Link al video della lezione tenuta per l’Università popolare Antonio Gramsci su concetti analoghi
Segue da: Dal biennio rosso allo squadrismo fascista
Il tramonto dello Stato liberale italiano
Terminata la fase della ricostruzione, post Prima guerra mondiale, la crisi economica di sovrapproduzione riesplode e i paesi a capitalismo avanzato ne scaricano gli effetti deteriori sui paesi più deboli, sfruttandoli anche come potente arma di ricatto per contrastare i movimenti rivoluzionari, che in Italia avevano raggiunto il loro apice durante il Biennio rosso (1919-20). Anche nel nostro paese le classi dominanti ne scaricano gli effetti deleteri sulle classi più deboli. Le piccole imprese tendono a fallire mentre le grandi, con la scusa della crisi, ristrutturano automatizzando la produzione e intensificando lo sfruttamento della forza lavoro. Ciò provoca naturalmente un forte incremento dell’esercito industriale di riserva, che aumenta la sua pressione sul ridotto numero degli occupati, consentendo ai capitalisti di ridurre i salari al minimo e di ampliare il plusvalore assoluto e relativo. Il movimento operaio, fortemente segnato dalla sostanziale sconfitta del Biennio rosso, è in piena fase di reflusso nel particolarismo e nel privato. La sua forza è di molto indebolita, al punto che non è in grado di reagire dinanzi alla controffensiva padronale. Tanto più che, in periodi di crisi, gli obiettivi riformisti divengono sempre più difficilmente praticabili, in quanto con la caduta tendenziale del tasso di profitto il capitale ha margini sempre più ristretti per operare quella parziale redistribuzione funzionale a mantenere la propria egemonia sulla società civile.
La grande borghesia, per mantenere stabile il suo potere, deve rafforzare il proprio monopolio della violenza legalizzata e intende sfruttare al meglio la debolezza del nemico di classe e i rapporti di forza a lei favorevoli. Del resto il biennio rosso ha terribilmente spaventato chi gode di grandi e antisociali privilegi, a difendere i quali la tattica temporeggiatrice e riformista del moderato Giovanni Giolitti non appare più al passo con i tempi. Così il più esimio esponente della ceto politico dirigente scopre come il suo potere si fondi in realtà essenzialmente sulla sua capacità di fare gli interessi complessivi della classe dominante. Nel momento che non appare più in grado di garantire tali interessi, viene scaricato e l’alta borghesia punta sempre più decisamente su Benito Mussolini e le sue squadracce di camice nere per imporre una dittatura sempre più aperta, che serva da lezioni alle classi subalterne che avevano osato mettere in discussione i suoi privilegi. Per altro, nel frattempo, Mussolini si è, fiutando l’aria, convertito al capitalismo, abbandonando quei tratti di romantico anticapitalismo inseriti opportunisticamente nel programma di San Sepolcro. Al contempo incentra tutta la propria azione politica sugli atti di violenza volti a conquistare a una a una le casematte delle sinistre e, più in generale, del movimento dei lavoratori nella società civile.
Le elezioni del 1921 e il Blocco nazionale
Per le successive elezioni del maggio 1921 Giolitti, fiutata l’aria, dà vita a un Blocco nazionale che include i fascisti e unifica il partito dell’ordine per contrastare più efficacemente i due partiti di massa che lo mettevano in questione: i socialisti e i popolari. I socialisti così, per la prima volta, dopo anni di costante crescita – tanto da apparire inarrestabile, soprattutto dopo la conquista del sistema proporzionale – perdono terreno, solo in parte recuperato dall’appena costituitosi Partito comunista d’Italia. La maggioranza va, dunque, al blocco conservatore e i fascisti entrano in parlamento. D’altra parte Giolitti, nonostante l’ennesima operazione trasformista condotta con successo, comprendendo di non aver più l’appoggio della classe dominante, rinuncia a formare il governo, con la tattica già sperimentata con successo in passato di mettersi da solo da parte, per poi essere richiamato al governo non appena la situazione veniva complicandosi. Il suo esasperato tatticismo conservatore non gli fa comprendere come la lunga fase del governo delle consorterie dei notabili sia ormai passata e con essa anche Giolitti viene messo definitivamente da parte da quella classe dominante che se ne era sino a quel momento più volte servita ai propri fini. Del resto con Giolitti, il suo più brillante esponente dopo Cavour, è lo stesso Stato liberale che va incontro alla sua crisi definitiva.
Il governo Bonomi
Durante il governo moderato del revisionista Ivanoe Bonomi (1921-22) lo squadrismo, non trovando più alcuno ostacolo da parte dello Stato dilaga, anche perché le forze comuniste, socialiste e democratiche, ancora maggioritarie nel paese, non sono in grado di fronteggiarlo, per le complicità di cui gode fra gli apparati repressivi dello Stato e i finanziamenti sempre più ingenti che riceve dall’alta borghesia. In effetti, Bonomi lascia campo libero alle camice nere, mentre fa reprimere con grande energia, dalle forze dell’ordine borghese, ogni forma di resistenza popolare antifascista.
La svolta a destra di Mussolini e l’appoggio di papa Pio XI
Nel frattempo Mussolini, con il suo caratteristico opportunismo, ha finito di cassare dal programma originario fascista le punte radicali ancora presenti, il repubblicanesimo e il laicismo propri dell’impostazione primitiva piccolo-borghese, per fugare i residui dubbio delle forze conservatrici grandi borghesi. Anche il nuovo papa, Pio XI, eletto nel 1922, può così mostrare apertamente la sua simpatia per il fascismo e togliere l’appoggio al partito popolare che a Mussolini fino a quel momento, bene o male, si era opposto. Per la prima volta le alte gerarchie cattoliche avevano trovato un rappresentante dello Stato italiano in cui riporre pienamente la loro fiducia.
La fine dell’unità d’azione fra Partito socialista e Cgl
Nel frattempo il partito socialista si indebolisce ulteriormente per la scissione proprio di quella minoranza riformista guidata da Giacomo Matteotti – la cui mancata espulsione aveva precedentemente favorito la scissione da sinistra, che aveva dato vita al Partito comunista d’Italia – in quanto i revisionisti erano contrari a qualsiasi scontro diretto con il fascismo. Ciò porta anche alla fine dell’unità di azione fra il partito socialista e la CGL, visto che i riformisti che l’avevano fondata, di contro al sindacalismo rivoluzionario, ne avevano sempre mantenuto il controllo.
La marcia su Roma
Dinanzi al governo ancora più debole e moderato di Luigi Facta, sostituitosi al governo Bonomi, Mussolini comprende che è giunto il momento di tentare la carta della conquista diretta del potere, anche perché con tutti i delitti di cui si era fatto carico il fascismo, rischiava seriamente, se si fosse ripristinato un governo intenzionato a riaffermare lo Stato di diritto, di finire con il terminare la sua vita in carcere con i suoi accoliti. Del resto la parte meno conservatrice della classe dirigente liberale, per riconquistare il precedente potere politico, stava cominciando a tramare per sbarazzarsi di coloro che si erano fatti carico di tutto il lavoro sporco necessario a mettere fuori gioco ogni forma di opposizione al partito dell’ordine. Mussolini passa così a organizzare un quadrunvirato di gerarchi squadristi con il compito di preparare il colpo di Stato, mediante una marcia delle squadracce fasciste di tutta Italia su Roma. Mussolini, incerto sul successo dell’azione, rimane a Milano, con un biglietto del treno pronto a mettersi in salvo in Svizzera, nel caso che il capo dello Stato, il re e la classe economica dominante avessero deciso di riprendere pienamente sotto il proprio controllo il monopolio della violenza legalizzata. Dal momento che le squadracce fasciste si sarebbero squagliate come neve al sole, se gli apparati repressivi dello Stato, che sino a quel momento li aveva coperti e nel caso protetti, gli si fossero schierati contro.
Il primo governo Mussolini
Gli squadristi, giunti da tutta Italia senza incontrare praticamente nessuna forma di resistenza da parte degli apparati repressivi dello Stato, si accampano alle porte di Roma in attesa di capire se avrebbero avuto via libera per fare l’ingresso da trionfatori nella capitale. Nonostante la richiesta, per quanto tardiva, del presidente Facta, il re rifiuta di firmare lo stato di assedio, che avrebbe disperso i fascisti, dal momento che nei rari casi in cui l’esercito aveva minacciato d’intervenire le camice nere si erano date precipitosamente alla fuga. Anzi, di fatto liquida l’imbelle Facta e dà a Benito Mussolini, il 28 ottobre del 1922, l’incarico di formare il governo. Così l’esercito schieratosi a impedire la presa di Roma, fu rimandato a casa, consentendo alle camice nere di mettere in scena la “marcia su Roma”. Questa prima infausta scelta del monarca fu fortemente condizionata dall’aver dato campo libero, sino ad allora, agli apparati repressivi dello Stato – di cui Vittorio Emanuele III era il capo – di coprire le numerosissime azioni violente perpetrare dai fascisti, intervenendo unicamente in lodo difesa nel caso in cui il proletariato avesse avuto il tempo di mettere in piedi una qualche forma di resistenza.
La politica liberista del primo governo Mussolini
Nonostante il suo ostentato disprezzo per il parlamentarismo, Mussolini con il consueto trasformismo forma un governo di coalizione relativamente moderato, che comprende oltre ai fascisti, i liberali e i popolari, per dimostrarsi affidabile rispetto al blocco sociale dominante, che aveva permesso la sua scalata al potere e da cui dipendeva la sua conservazione. Le politiche sociali e fiscali giolittiane, volte a mantenere l’egemonia sui ceti subalterni, furono drasticamente spazzate via come faux frais della produzione. Mussolini inoltre lascia campo libero alla brama di profitto dei grandi industriali, portando avanti una politica economica e sociale ultra-liberista. In tal modo i salari calano sensibilmente. Ciò insieme alla congiuntura economica favorevole, con la ripresa del capitalismo a livello globale, rimette in moto l’economia capitalista italiana.
La svolta autoritaria di Mussolini
Per mantenere la crescita economica e ristrutturare la produzione, senza incontrare resistenza da parte delle classi subalterne, si consolida fra le classi dominanti l’aspirazione a uno Stato autoritario, sfruttando i favorevoli rapporti di forza e temendo una ripresa del movimento operaio. Ciò consente a Mussolini di svuotare progressivamente le istituzioni rappresentative dello Stato liberal-democratico, preparando una transizione morbida alla dittatura aperta del blocco sociale dominante. A tale scopo il Gran Consiglio del fascismo, assemblea dei gerarchi fascisti – i cui membri erano direttamente selezionati da Mussolini – si attribuisce funzioni che spettavano al parlamento, svuotandolo progressivamente di ogni potere. Di contro, sono accresciuti i poteri del capo dello Stato, a discapito della divisione dei poteri e, in particolare, del potere legislativo e giudiziario. Le camicie nere vengono istituzionalizzate con la creazione della milizia che legalizza lo squadrismo. I ministri popolari, non perfettamente in linea con il nuovo corso fascista, sono allontanati dal governo. Vengono progressivamente limitate la libertà di stampa e le attività dei sindacati e dei partiti di opposizione.