Parmenide e l’origine della scienza della logica

Con Parmenide il metodo, il linguaggio e il procedimento scientifico assumono un carattere rigoroso con cui tutti i pensatori seguenti dovranno fare i conti.


Parmenide e l’origine della scienza della logica

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Vita e opere

Oggi si riconosce quale autentico fondatore della cosiddetta scuola eleatica il “venerando e terribile” Parmenide, come lo definirà Platone, suo ideale discepolo. Nato a Elea nel Cilento verso il 515 e fiorito nella prima metà del V secolo a.C. dell’epoca precedente la nostra, Parmenide avrebbe fatto secondo Platone un viaggio ad Atene insieme al suo discepolo Zenone. Il suo presunto soggiorno ad Atene è raccontato da Platone nell’omonimo dialogo il Parmenide e viene considerato da Socrate e dagli altri esponenti della cultura ateniese come un evento memorabile, visto che la sua concezione del mondo era all’epoca una delle più quotate. Il pensiero di Parmenide è molto innovativo e la sua influenza sul pensiero greco successivo sarà enorme. 

La novità della visione del mondo di Parmenide 

Sia i fisici della Ionia sia i pitagorici si proponevano di spiegare la molteplicità delle cose osservabili, riconducendola a un principio fondamentale. La filosofia di Parmenide, invece, non intende spiegare la molteplicità delle cose osservabili: intende negarla. Parmenide, in effetti, mette radicalmente in discussione la realtà delle cose di cui facciamo esperienza – le cose che vediamo, sentiamo e tocchiamo – e sposta l’attenzione su una categoria che avrà un enorme successo nella filosofia dei secoli successivi: l’essere, dando vita all’ontologia.

Identità di essere e logos

Centrale è l’identità di essere, ovvero la realtà oggettiva, del pensiero che la conosce e del linguaggio che la esprime. Per Parmenide l’ordine del mondo coincide con l’ordine del pensiero. Altro aspetto fondamentale è la revisione del metodo razionale: come per gli ionici e per i pitagorici, anche per Parmenide la ricerca del pensiero va condotta secondo un metodo razionale, ovvero attenendosi a criteri di correttezza e coerenza logica, ma Parmenide lo intende in modo più rigoroso. Per gli ionici e i pitagorici, il metodo razionale consisteva nel partire dall’osservazione delle cose che ci circondano – come la vita degli organismi sulla terra o i movimenti degli astri nel cielo – e da lì procedere per ragionamenti cercando di individuare il principio fondamentale di tutte le cose. Invece per Parmenide l’osservazione delle cose che ci circondano – l’esperienza resa possibile dai sensi – non è un punto di partenza adeguato: la ragione deve basarsi solo su se stessa, senza fare affidamento all’esperienza. Soltanto in questo modo il metodo razionale potrà condurre il filosofo alla conoscenza della verità, mentre l’esperienza ci fornisce solo opinioni inaffidabili e fuorvianti.

Verità vs opinione

Quindi due sono le forme del conoscere: 1) il pensiero, che conosce la realtà per ciò che essa è, ovvero l’essere, corrispondente al piano della verità (alètheia); 2) i sensi, che restano all’apparenza, in quanto le cose si presentano ai sensi come mescolanza di essere e di non essere: è il piano dell’opinione (doxa).

La critica alle filosofie del molteplice e del divenire 

Data la vicinanza di Elea ai maggiori centri del pitagorismo, è indubitabile che Parmenide subisce, in forma più o meno diretta, l’influenza di questo indirizzo di pensiero. Si ritiene oggi che la critica di Parmenide sia rivolta in generale contro tutte le filosofie ioniche e italiche del molteplice e del divenire, di cui egli rileva acutamente la contraddittorietà: nel tentativo di spiegare razionalmente la realtà e di modellare la ragione sui dati dell’esperienza, tali filosofie devono ammettere una serie di opposizioni e di alterità di cui però si assume la coesistenza, cadendo così in contraddizioni logiche.

La questione del metodo da seguire per raggiungere la verità 

Ora – osservava Parmenide – con un rigore logico sconosciuto agli antichi pensatori che critica: se di una qualsiasi cosa si dice o si pensa che “è”, di ciò che è diverso od opposto a essa si dovrà dire o pensare che “non è” e com’è possibile riconoscere realtà alcuna e pensare ciò che non è, se non si vogliono violare le leggi immutabili del discorso e del pensiero? La grandezza della filosofia di Parmenide sta proprio qui: nell’aver individuato, nella sua radice filosofica, l’ambiguità della speculazione ionica e italica e nell’aver posto in primo piano il problema della verità del linguaggio e del pensiero, il problema della “via”, ovvero del metodo, che linguaggio e pensiero devono percorrere per giungere alla realtà. Il metodo corretto costruisce conoscitivamente la realtà, l’essere, perché elimina gradualmente dal pensiero tutti i contrassegni di irrealtà, di non-essere, che vi si sono infiltrati. 

Il poema di Parmenide 

Parmenide scrive un poema filosofico cui è stato dato il titolo Sulla natura, di cui ci sono pervenuti alcuni interessanti frammenti che, integrati da varie testimonianze, ci permettono di ricostruire almeno in parte il suo pensiero. Perché Parmenide si serve della lingua poetica? Sicuramente è un espediente tipico della cultura orale, è più facile da ricordare e Parmenide si trova nel momento di passaggio tra la cultura orale e quella scritta. È un espediente, come le immagini mitologiche-religiose di cui si serve per far comprendere la sua rivoluzionaria concezione. Il poema di Parmenide rappresenta una rottura sia con il sapere sacerdotale che con il senso comune. Del suo poema possediamo in totale 154 versi: ci resta il proemio integralmente, diversi brani della prima parte dedicata alla verità e scarsi frammenti della seconda parte dedicata all’opinione.

Il proemio costituisce la cornice narrativa del poema, dove l’autore immagina di essere portato su un carro al cospetto della dea, la quale gli spiega quali sono le sole vie di ricerca pensabili: una è quella della ragione, che conduce alla verità, l’altra è quella dell’opinione che risulta inaffidabile. Il viaggio è un viaggio allegorico, rappresenta il cammino verso la verità e la conoscenza.

Il viaggio verso la conoscenza 

Parmenide salito su un carro, che potrebbe rappresentare l’anima, è trascinato dalle cavalle, che potrebbero rappresentare il desiderio di conoscenza del filosofo, verso l’alto, verso la luce, verso la verità, abbandonando “le case della notte”, ovvero il mondo dell’opinione. L’aiuto divino necessario a intraprendere il viaggio è accordato solo all’“uomo che sa”, ovvero al filosofo.

La porta della sapienza rappresenta il bivio che si apre al filosofo, tra verità e opinione, ne è guardiana Dike, la dea della giustizia che rappresenta la ragione, l’indagine filosofica e indica il legame tra conoscenza e virtù. L’impegno conoscitivo è anche etico. La giustizia in quanto la legalità che governa l’intero essere ha le chiavi che aprono e chiudono

Le due vie 

La dea fa appello all’intelligenza di Parmenide e gli espone i due possibili sentieri della conoscenza: “l’una che dice che è, e non è possibile che non sia” l’altra “che non è, e non è possibile che sia”. L’essere è necessariamente uguale all’essere, il non essere al non essere. Parmenide getta le basi per lo sviluppo del principio d‘identità. Mentre l’essere non può esser posto uguale al non essere, come ciò che non è non può al contempo essere, in quanto qualcosa non può essere al contempo se stessa e il proprio contrario. Parmenide getta così le basi al principio di [non] contraddizione. Il pensiero, quindi, può pensare soltanto l’essere, perché il non essere non c’è (negazione assoluta), non è consistente, il discorso sarebbe privo di senso, in particolare sulla base della identificazione tra essere-pensiero-linguaggio, ovvero sull’identificazione tra piano logico e ontologico.

Per comprendere il ragionamento di Parmenide bisogna soffermarsi sull’utilizzo del verbo “essere”. Nell’uso comune il vero essere ha una funzione esistentiva ad esempio “una mela è” nel senso che esiste, o copulativa, in quanto lega il soggetto a un nome o ad un aggettivo, ad esempio “la mela è rossa”. In entrambi i casi si ha a che fare con situazioni contingenti, in cui cioè è possibile il contrario (la mela non c’è perché la mangio, oppure è gialla o verde). Quindi sul piano dell’esistenza le cose sono e non sono. Perciò non sono oggetto di scienza.

Ma dov’è l’essere, dov’è l’essere dell’ente che non muta ed è sempre identico a sé? Sul piano sovrasensibile, ovvero sul piano universale dell’intelletto fondato sul principio di identità e non contraddizione, mentre sul piano sensibile le cose sono e non sono, vi è una mescolanza di essere e non essere. L’essere, quindi, non è quello contingente, ma quello necessario, quello cui solo l’intelletto può attingere, che a differenza di tutte le cose osservabili esclude la negazione. Quindi Parmenide lo designa con un sostantivo ricavato dal verbo essere (to on) da cui deriva il termine ontologia, ovvero la ricerca filosofica sull’essere.

Le caratteristiche fondamentali dell’essere 

Quali sono gli attributi dell’essere? È chiaro che bisogna rifiutare tutto ciò che comporta il non essere, quindi l’essere è: 1) ingenerato, in quanto se fosse generato prima non era; 2) imperituro, in quanto se ammettessimo che in un certo istante finisse non sarebbe più, trapassando nel non essere; 3) unico, in quanto se ipotizzassimo che ci sia qualcos’altro oltre l’essere, dovremmo ammettere l’esistenza di un essere che non è l’essere; 4) omogeneo, perché se fosse in sé differenziato, ovvero diviso in parti, ciò implicherebbe intervalli di non essere, ovvero il vuoto; 5) immutabile e immobile, perché il mutamento implica il cambiamento, quindi sarebbe ciò che non è; 6) eterno, perché se fosse nel tempo implicherebbe un passato in cui non era e un futuro in cui non è ancora; 7) finito (e sferico), perché il finito rappresenta la compiutezza, la perfezione, come sostenuto già dai pitagorici; 8) necessario, perché non può non essere.

L’opposizione fra essere e non-essere

Partito dal riconoscimento logico e metodologico delle esigenze del pensiero e del discorso, Parmenide giunge al culmine della “via” a dichiarare, dunque, l’impensabilità, l’inesprimibilità e l’inesistenza del non-essere, e la parimenti assoluta esistenza dell’essere, che condiziona la possibilità di pensare e di dire il vero. All’Essere non potrà venir riferito – sempre per l’opposizione or ora accennata – alcun attributo, che possa in qualche modo diminuirne la positività, assimilandolo in tal modo al non-essere. Ci si dovrà limitare a dire che esso è uno, invariabile, immobile ed eterno.

I rischi della conoscenza empirica 

D’altra parte, essendo conoscibile soltanto mediante l’intelletto, l’essere non può risultare oggetto di esperienza, non può coincidere con qualcosa che si osserva. Allora come si può conciliare la concezione parmenidea dell’essere col fatto incontrovertibile che l’esperienza ci presenta a ogni piè sospinto degli esseri molteplici, variabili, temporanei? Di fronte a questo stato di cose – risponde Parmenide – non vi è altro da fare che respingere la nostra spontanea fiducia nell’esperienza, riconoscendo che essa costituisce per l’uomo una via di conoscenza fallace e illusoria, opposta alla scienza. 

Il mondo del divenire 

Al mondo dell’esperienza è appunto dedicata la seconda parte del poema di Parmenide. Confutate “le opinioni dei mortali”, quali si erano espresse nelle precedenti cosmologie naturalistiche basate sul divenire, Parmenide non rinuncia tuttavia a costruire una propria spiegazione di questo mondo, di cui aveva dichiarato la radicale inconsistenza dinanzi all’assoluto essere.

Un’ontologia razionalista 

Per Parmenide solo la ragione è un mezzo di conoscenza veramente efficace; solo essa, rompendo la crosta delle apparenze, può farci cogliere l’unità profonda del reale. L’opposizione tra razionalismo ed empirismo, che tanti sviluppi avrà nella storia della filosofia, trova proprio qui la sua prima radice. L’interpretazione coscienzialista è, d’altra parte, esclusa perché se il pensiero scopre l’essere, certamente non lo crea; anzi è piuttosto l’esistenza dell’essere a rappresentare la possibilità e la condizione del pensiero, che in esso culmina e con esso deve identificarsi.

04/06/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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