Il tragico negli scritti del giovane Hegel a Berna

Il superamento dialettico della concezione trascendentale della positività storica porterà il giovane Hegel a interrogarla in una prospettiva fenomenologica, volta a comprenderne dall’interno le ragioni dell’intrinseca tragicità, da cui si svilupperà la dialettica tra finito e infinito.


Il tragico negli scritti del giovane Hegel a Berna

Deciso a non perseguire la carriera ecclesiastica, cui gli aveva dato accesso l’aver portato a termine gli studi nel seminario teologico di Tubinga, Hegel accetta un posto da precettore presso Steiger von Tschugg a Berna dove soggiorna per tre anni, dall’autunno del 1793 all’autunno del 1796. L’arrivo in Svizzera coincide con una svolta storica: tra il 31 maggio e il 2 giugno del 1793 un’insurrezione popolare risolve lo scontro apertosi nella Convenzione a favore dei Giacobini che, varata una costituzione dai tratti democratici, prendono il pieno controllo del Comitato di Salute Pubblica, esautorando l’assemblea legislativa da ogni potere effettivo. Sebbene i documenti in nostro possesso siano piuttosto scarsi, non è ravvisabile, nell’immediato, una forte incidenza di questi avvenimenti sulla personalità e la riflessione hegeliana. Egli sembra prendere pienamente coscienza della drammaticità degli eventi francesi solo post factum, verso la fine del 1794 ed è proprio questa nuova consapevolezza a segnare una svolta profonda nella sua formazione. La delusione nei confronti dei tragici sviluppi della Rivoluzione Francese, che dal piano immediato si riverbera anche sulla riflessione teoretica, porta Hegel ad abbandonare lo studio della religione popolare per passare ad approfondire lo studio della filosofia critica, mettendola alla prova dell’analisi storico-fenomenologica. Il fine di educare il popolo alla libertà e alla felicità per mezzo di una profonda riforma della religione, con lo scopo di riconquistare la bella organicità del mondo antico, resta immutato in questi anni. A trasformarsi è solo il linguaggio, divenuto sempre più riflessivo, in un costante approssimarsi all’ideale modello kantiano. 

L’armamentario concettuale di Hegel è ancora poco sviluppato e troppo spesso supplisce alle mancanze di una rielaborazione autonoma del patrimonio culturale servendosi di formule della filosofia kantiana. In tal modo, all’interno del pensiero hegeliano di questo periodo si mantiene uno scarto, un’intima lacerazione tra l’ideale organicista del mondo antico e lo strumentario ideologico per raggiungerlo. Si riproduce così, a un superiore livello di elaborazione teorica, l’opposizione tra filosofia della riflessione e tendenze preidealistiche, caratterizzate da una concezione della storia oscillante tra la nostalgia per la totalità politica del mondo antico e lo spirito del popolo. In altri termini, dietro una forma che sembra il più delle volte ricalcare quella della “scuola” kantiana, si cela già, soprattutto nell’ultima fase della produzione bernese, un contenuto che sempre più viola i limiti impostigli dal razionalismo trascendentale. L’opera di Schiller, con il suo sottile tentativo di conciliazione tra istanze del trascendentalismo e istanze protoidealiste della filosofia della storia, esercita anche in questo caso un’influenza decisiva. Lo stesso scambio epistolare con Schelling testimonia il giudizio estremamente favorevole dato da Hegel alle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo: “i primi due fascicoli delle «Horen» di Schiller mi hanno procurato un grandissimo piacere; il saggio sull’educazione estetica del genere umano è un vero capolavoro” [1].

Ciò non toglie che, negli scritti di filosofia della religione di questo periodo, il radicale rovesciamento operato da Kant del rapporto tradizionale tra morale e religione sia ben attestato. Come chiarisce Kant, sin dalle prime pagine della Religione entro i limiti della sola ragione, “la morale, in quanto basata sul concetto dell’uomo – come essere libero, ma che appunto per questo, obbliga pure se stesso mediante la ragione, sotto leggi incondizionate – non ha bisogno né dell’Idea di un altro essere superiore all’uomo, onde questi conosca il suo dovere, né di un movente diverso dalla legge stessa, perché egli lo compia” [2]. 

Sulla scia di Kant, la morale è posta dal giovane Hegel a fondamento delle religioni e le credenze storicamente determinate non devono contrapporsi a una concezione della libertà fondata sull’imperativo categorico. Le religioni storiche vengono criticamente comprese da Hegel all’interno di un progetto etico-politico – per diversi aspetti affine a quello che svilupperà Kant in Per la pace perpetua [1795] – volto all’istituzione del “Regno di Dio”, cioè di una comunità etica rivoluzionaria in grado di superare la drammatica scissione fra individuo e Strato tipica dell’epoca moderna. Tuttavia, pur ponendosi nella prospettiva “critica” dell’opposizione tra religione razionale e religioni storiche, Hegel cerca di stabilire una possibile mediazione fra questi due ambiti, anche al di là del dato puramente positivo. Pure in questo caso egli sembra mirare a valorizzare gli elementi più progressivi della riflessione sulla religione di Kant, volti a mediare il piano trascendentale con quello storico-antropologico. Del resto, come si evince dal titolo stesso dell’opera La religione entro i limiti della sola ragione, Kant non si limita affatto a esporre una credenza dedotta sulla base di princìpi puramente razionali, ma intende analizzare criticamente l’intera religione, anche nei suoi aspetti storici, dal punto di vista della ragione. Non si tratta, dunque, di ridurre le credenze storiche a un semplice manto simbolico di eterne verità filosofico-morali. 

Così, pur mantenendo il confine razionale posto da Kant alla religione, che gli consente di indagare criticamente la positività delle credenze, tale limite non ha per Hegel una funzione puramente negativa. Egli è, infatti, perfettamente cosciente della necessità di schematizzare, di dare rappresentazione e realizzare storicamente i postulati trascendentali dell’imperativo categorico. Hegel intende sviluppare la kantiana “fede riflettente”, modulata sulla base del giudizio riflettente, che gli si presenta come superamento dialettico della fede positiva e di quella razionale fondata sulla ragion pratica.

La forte presenza di richiami a Kant nei manoscritti di questi anni e la composizione della Vita di Gesù, prima opera non frammentaria scritta da Hegel, ha fatto sì che diversi interpreti abbiano visto nell’applicazione dell’impianto trascendentale del criticismo alle ricerche di filosofia della religione una sorta di passe-partout, capace di dar conto dell’intera fase svizzera dell’opera hegeliana. Ciò ha portato a darne una lettura semplificata, poco attenta alle sfumature, agli scarti qualitativi che si producono nella personalità di Hegel in questi anni. In altri termini, sono stati trascurati gli elementi maggiormente innovatori della riflessione hegeliana, quelli che anticipano l’autonomizzarsi della sua concezione del mondo dalla riflessione kantiana, in un processo che avrà il suo primo compimento nelle opere di Francoforte. Si tratta allo stesso tempo degli elementi di maggiore importanza per la nostra analisi, quelli che spingono Hegel a una decisa critica dell’intelletto, vero e proprio fondamento del superamento dello “scolasticismo” kantiano, sulla base di una concezione dell’assoluto, della totalità, che costituirà il fondamento del futuro sistema. Allo stesso tempo, il superamento dialettico della concezione trascendentale della positività storica porterà Hegel a interrogarla in una prospettiva fenomenologica, volta a comprenderne dall’interno le ragioni dell’intrinseca tragicità, da cui si svilupperà la dialettica tra finito e infinito.

Di conseguenza, a nostro parere, le riflessioni di Hegel negli anni di Berna possono essere suddivise in tre periodi, ciascuno dotato di relativa autonomia: un primo momento in cui il giovane filosofo tende ad approfondire e sviluppare fino alle estreme conseguenze le problematiche affrontate negli ultimi anni passati allo Stift di Tubinga [3]; un secondo caratterizzato dalla diligente applicazione dei principi della filosofia critica alla religione cristiana, nell’intento di purificarla dalla positività; un terzo in cui – grazie ad una conoscenza maggiormente approfondita dei fondamenti teorici del criticismo – si cala nuovamente nell’analisi storico-fenomenologica, da cui verrà alla luce il nucleo speculativo della sua dialettica. Tratto comune di queste differenti fasi è la considerazione critica del mondo cristiano, progressivamente interpretato da Hegel come un’epoca storica irreversibilmente decadente. Come ha osservato Finelli: “dall’idealizzazione della grecità e dalle caratteristiche che devono connotare una religione popolare deriva un’ulteriore conseguenza per Hegel, di non poco rilievo anche per l’evoluzione futura del suo pensiero: cioè la tesi che il cristianesimo non possa essere una religione popolare. Infatti i testi che vanno dal n. 17 al n. 26, composti da Hegel a Berna (…), sono tutti dedicati essenzialmente a questo tema” [4].

Agli occhi di Hegel la modernità, che spesso assume la forma utopistica del “Regno di Dio”, sarà veramente realizzabile solo dopo aver fatto i conti fino in fondo con la tragedia storica del cristianesimo. Sebbene non ancora esplicitamente tematizzata, dietro questa problematica si cela l’analisi della drammatica genesi del mondo moderno

Nel corso di questi anni Hegel si renderà progressivamente conto dell’importanza decisiva della Rivoluzione Francese nella periodizzazione della filosofia della storia. Il destino del cristianesimo, che non rappresenta più la tragedia della modernità, ma si configura a partire dalla “miseria tedesca”, è così progressivamente storicizzato. Il lento, ma inesorabile disfacimento dell’impero germanico trova il suo fondamento nello spirito del cristianesimo e nel suo tragico destino. È un dramma ancora pre-moderno, che nella descrizione di Hegel assumerà toni tragicomici, più che tragici. Questa riflessione si configura, dunque, come una sorta di preambolo all’analisi della tragedia moderna, quella della Rivoluzione Francese e dell’espansione dei suoi principi in tutta Europa per mezzo delle truppe napoleoniche, da cui deriverà la critica al giacobinismo neoplatonico di Fichte e la concezione hegeliana della tragedia greca.

 

Note:

[1] Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, Briefe von und an Hegel a cura di Hoffmeister, Johannes, 4 voll., Amburgo 1952 (2. ed. 1977-1981), vol. I, p. 25, tr. it. parziale di Manganaro, Paolo, Epistolario I (1785-1808), Guida, Napoli 1983, p. 118.

[2] Kant, Immanuel, La religione entro i limiti della sola ragione [1793], tr. it. di Poggi A., riveduta da Olivetti M., Laterza, Bari 1995, p. 3.

[3] Si tratta di tematiche che accomunano Hegel a larga parte della cultura tedesca nella seconda metà del Settecento, così sintetizzate da Rosenzweig: “ecco il quadro del diciottesimo secolo: lo spirito razionalistico di Rousseau, il gusto dell’esperienza di Montesquieu, l’inesistenza di una patria politica per la nuova cultura nazionale in Germania, la riscoperta dell’antichità dall’angolo visuale del classicismo tedesco” Rosenzweig, Franz, Hegel e lo stato [1920], ed. italiana a cura di Bodei, Remo, Il Mulino, Bologna 1976, p. 21.

[4] Finelli, Roberto, Mito e critica delle forme. La giovinezza di Hegel (1770-1801), Roma, Editori Riuniti 1996, p. 73.

15/07/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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