale complessivo di diecimila euro dà un plusvalore di mille euro, dopo dieci anni il plusvalore prodotto, sia esso consumato o reinvestito, ha riprodotto il capitale anticipato inizialmente che quindi esiste solo come accumulazione di lavoro non pagato, prescindendo dal modo più o meno rapace, più o meno truffaldino con cui tale dotazione originaria ha avuto luogo (la cosiddetta accumulazione originaria, che abbiamo visto essere frutto, storicamente, di ingenti rapine e depredazioni). La continuazione del processo riproduttivo trasforma quindi ogni capitale in pluslavoro capitalizzato.

Quindi non solo il plusvalore, ma anche il capitale stesso costituiscono un “furto di lavoro”. E il lavoratore, non solo è alienato, il cui prodotto gli è estraneo, ma alimenta continuamente la potenza che lo sfrutta e lo domina, lo sussume sotto di sé, relegandolo al ruolo di appendice del capitale.

Il punto di partenza della produzione capitalistica è l’esistenza e l’incontro di due classi, quella che detiene il capitale e quella che detiene solo la sua forza-lavoro. Ciò presuppone che vi sia stata la separazione fra il lavoratore e il suo prodotto. Anche questo presupposto viene riprodotto, perché al termine di ogni ciclo, per il fatto che i salari sono mantenuti intorno ai livelli di sussistenza della classe lavoratrice e che il lavoro è oggettualizzato in prodotti estranei al lavoratore, il risultato non è solo la merce prodotta, ma anche il lavoratore che per sopravvivere deve nuovamente vendere la sua forza-lavoro al capitalista, essendo privato con ciò anche dei mezzi di produzione e di sussistenza [1]. Quindi, il lavoratore riproduce costantemente la ricchezza oggettiva in forma di capitale e le condizioni del proprio sfruttamento.

Il consumo del lavoratore ha un duplice carattere. Da un lato è consumo produttivo, consuma mezzi di produzione, trasformandoli in prodotti contenenti un valore accresciuto. Questo consumo ha anche la caratteristica di essere contemporaneamente consumo della forza-lavoro da parte del capitalista ed è il consumo per la vita del capitalista. Dall’altro lato è consumo improduttivo, necessario per la sussistenza del lavoratore, consumo per la vita del lavoratore. Ma anche questo consumo è utile alla classe dei capitalisti, perché consente di trasformare il capitale alienato in cambio di forza-lavoro in consumi per riprodurre muscoli e cervello dei lavoratori esistenti e di quelli che verranno generati, altra condizione indispensabile della riproduzione capitalistica. Infine, tale consumo della classe lavoratrice avviene previo acquisto presso i capitalisti dei mezzi di sussistenza, che non sono altro che una parte della produzione complessiva dei lavoratori, di cui si sono appropriati i capitalisti. Consumandola, il lavoratore deve continuamente riprocurarsela nel mercato ed è quindi costretto a lavorare per il capitalista. Se lo schiavo era legato al proprietario da catene, il lavoratore salariato è legato al capitalista “da corde invisibili” nascoste dall’eguaglianza formale e dal contratto di lavoro.

Inoltre, il consumo, proprio perché presuppone l’acquisto dei beni da consumare, garantisce il ritorno alla classe dei capitalisti, in forma di vendita del prodotto, di quanto erogato con i salari. Pertanto, come i lavoratori sono un accessorio del capitale, anche i loro consumi sono un momento del suo processo di riproduzione.

La riproduzione, pur con i suoi connotati storicamente determinati, cioè capitalistici, deve anche rispettare i requisiti naturali indispensabili a prescindere dalla forma sociale della produzione. Occorre quindi indagare anche il tipo di valori d’uso che devono necessariamente essere riprodotti per garantire la continuità dell’accumulazione.

Per questo Marx già nei Grundrisse, alcuni manoscritti preparatori del Capitale, ispirandosi al Tableau économique di Quesnay, che descrive i flussi circolari degli scambi fra le classi, elaborò gli schemi di riproduzione, concernenti i flussi di ricchezza, nella sua forma di valori e valori d’uso, fra capitalisti e lavoratori e all’interno della classe dei capitalisti fra cinque settori produttivi. Essi sono uno strumento importante per comprendere le condizioni della riproduzione e quindi la possibilità della crisi ogni qualvolta esse non vengano rispettate.

Per semplicità noi esamineremo gli schemi a due settori illustrati nel libro II del Capitale, in cui il primo settore (I) è quello della produzione di mezzi di produzione e il secondo (II) della produzione di mezzi di consumo, secondo le seguenti ipotetiche quantità:

I        4.000c+1.000v+1.000pv= 6.000 mezzi di produzione

II        2.000c+500v + 00pv= 3.000 mezzi di consumo 

Totale        6.000c+1.500v+1.550pv= 9.000 produzione totale

La produzione complessiva (6.000 mezzi di produzione e 3.000 mezzi di consumo) è esattamente sufficiente a soddisfare i reintegri dei mezzi di produzione consumati (6.000c) e dei mezzi di consumo (1.500v + 1500pv = 3.000).

Ciascun settore cede all’alto la parte della sua produzione che eccede il proprio fabbisogno. Per esempio, il settore I che produce 6.000 mezzi di produzione ne utilizza al proprio interno 4.000 e può cedere al settore II i 2.000 eccedenti il proprio fabbisogno. Supponendo inizialmente, perché meno complessa, la riproduzione semplice, e quindi che tutto il plusvalore venga consumato, gli scambi necessari sono gli acquisti da parte del settore II per reintegrare i mezzi di produzione da esso consumati (2.000c) presso il settore I e gli acquisti per reintegrare i mezzi di sussistenza consumati dai lavoratori e dai capitalisti del settore I (1.000v+1.000pv) presso il settore II. Se avviene lo scambio di 2.000c contro 2.000(v+pv), le condizioni della riproduzione sono rispettate in quanto:

- nel settore I dopo aver ceduto 2.000c al settore II rimangono della sua produzione totale 6.000c-2.000c=4.000c necessari per reintegrare i mezzi di produzione da esso consumati;

- nel settore II, dopo la cessione di 2.000 mezzi di consumo, rimangono 3.000-2000=1.000 mezzi di consumo, idonei a soddisfare il consumo dei propri lavoratori (500v) e quello dei capitalisti (500pv).

In generale, la condizione di equilibrio della riproduzione semplice è data dalla relazione

vI+pvI=cII (1)

ove vI sono i consumi dei lavoratori del settore I, pvI i consumi dei capitalisti del settore I e cII i mezzi di produzione consumati nel settore II.

Per introdurre la riproduzione allargata è sufficiente ipotizzare che il plusvalore, in tutto o in parte, anziché essere consumato venga destinato ad acquistare nuovi mezzi di produzione e nuova forza lavoro (maggiori mezzi di consumo per i lavoratori). È dimostrabile che anche in questo caso la condizione di equilibrio necessaria e sufficiente è che ciascun settore ceda la parte del proprio prodotto che eccede i propri fabbisogni e che tale quota corrisponda ai bisogni dell’altro settore [2].

Tuttavia, poiché non tutto il plusvalore non viene destinato ai consumi, bensì una parte in mezzi di produzione (è suddiviso in tre parti: consumi dei capitalisti, maggiore consumo dei lavoratori e maggiori mezzi di produzione), il peso del settore I è destinato a crescere più velocemente del settore II. In altre parole, con lo sviluppo capitalistico si accresce l’importanza e il valore dei mezzi di produzione prodotti in confronto a quella dei mezzi di consumo.

Si noti che il plusvalore totale è dato sia dalla parte di esso consumata dai capitalisti improduttivamente, sia dalla parte consumata produttivamente, cioè da loro investita per accrescere la forza lavoro e i mezzi di produzione da impiegare, sia infine dalla parte tesaurizzata, non spesa. Quindi, tutto ciò che i capitalisti non consumano improduttivamente (risparmio) dovrebbe essere speso produttivamente (investimenti) al fine di impedire che una parte del prodotto resti invenduta. Se invece una parte del plusvalore viene tesaurizzata, tolta dalla circolazione e non spesa in consumi o investimenti, alcuni capitalisti non riusciranno a vendere i loro prodotti e a loro volta eviteranno di produrre merci. È questa la forma particolare della crisi nel modo di produzione capitalistico. Ancora una volta trattiamo solo la possibilità della crisi di cui dovremo indagare in seguito le cause.

In altre parole, una condizione della riproduzione allargata è che il plusvalore sia uguale ai consumi dei capitalisti più gli investimenti, e che quindi la parte non consumata improduttivamente, il risparmio (S) equivalga agli investimenti (I), da cui la relazione S=I, condizione di equilibrio di un sistema economico, che è l’abc dei moderni macroeconomisti e che è già implicita negli schemi di Marx, il quale tuttavia aggiunge ulteriori condizioni riguardanti i rapporti di scambio necessari fra i settori e l’entità dei diversi valori d’uso che devono essere prodotti per soddisfare tali rapporti [3].

Altra particolarità è che i rapporti di scambio devono essere soddisfatti sia in termini tecnici di quantità di beni necessari alla riproduzione, sia in termini di prezzi (le merci vicendevolmente scambiate devono uguagliarsi in termini di prezzi, per evitare che un settore risulti permanentemente deficitario e debitore nei confronti dell’altro). Nella riproduzione semplice, per esempio, indicando con ɸc il prezzo dei mezzi di produzione e con ɸv il prezzo dei mezzi di consumo, deve valere che ɸc·cII=ɸv·(vI+pvI). Da cui il rapporto fra i prezzi che assicura l’equilibrio è data da

ɸc/ɸv=(vI+pvI)/cII (2)

Un po’ più complessa ma ugualmente definibile – la risparmiamo al lettore – è la relazione nel caso di riproduzione allargata. Nell’economia reale, però, queste condizioni possono essere raggiunte, se va bene, solo a seguito di aggiustamenti ex post dopo tentativi e oscillazioni nel corso dei quali qualcosa va storto, il che dimostra che il mercato non è quella mano invisibile che ottimizza l’allocazione delle risorse. La possibilità della crisi è data quindi dal venire meno di queste condizioni.

Gli schemi di riproduzione, naturalmente, hanno il carattere di modello formale semplificato che astrae da mille complicazioni dell’economia reale, quali per esempio i diversi ritmi di espansione dei vari settori produttivi e le diverse evoluzioni delle composizioni organiche al loro interno dovute al cambiamento delle tecnologie, alle modificazioni dei prezzi di mercato, compreso quello della forza-lavoro ecc. il che oltretutto implica che le condizioni del cosiddetto equilibrio, cioè l'optimum della riproduzione, mutano continuamente. Quindi si assisterà a continui aggiustamenti ex post e l'equilibrio è un obiettivo a cui si cerca continuamente di avvicinarci senza mai raggiungerlo.

Gli schemi di riproduzione, pur semplificando la realtà, rappresentano un utile strumento analitico per mostrare la differenza fra le esigenze di un capitale individuale e quelle del capitale sociale. Queste esigenze, vista la tendenza dei singoli capitalisti a curare solo il primo aspetto, non possono essere soddisfatte per volontà dei singoli capitalisti, e tuttavia nemmeno la “mano invisibile” del mercato garantisce che in ogni caso, in presenza dei rivolgimenti di un sistema dinamico, esse si realizzino.

Dagli schemi viene fuori che ogni industria deve sostituire il valore dei propri elementi produttivi e possibilmente accrescerli, ma deve anche ricevere dalle altre tali elementi in una forma materiale idonea, in un appropriato valore d’uso, attraverso lo scambio di equivalenti. Se nell’analisi del valore del prodotto del singolo capitale potevamo presupporre che il singolo capitalista trovasse nel mercato gli elementi per riprodursi, anche su scala allargata, cioè potesse convertire il suo denaro in mezzi di produzione e forza-lavoro, e poi, dopo il processo produttivo, potesse incontrare altri capitalisti o consumatori in grado di assorbire la sua specifica produzione, quel determinato valore d’uso, consentendo così la riconversione della merce in denaro, adesso non si può più partire da questo presupposto, bensì occorre verificare a quali condizioni esso può realizzarsi.

Se il movente del capitalista è la crescita del suo capitale, attraverso la produzione di plusvalore, a prescindere dai valori d’uso prodotti, esaminando la riproduzione del capitale sociale emerge che tale fine può essere ostacolato dall’inadeguatezza dei valori d’uso prodotti e che la produzione del plusvalore è subordinata al “ricambio organico materiale della società” sia come presupposto per avviare il processo di valorizzazione, sia come condizione della sua realizzazione. Il fine dell’accumulazione di ricchezza astratta considera il soddisfacimento dei bisogni solo come un mezzo. Da qui il carattere non naturale della produzione capitalistica e la possibilità che l’accumulazione stessa si scontri con questa sua indifferenza nei confronti dei bisogni materiali, rendendo incerta la connessione fra sostituzione di valore e sostituzione di materia.

Anche per quanto riguarda il solo valore, occorre però che gli scambi intersettoriali si bilancino per ciascun operatore, oltre che nel loro insieme, e inoltre che il plusvalore prodotto complessivamente debba essere speso o per i consumi della classe dei capitalisti o per l’investimento produttivo. Ma i consumi della classe capitalista e dei rentier, pur ingenti, non possono essere il movente del capitale, la cui pulsione è all’autoaccrescimento permanente. Pertanto, se si interrompe il processo di investimento anche in un solo ramo produttivo, si violeranno le condizioni della riproduzione con ripercussioni in tutti gli altri rami. L’equilibrio fra domanda e offerta, il dogma dell’economia politica borghese, è solo una possibilità che nel mondo reale esiste a priori solo casualmente e che si afferma a posteriori violentemente, attraverso fallimenti e crisi.

A Ricardo, che ammetteva la possibilità di sovrapproduzioni temporanee in singoli settori (sovrapproduzione parziale) e non per l’intera economia, Marx replica che se tutte le merci fossero sovrapprodotte nella stessa proporzione non vi sarebbe sovrapproduzione. Essa si verifica invece proprio perché alcuni rami hanno una sovrapproduzione rispetto ai bisogni di altri rami.

Non vi sarebbe sovrapproduzione se la domanda e l’offerta si bilanciassero, se la ripartizione del capitale fra tutte le sfere di produzione fosse talmente proporzionata, che la produzione di un articolo implicasse il consumo dell’altro, e quindi il suo proprio consumo. Non vi sarebbe sovrapproduzione se non vi fosse sovrapproduzione [...] Non vi sarebbe sovrapproduzione da una parte se vi fosse uniformemente sovrapproduzione da tutte le parti. Ma il capitale non è abbastanza grande per sovrapprodurrre così universalmente, e per questo si ha una sovrapproduzione universale” [4].



Note:

[1] Sappiamo che il mantenimento dei salari al livello di sussistenza, naturalmente secondo le condizioni storicamente determinate, che oggi includono beni impensabili nell'ottocento, è garantito dalla presenza di un esercito industriale di riserva, di manodopera in cerca di lavoro, che preme nel mercato del lavoro contrastando ogni tendenza dei salari a superare questo limite. Oggi una buona componente di questo esercito è data dai lavoratori immigrati, meglio se clandestini, perché più ricattabili. Il che spiega anche perché la nostra legislazione renda così difficile la regolarizzazione di questi lavoratori.

[2] Tale condizione è data quindi da vI+avI+pvI=cII+acII, ove: vI = reintegro dei consumi dei lavoratori del settore I, come nella riproduzione semplice; avI = mezzi di consumo aggiuntivi per soddisfare i consumi dei nuovi assunti necessari ad allargare la riproduzione; pvI = quota del plusvalore destinata ai consumi dei capitalisti del settore I; cII = reintegro dei mezzi di produzione consumati nel settore II; acII = fabbisogno di ulteriori mezzi di produzione per allargare la scala della produzione nel settore II.

[3] La cosa si può vedere anche formalmente. Il valore del prodotto finale aggregato è dato da c+v+pv, omettendo l’indicazione del settore perché ora parliamo di grandezze aggregate. Perché tale valore sia realizzato interamente con la vendita, occorre che sia impiegato per i ripristini di mezzi di produzione e forza-lavoro (c+v), per i consumi improduttivi dei capitalisti (i) e per gli incrementi di mezzi di produzione e forza lavoro (per allargare la scala della produzione), Δc+Δv. Quindi

c+v+pv=c+v+i+ Δc+Δv

c+v figurano al primo e al secondo membro e quindi possiamo eliminarli:

pv=i+ Δc+Δv

cioè ritroviamo la condizione che il plusvalore debba essere o consumato improduttivamente o investito per allargare la produzione. Spostando i dal secondo al primo membro cambiato di segno abbiamo

pv-i = Δc+Δv (a)

Il primo membro indica il plusvalore detratti i consumi improduttivi, cioè il risparmio, S=pv-i

Il secondo membro indica gli investimenti, I=c+Δv. La (a) non è che un modo diverso per scrivere S=I.

[4] K. Marx, Storia delle teorie economiche, vol II, Ed. Einaudi, 1955 p. 587.

13/05/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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