Nella direzione della frantumazione del soggetto [1] si sono mosse anche la linguistica strutturale e lo strutturalismo etnologico, che deriva della prima. Lingua e cultura vengono assimilate in quanto forme di comunicazione, strutture che attribuiscono significati, non depositate in un soggetto consapevole, ma in una dimensione inconscia che opererebbe come una sorta di logica soggiacente (spirito umano), che starebbe alla base delle relazioni latenti e costitutive delle istituzioni sociali. Ossia le istituzioni sarebbero frutto di questa logica inconscia, che secondo Claude Lévi-Strauss, fondatore dello strutturalismo, si articola per opposizioni. Per esempio, la proibizione dell’incesto, studiata da Freud in Totem e tabù, scaturirebbe dal passaggio, verificatosi in ogni cultura e governato da questa logica inconscia, dalla dimensione naturale alla dimensione culturale, dando vita così all’opposizione universale natura / cultura. Prima della proibizione dell’incesto, la sessualità non era regolamentata; con l’introduzione del divieto viene imposta una regola, che è allo stesso tempo culturale e sociale, ma che ha il carattere universale dei fenomeni naturali; infatti, non conosciamo società prive della proibizione dell’incesto, anche se poi essa viene rispettata in forme diverse.
Questa logica inconscia, che Lévi-Strauss pone all’origine dei fenomeni sociali, è costitutiva dello spirito umano e non è alla portata degli individui che di esso partecipano. Così dopo aver parlato di morte di Dio, che è stata piuttosto una lunga agonia iniziata con la non necessità di richiamarsi a questi per comprendere il mondo, come è stato anticipato, viene anche proclamata la morte dell’uomo con la conseguente crisi delle scienze umane. L’opposizione a questo esito disperante si fonda sull’idea che il processo di emancipazione dell’uomo, derivatoci dall’Illuminismo, non possa essere abbandonato e non possa che partire dalla presa di coscienza e dalla capacità di comprendere il reale.
Soffermandomi sullo strutturalismo e su certo cognitivismo ho cercato di descrivere gli antecedenti storici del clima culturale nel quale stiamo vivendo, caratterizzato dall’egemonia di ideologie antiumanistiche e ostili di fatto alla trasformazione sociale. La cosa più interessante di queste ideologie è che i loro aspetti apparentemente più radicali – ma surrettiziamente reazionari – sono stati fatti propri da settori che si presentano come autenticamente antagonisti e volgarizzati nel processo di diffusione operato dai mezzi di comunicazione di massa.
Questa diffusione ha fatto sì che l’idealismo postmoderno, come viene chiamato nella rivista Cuba socialista, in forma semplificata fosse recepito da larghi strati della popolazione occidentale. E ciò sarebbe il segno che, se gli Usa stanno declinando dal punto di vista economico, politico, militare (come loro stessi riconoscono), sono ancora molto forti sul piano ideologico e mediatico (come mostra l’espressione “pensiero unico” e le campagne mediatiche condotte contro i loro nemici). Infatti, le loro dispute economiche e militari con Russia e Cina non mettono in discussione mai il sistema capitalista dal punto di vista ideologico, il sistema democratico-liberale, i diritti umani così come sono intesi da quest’ultimo.
Questo idealismo postmoderno nella sua versione volgarizzata, di cui sono portatori gli intellettuali mediatici, è oggi molto forte e non è facile scalzarlo. Questi ultimi criticano la società attuale, ma non nella sua sostanza, solo in quelle che a loro avviso costituiscono delle storture; oppure prefigurano un sistema sociale di tipo arcaico, la cui realizzazione è del tutto irrealistica e resta un mistero. E contro di esso, Fidel Castro tentò di suscitare, dopo il dissolvimento dell’URSS, la cosiddetta battaglia delle idee, cui ho potuto dare un piccolo contributo a proposito dell’universalizzazione dell’accesso all’educazione superiore, che si tentò negli anni 2000 a Cuba.
A mio parere non dobbiamo però confondere questo postmodernismo volgarizzato con tutte quelle problematiche che in ambito filosofico e scientifico riflettono sul ruolo del linguaggio e della cultura, su come sia corretto intendere la problematica relazione soggetto / oggetto, su quanto sia complesso il rapporto tra teoria e ricerca empirica etc. D’altra parte, questi non sono temi nuovi, giacché risalgono a quella che è stata chiamata “l’età dell’oro della sicurezza”, che iniziò a sgretolarsi nello stesso ambito della scienza a partire dalla fine del secolo XIX (Negri A., Novecento filosofico e scientifico. Protagonisti, 1991).
Schematizzando ho individuato nell’idealismo postmoderno tre punti: 1) la storia è il prodotto di forme inconsce non recuperabili e non passibili quindi di analisi critica; 2) per questa ragione non si dà un soggetto in grado di conoscere il processo storico e di proporre un progetto alternativo; 3) il potere è onnipotente e pervasivo, perciò anche la conflittualità, l’opposizione viene smorzata e reintegrata nel sistema. In questa concezione della storia gli uomini non sono più soggetti, sono ridotti a cosa o a macchina, che agisce in maniera automatica ed inconsapevole.
L’accantonamento del soggetto ha avuto varie conseguenze, che possono essere individuate riflettendo sulla cosiddetta riflessione postmoderna, che qui non è toccata nella sua complessità ma nella sua versione “popolare”. In primo luogo, essa sposta l’enfasi sul corpo inteso come oggetto, privato della coscienza, e divenuto il nuovo feticcio della società attuale. Correlato al corpo è ovviamente lo spasmodico accento sulla sessualità, della quale il corpo è strumento ed oggetto nello stesso tempo, la cui stimolazione e manipolazione sono diventate forme preponderanti di repressione. Tale manipolazione assume forme primitivistiche (tatuaggio, piercing), il cui duplice scopo è quello di eliminare la residua naturalità del corpo e di enfatizzare la peculiarità dell’individuo.
L’accento sul corpo ripropone in maniera occulta il dualismo mente/corpo superato dal pensiero dialettico, secondo cui il corpo è “una prassi autotrasformativa”, ossia ha “la capacità di trasformare se stesso nell’atto di trasformare i corpi materiali circostanti” (Eagleton T., Le illusioni del postmodernismo, 1998, p. 86). In questa prospettiva antidualistica, tema centrale degli attacchi ottocenteschi e novecenteschi al positivismo, cade anche la mitica opposizione natura/cultura proposta da Lévi-Strauss. Infatti, come scrive Eagleton (1998, p. 87), noi “siamo esseri culturali in virtù della nostra stessa natura, cioè in virtù del tipo di corpo che abbiamo e del tipo di mondo a cui esso appartiene”. Ciò vuol dire che la nostra natura culturale non è che un prolungamento della nostra natura materiale, giacché se gli esseri umani non inventassero la cultura, non potrebbero sopravvivere.
Sembrerebbe che i corpi siano la maniera che consente ai postmoderni di parlare dei soggetti umani, trascurando la dimensione della coscienza ed evitando loro di ricadere nel superato umanesimo. Del resto, sembrerebbe che per i postmoderni il corpo sia l’unica entità ad avere consistenza, giacché per loro, come per David Hume, il soggetto (la psiche) è un fluido scorrere di sensazioni e di esperienze, che filosofie come il liberalismo, l’illuminismo avrebbero scorrettamente unificato. Viene così cancellato il soggetto unificato, che si autodetermina, e viene sostituito da un soggetto plurale e contraddittorio, fortemente condizionato dalla cultura e dalla società. Naturalmente questo discorso vale sia per il soggetto individuale che per quello politico-sociale. Non è quindi un caso che in ambito politico si sia aspramente criticata la “forma partito”, parlando per esempio di “sinistra plurale” (annichilita da eclatanti e ripetute sconfitte), e sia stato enfatizzato il ruolo del movimento.
In questa prospettiva il soggetto diventa incerto, labile e la libertà diventa fare tutto ciò che vogliamo in un determinato momento, opponendoci alle costrizioni esterne con un atteggiamento adolescenziale; anzi, per sfuggire a queste costrizioni, che tendono a cristallizzare il soggetto, a disciplinarlo, a responsabilizzarlo, la libertà viene ricercata nella mancanza di un’identità fissa, in qualcosa che dovrebbe essere sfuggito alla cristallizzazione sociale. La conseguenza sta anche nella rinuncia a qualsiasi forma di identità, sia personale che politica, e ciò sarebbe equivalente al liberarsi di un mito, che “rende cupa la nostra esistenza”.
I postmoderni hanno in un certo senso ragione. Basta comprendere che essi non stanno descrivendo il soggetto umano in generale, stanno parlando di fatto del soggetto oggi, ossia della condizione del consumatore, che la società euroamericana attuale ha ridotto a puro e vuoto ricettacolo di desiderio da riempire con quanto si può acquistare dal mercato (cfr. Eagleton 1998, pp.102-103).
Tale visione postmoderna è certamente collegata alla concezione strutturalistica e a quel cognitivismo riduttivo, analizzati in precedenza, che hanno fatto del soggetto solo un contenitore di codici impersonali, descrivendo così qual è effettivamente la sua condizione nella società del tardo capitalismo (cfr. Eagleton 1998, p. 147).
Si potrebbe quindi affermare che, da un lato, il postmodernismo sembra essere radicale per il rifiuto di valori assoluti (l’umanesimo), mostrando che non sono tali, ma prodotto della civiltà occidentale (decostruzione), per l’attacco ai fondamenti metafisici (il soggetto), per il gusto della trasgressione e per il suo relativismo culturale; ma, dall’altro, esso propone una serie di convinzioni e di principi che riflettono l’attuale sistema sociale, sui quali non è certo possibile fondare nessun progetto di trasformazione sociale. Ossia, pur essendo convinti che ogni visione del mondo è socialmente e culturalmente condizionata, si rifiutano di vedere la relazione tra il loro modo di vedere e la vita sociale nella società contemporanea.
Se invece seguiamo questa prospettiva, ci rendiamo conto che di fatto il postmodernismo come moda culturale diffusa a vari livelli culturali si palesa sia come descrizione della società attuale sia come strumento della sua ratificazione. Inoltre, con la sua concezione del soggetto frantumato e desiderante, favorisce la formazione di personalità ibride e fluide del tutto incapaci di elaborare una qualsiasi forma di critica sociale.
Come abbiamo visto, adottando una posizione antiessenzialista e particolarista, il postmodernismo rifiuta la nozione di “umanità” e di “natura umana”, dalla quale il pensiero illuministico ha fatto discendere una serie di valori come libertà, autonomia, uguaglianza, felicità. Diritti che, secondo i seguaci dell’umanesimo, appartengono a tutti gli uomini in quanto tali, indipendentemente dalle loro particolarità culturali e sociali., ma che certamente sono il prodotto della concezione borghese della società e d’altro lato sono sempre invocati, ma mai praticati. Ricordo che i paesi socialisti e alcuni paesi islamici non votarono a favore della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, per una serie di ragioni non del tutto peregrine. Ma, nonostante questa origine, che poi è molto più antica, essi hanno costituito un passo avanti, come riconosce uno dei loro critici Slavoj Zizek, tanto che le cosiddette democrazie, pur invocandoli, evitano di prenderli sul serio e non li hanno mai applicati ai loro possedimenti coloniali, come sottolinea Domenico Losurdo e prima di lui Aimé Césaire. E soprattutto hanno la funzione di costruire un primo strumento di aggregazione di gruppi.
Un altro assunto dei postmoderni è il rifiuto del sistema in quanto tale, senza porsi il problema delle differenze empiriche tra i diversi sistemi politici e sociali. Da tale prospettiva scaturiscono il già ricordato gusto per il trasgressivo, per l’antisistemico e, quindi, anche la rinuncia all’elaborazione di un sistema alternativo, giacché per la sua stessa natura, ossia in quanto sistema, sarebbe negativo e costrittivo. Ne consegue ovviamente l’abbandono di ogni progetto complessivo e alternativo di trasformazione sociale.
Se queste osservazioni sono ragionevoli, si potrebbe affermare che non è un caso che molti uomini politici vittoriosi in differenti paesi del mondo si sono presentati come out-siders, radicalmente innovatori, rottamatori, sfondando tra le masse che hanno recepito tale visione antisistemica. Come sappiamo, in realtà erano e sono ben radicati nel sistema e ne fanno gli interessi. Si pensi, per esempio, al reazionario out-sider Jair Bolsonaro che ha alle spalle 30 anni di carriera politica.
I postmoderni non vedono o non vogliono vedere che i sistemi sono contraddittori e conflittuali; in particolare, non colgono la natura aporetica della società capitalistica (Eagleton 1998, p. 76).
In conclusione, mi pare si possa affermare che le concezioni filosofiche qui esaminate contengono tematiche che contribuiscono a distruggere la possibilità teoretica e la volontà che un progetto di radicale trasformazione sociale sia elaborato. Infatti, se gli uomini sono effettivamente dominati dalla dimensione inconscia, i cui contenuti sono pressoché irrecuperabili, non possono certamente diventare consapevoli del loro ruolo e quindi farsi soggetti autonomi dell’elaborazione critica e del cambiamento. Inoltre, se il sistema è onnipotente e diffuso in maniera capillare, non possono prodursi forze antisistemiche, che mirano alla costruzione di un sistema alternativo, o se esse riescono a manifestarsi, finiscono con l’essere integrate nel processo della sua stessa riproduzione. Tali convinzioni sono certamente prodotte dall’esperienza della società capitalistica attuale, ma nello stesso tempo stanno alla base dell’inconsistenza teoretica e progettuale della sinistra europea e statunitense, che si manifesta nella sua tragica incapacità di reagire dinanzi ad una società che si fa ogni giorno più spietata e barbarica.
Avviandomi alla conclusione mi pongo questa domanda: questi temi sono tutti da buttare nella spazzatura? Credo di sì per quanto riguarda il postmodernismo volgarizzato, ma per quanto riguarda certe questioni di carattere epistemologico sollevate nell’ambito delle scienze sociali e in quello delle scienze naturali sarei più cauta, osservando che questo lunghissimo dibattito, iniziato alla fine dell’ottocento, mira giustamente a mettere in discussione il realismo acritico, a sottolineare la complessità del processo conoscitivo, in cui è impossibile la netta scissione tra soggetto ed oggetto e in cui la ricerca dei fattori determinanti deve farsi più articolata e profonda.
Bibliografia
Eagleton T., Le illusioni del postmodernismo, Roma 1998
Negri A. Novecento filosofico e scientifico. Protagonisti, Settimo Milanese 1991.
Note
[1] Ho tratto questo tema in un articolo intitolato Lo inconciente en las ciencias sociales. Un problema téorico y ético-político, Marx Ahora 2015.