Hegel a Tubinga (1788-93)

Hegel, Schelling e Hölderlin concorderanno soprattutto nella critica della cultura loro impartita, ovvero della scarsa comprensione dimostrata dal corpo docente per le novità politico-culturali che, proprio allora, stavano sconvolgendo la Germania e, più in generale, l’Europa occidentale.


Hegel a Tubinga (1788-93)

Ragione e libertà restano la nostra parola d’ordine, e il nostro punto d’incontro la chiesa invisibile [1].

Nel 1788 Hegel entra come seminarista nella Fondazione teologica di Tubinga, in cui trascorrerà cinque anni, impiegando i primi due nello studio della filosofia e i rimanenti tre in quello della teologia. Hegel, come i compagni di studi Schelling e Hölderlin, conserverà un pessimo ricordo del seminario. Come ha osservato a ragione a tal proposito Carmelo Lacorte: “i motivi di malcontento non potevano mancare. Duecento studenti, stipati entro nove stanzoni di un vecchio convento in cui poco si curava la qualità del cibo e la pulizia degli ambienti (…). Sottoposti a mortificanti punizioni disciplinari da un regolamento fratesco che incoraggiava la delazione e l’ipocrisia, l’ubbidienza servile e la bigotteria; stretti entro orari da clausura e da obblighi penosi, mordevano il freno e si acconciavano, per poter continuare gli studi, a leggere la Bibbia in pubblico e Voltaire in privato” [2].

Hegel, Schelling e Hölderlin concorderanno soprattutto nella criticadella cultura loro impartita, ovvero della scarsa comprensione dimostrata dal corpo docente per le novità politico-culturali che, proprio allora, stavano sconvolgendo la Germania e, più in generale, l’Europa occidentale. Dal complessivo corso di studi di Hegel “sia filosofici che teologici, – nota Roberto Finelli – ciò che emerge è un’assenza pressoché totale, oltre che di studio dei classici della filosofia, di riferimenti alla cultura moderna e contemporanea, salvo la continuazione di letture di opere di Feder e Mendelssohn, autori che Hegel già conosceva” [3]. Ancora più netta è la posizione di Lacorte sui giudizi di Hegel, Hölderlin e Schelling quando ripenseranno agli anni dello Stift. Essi “sono, nel loro complesso, nettamente negativi, sia che si riferiscano all’arretratezza degli ordinamenti disciplinari degli istituti frequentati e alla situazione politica del ducato, sia quando lamentano la scarsa sensibilità e la chiusura mentale dimostrata dalla maggior parte dei loro insegnanti di filosofia e di teologia verso le idee e i fatti nuovi e le innovatrici esigenze incalzanti in quest’ultimo volgere di secolo: soprattutto poi, quando le critiche sono dirette contro il rigido e ottuso dommatismo dei maestri di teologia” [4].

“Come vanno le cose a Tubinga?” – chiede Hegel a Schelling in una lettera scritta poco dopo aver lasciato lo Stift – “Se prima non vi siede in cattedra qualcuno come Reinhold o Fichte, non succederà niente di serio. In nessun altro luogo si riproduce così fedelmente il vecchio sistema; e sebbene non ha più influenza sulle singole teste ben salde, si afferma però sulla maggioranza, sulle teste meccaniche” [5]. Certo le idee dell’illuminismo e le nuove tendenze kantiane della filosofia erano penetrate anche attraverso la rigida censura preventiva dello Stift e tuttavia, come scrive Schelling in una nota lettera a Hegel, “ignoranza, superstizione e fanatismo avevano preso gradatamente la maschera della moralità e – cosa di gran lunga più pericolosa – la maschera dell’illuminismo”, tanto da far temere che, continuando così, gli studenti avrebbero preferito “tornare indietro ai tempi della più crassa oscurità; infatti il cerchio che essa descrive è vasto in confronto alle barriere che quel mezzo illuminismo ci ha tracciato”. Le conclusioni di Schelling sono sconfortanti: “non si volevano teologi, filosofi dotti, ma solo creduli moralmente, che rendessero l’irrazionale razionale e disprezzassero la storia” [6].

Si tratta di una descrizione tracciata in qualche modo con il senno di poi, da uno studente geniale che – negli ultimi tempi della sua permanenza al collegio – avvertiva ormai drammaticamente tutti i limiti dello Stift [7]. Il corpo insegnante e il clima culturale di Tubinga non erano probabilmente tanto catastrofici quanto potevano considerarli studenti che, dopo aver aderito in maniera entusiasta alla Rivoluzione francese e ai rivolgimenti nel modo di pensare prodotti dalla filosofia kantiana, dovevano sentirsi estranei a un sistema formativo ai loro occhi decisamente inadeguato e stantio. Per quanto riguarda la radicale trasformazione della personalità del giovane Hegel, fortemente segnata dagli sconvolgimenti politici e culturali di questi anni, ha osservato Franz Rosenzweig, commentando lo scambio epistolare di Hegel con Schelling: “nelle lettere che il filosofo scrisse tra la fine del 1794 e l’inizio del 1795 lo vediamo in polemica con l’ortodossia protestante; l’appassionato entusiasta di grecità si è trasformato in un rivoluzionario moderno. La polemica contro l’ortodossia diventa, almeno indirettamente, lotta contro lo Stato del suo tempo” [8]. Del resto, come ha ricordato T.L. Haering, studente allo Stift e spirito critico che si richiama all’illuminismo furono per lungo tempo sinonimi nel Würtemberg

Certo, i primi due anni dedicati allo studio della filosofia non hanno lasciato segni di rilievo nella formazione del pensiero hegeliano; è, tuttavia, grazie al magistero di insegnanti come J.F. Flatt e, in misura minore, Abel che il giovane Hegel entra quasi subito in contatto con la filosofia kantiana. A proposito di Flatt, già Karl Rosenkranz sosteneva che fosse “da prendersi attentamente in considerazione quale maestro di Hegel, in quanto fu uno dei più aperti ed intelligenti oppositori di Kant” [9].

Allo stesso modo nella facoltà di teologia si annoveravano fra docenti di Hegel alcuni dei più noti rappresentanti del “soprannaturalismo biblico”, che intendevano salvaguardare questa roccaforte dell’ortodossia evangelica dai pericoli costituiti dalla teologia di stampo illuminista e dal deismo della religione naturale e razionale [10], senza – tuttavia – sfuggire dal confronto con autori quali Kant e Fichte, ormai entrati nel patrimonio culturale dell’epoca.

G.C. Storr, teologo protestante di un certo rilievo, fu certamente l’insegnante di maggior spessore con cui ebbe a che fare Hegel allo Stift. Anche perché, all’interno dello Stift, la pretesa di Storr di sviluppare “più coerentemente” i principi di Kant, nel tentativo di recuperare, sulla loro base, “il fondamento soprannaturale della ortodossia, e di mostrare ulteriormente che questa non è incompatibile con la dottrina del criticismo” [11], faceva, per così dire, scuola, esercitando una decisa influenza su diversi membri del corpo docente [12]. Così, per esempio, a proposito di Süskind, Lacorte ha messo in rilievo come la sua opera miri “ad inserire nel complesso delle proposizioni e verità pratiche che costituiscono il fondamento della religione «oggettiva», e tra i principi aventi reale influsso pratico nella determinazione della volontà (il riconoscimento dei quali costituiva il carattere «soggettivo» della religione) non solo i «meri» postulati della Vernunftreligion, bensì tutto il contesto delle verità rivelate” [13]. Storr – deciso assertore del carattere soprannaturale dellarivelazione, la cui autorità riteneva che impedisse ogni distinzione all’interno delle scritture – intendeva con ciò difendere l’ortodossia dagli attacchi delle teologie illuministe che non si peritavano di sottoporre al vaglio critico l’intero Canone, distinguendo nettamente tra Antico testamento, in cui dominerebbe ancora la positiva cultura ebraica, e Nuovo testamento in cui si esprimerebbe una cultura universalista e cosmopolitica. È evidente, a chiunque abbia una pur superficiale conoscenza degli scritti di questi anni, che le simpatie di Hegel dovevano andare agli assertori della libera interpretazione dei testi sacri; nulla poteva in effetti apparirgli più estraneo di una teologia fondata su di un’autorità sovrannaturale.

È proprio l’esigenza di criticare le tesi dell’ortodossia protestante dello Stift a costituire uno dei fili rossi che consentono di comprendere le frammentarie riflessioni di questi anni

Se per esempio Storr, di fronte alle incursioni della filosofia illuminista e kantiana, tendeva a giustificare il soprannaturalismo riconoscendo la valenza fondamentale di miracoli e profezie, Hegel ne sarà critico acerrimo, sostenendo la necessità di purificare la religione dagli elementi positivi che ne inficiano il valoreuniversale [14]. Hegel riprende la distinzione fra religione pubblica e privata tanto dalla filosofia critica, quanto dalla teologia illuminista, che aveva appunto distinto una credenza privata – fondata sulla libera interpretazione delle scritture – da una pubblica, che in qualche modo doveva fissare un canone, indispensabile alla penetrazione della fede nel popolo. Infine, il tentativo compiuto da Storr di trovare un valido sostegno alle sue tesi sull’inadeguatezza della ragione teoretica a portare luce nel campo propriamente divino del soprannaturale – il quale cade necessariamente al di là del limite posto dal criticismo al sapere – fornirà a Hegel la possibilità di un prima esplicita presa di distanza da alcuni aspetti della filosofia critica.

 

Note:

[1] G.W.F. Hegel, Epistolario I(1785-1808), tr. it. di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983, p. 111.

[2] C. Lacorte,Il primo Hegel, Sansoni, Firenze 1959, p. 173.

[3] R. Finelli, Mito e critica delle forme. La giovinezza di hegel (1770-1801), Editori Riuniti, Roma 1996, pp. 22-23.

[4] C. Lacorte, op. cit., p. 123.

[5] G.W.F. Hegel, op. cit., p. 104.

[6] Ivi, pp. 121-22.

[7] Come ha osservato a ragione D. Henrich in Leutwein über Hegel, «Hegel-Studien», 3, p. 75, il carteggio con Schelling e Hölderlin degli anni 1794-96, come del resto il presunto frammento relativo alla Volksreligion, devono essere considerati non tanto e non solo un documento sul periodo trascorso dai tre nel collegio di Tubinga, quanto – piuttosto – come il risultato degli studi e delle esperienze lì fatte.

[8] F. Rosenzweig Hegel e lo stato [1920], tr.it., Il Mulino, Bologna 1976, p. 42.

[9] K. Rosenkranz, La vita di Hegel [1844], tr. it., Firenze 1964, p. 47.

[10] La religione “naturale”, osserva Lacorte, “è raccostata alla religione razionale in quanto anche la prima si fonda sul principio di un sovrannaturale presente «nella» coscienza umana, e viene parimenti opposta (e tuttavia non in maniera irriconciliabile, in quanto possa eventualmente sussistere il reciproco accordo di contenuto e di scopo) alla religione «rivelata», la quale è fondata invece sul principio di un soprannaturale posto «fuori di noi»” C. Lacorte, op. cit. p. 230. Tuttavia, mentre la religione naturale – di cui la Professionedi fede del vicario savoiardo di Rousseau (contenuta nell’ottavo capitolo del quarto libro dell’Emilio) rappresenta l’esempio più radicale – contrapponeva la coscienza naturale del divino, propria dell’intimità della coscienza morale del singolo individuo, a una religione statutaria, fondata su canoni e gerarchie ecclesiastiche, la religione razionale, la cui espressione più elevata è riscontrabile nei postulati della Dialettica della Ragion pratica, pur condividendo la fondazione della religione nella presupposizione della coscienza morale, aveva sottratto quest’ultima alla sfera del sentimento per ricondurla alla pura razionalità. Come vedremo, negli scritti di questi anni, Hegel fa tesoro di entrambe queste tradizioni, cercando il più possibile di comporle.

[11] C. Lacorte, op. cit., p. 167.

[12] Come ricorda Finelli, “nel senso di tale sovrannaturalismo, di una verità cioè che non nasce dalla e nella ragione, bensì che è generata al di là della ragione, andava letto e usato, secondo Storr, anche il criticismo kantiano, che fa divieto all’intelletto umano d’assumere a proprio oggetto l’ambito della metafisica e del sovrasensibile, data la sua strutturale limitazione di conoscenza ai fenomeni attingibili sensibilmente. La religione naturale, fondata sulla ragione, non è dunque vera religione. Tale è solo la religione rivelata, che è contemporaneamente sovrannaturale e positiva: poiché è rivelazione della verità di Dio che si esprime in testi e documenti, ben determinati e definiti, che cadono nella storia” R. Finelli, op. cit., p. 22.

[13] C. Lacorte, op. cit., p. 219.

[14] A proposito dell’etimologia del concetto di positivo, interessante è quanto scrive De Negri: “il termine «positivo» proviene dall’antico diritto canonico, col significato di diritto pratico, e quindi diritto la cui efficacia è presidiata da vari elementi, diversi nello spazio e nel tempo, e perciò estranei e talora opposti al diritto naturale” E. De Negri, I principi di Hegel. Introduzione, traduzione e commento, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 2 nota 1. Tale distinzione era stata al centro di due opere che hanno svolto un ruolo decisivo nella formazione del concetto hegeliano di religione: Nathan il saggio di Lessing e la Professione di fede di un vicario savoiardo di Rousseau.

28/05/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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