Benché nella Repubblica democratica tedesca Bertolt Brecht abbia potuto disporre di mezzi economici e umani impensabili per un drammaturgo del mondo occidentale, incontrò non poche difficoltà. Gran parte della critica in questo paese nascondeva, infatti, sotto una patina di progressismo, una concezione del teatro sostanzialmente conservatrice e, di conseguenza, da subito ostile alle concezioni brechtiane. Non potendo mettere sotto processo i drammi di Brecht, che incontravano un discreto successo di pubblico, gli attacchi si concentrarono sulla più vulnerabile teoria. Molte di queste critiche si limitavano a mettere sotto accusa le definizioni di teatro epico e di drammaturgia non-aristotelica, che si prestavano meglio alla liquidazione dell’esperienza brechtiana come un formalismo avanguardistico che aveva rotto tutti i ponti con il passato. Molti dei nemici di Brecht celavano la superficialità dei loro attacchi dietro l’autorità di Gyorgy Lukács, che aveva criticato negli anni trenta alcuni aspetti dell’opera brechtiana.
Le critiche e le incomprensioni incontrate ebbero come risultato di rendere urgente per Brecht una profonda revisione critica della passata produzione artistica e teorica. Questa fase andrebbe considerata, dunque, come una fase di passaggio, in cui Brecht avrebbe inteso gettare le basi per il lavoro futuro. Di questa fase ci restano scritti molto frammentari e dovremo affidarci principalmente a quanto ci hanno trasmesso a riguardo alcuni suoi collaboratori.
Negli anni cinquanta, come ci è testimoniato da Manfred Wekwert e da Käthe Rülicke, Brecht si proponeva di rivedere la sua teoria drammatica ponendo maggiore attenzione ai suoi aspetti dialettici. Benché non intendesse rinunciare alla sua passata riflessione sulla drammaturgia epica, in cui non era certo assente la componente dialettica, egli ne avvertiva chiaramente le insufficienze. Riteneva, infatti, lo stesso termine episches Theater troppo formale [1].
Così Brecht, in parte per difendere i punti deboli della sua teoria, in parte per far emergere le relazioni delle sue idee con la tradizione, in parte, infine, per ricucire la polemica con Lukács – di cui in questi ultimi anni aveva accettato almeno parzialmente le critiche – si ripropose di sostituire la definizione di teatro epico con un’altra maggiormente appropriata al nuovo compito espressivo e meno atta a creare equivoci. Il termine sostitutivo ideato da Brecht, “teatro dialettico”, si dimostrò ben presto non solo altrettanto insufficiente a definire la sua concezione dell’arte drammatica, ma anche altrettanto ambiguo. Ben diverse erano, infatti, le interpretazioni date alla dialettica da Brecht e dalla intellighènzia ufficiale che, anche in DDR, era condizionata dal dogmatismo del Diamat.
Tuttavia, pur non potendo individuare un termine veramente appropriato a sostituire quello di epico, il problema della sua insufficienza permaneva e, anzi, in un certo senso la sua ricerca era resa sempre più urgente dalla tarda riflessione di Brecht su quegli autori che tra diciottesimo e il diciannovesimo secolo si erano interrogati sulla relazione che doveva intercorrere tra arte drammatica e narrazione epica. La questione se fosse possibile rimettere in discussione la netta bipartizione della tradizione aristotelica tra drammatico ed epico era stata al centro del carteggio tra Schiller e Goethe ed era presente nella stessa estetica di Hegel, nel difficile equilibrio ivi ricercato tra l’adesione alla poetica classica dei generi e le nuove esigenze della rappresentazione artistica tematizzate dalla poetica romantica.
Brecht aveva trovato conferma in queste eminenti riflessioni dell’importanza della questione da lui stesso presa in esame: come era possibile sottomettersi all’esigenza di una trattazione epica imposta dai nuovi contenuti conservando, però, le caratteristiche fondamentali attribuite dalla tradizione al genere drammatico, ovvero la sua capacità di sintetizzare e di dare rappresentazione sensibile a quei contrasti ideali che caratterizzano e vivificano le relazioni interumane?
La tarda riflessione di Brecht sull’arte drammatica era, infatti, costretta a muoversi tra due necessità egualmente sentite, ma sostanzialmente opposte. In altri termini, Brecht avvertiva l’esigenza, ereditata e dalla Poetica aristotelica e dall’estetica hegeliana, di un dramma che, come genere ultimo dell’evoluzione storica, fosse in grado di ricomprendere al suo interno l’essenziale momento narrativo del genere epico, purificandosi però gli elementi più estranei alla sua essenza: le maggiori concessioni fatte dall’epico all’irrazionale e alla disparità del materiale, che opponevano una perpetua resistenza alle necessità di coerenza dell’opera drammatica.
Non bisognava però dimenticare il rischio che necessariamente correva questo tentativo di ricomposizione drammatica: la sua tendenza a sacrificare alla produzione di un dramma bello, alla sua stessa pienezza e completezza espressiva il dover essere morale della ricerca, finendo così per occultare dietro le esigenze di totalità, concordanza interna e perfezione formale, la discordanza ineliminabile del reale, le tendenze disgregatrici dell’epoca moderna, limitandosi a opporre un’artificiosa armonia e verità al “morbo” beffardo e disgregatore di quello scetticismo assoluto appena velato dal piatto prosaicismo del quotidiano.
La ricomposizione, dunque, appena raggiunta, doveva essere immediatamente rimessa in questione dall’ironia. Lo scetticismo dialettico che caratterizza così profondamente questo autore lo porta sempre a individuare nel punto di rottura del precario equilibrio esistente la possibilità di una nuova soluzione.
Per Brecht, infatti, “il vero servizio che la dialettica può rendere consiste nel permettere di operare con unità contraddittorie. Cioè non soltanto essere relativistici. La dialettica anzi costringe addirittura a scovare in tutti i processi, istituzioni, idee il conflitto e a utilizzarlo” [2]. Del resto, per Brecht “la trasformabilità del mondo si fonda sulla sua contraddittorietà” [3]. Così la contraddizione, essendo l’elemento chiave che permette di riconoscere la totalità come sinteticamente articolata, è considerata da Brecht come lo strumento più importante offerto dal pensiero dialettico per interpretare la realtà.
Nell'agosto del 1956, dunque solo pochi giorni prima della sua morte, Brecht confidava ai suoi collaboratori di essere ancora alla ricerca di una nuova formulazione per la sua teoria. Egli la avvertiva come impellente a causa delle profonde incomprensioni che fino ad allora avevano impedito un’adeguata ricezione della sua opera. Aveva scelto come categoria fondamentale di questa progettata revisione, come è testimoniato da Manfred Wekwert, la categoria di “ingenuo”.
Queste testimonianze ci indicano le due direzione principali su cui Brecht intendeva muoversi per risolvere alcuni difetti della sua frammentaria teoria e alcuni errori della Forschung che, in seguito, avrebbero pesato in maniera decisiva sulla Wirkungslosigkeit della sua opera. Dunque, non si trattava unicamente della scoperta di nuove categorie estetiche che avrebbero dovuto costituire il cardine della futura opera di Brecht. Egli, infatti, le considerava strutture portanti della sua opera, non ancora pienamente esplicitate sul piano della teoria. Brecht giustificava, per esempio, il poco spazio dedicato alla componente naïf nei suoi scritti sostenendo di averla considerata come ovvia per il ruolo chiave che occupava nella sua intera produzione. Tuttavia, è maggiormente credibile che si sia trattato di elementi, certamente impliciti nell’opera, dei quali solo allora Brecht aveva cominciato a prendere piena coscienza.
Brecht considerava la Naivität una struttura rappresentativa indispensabile per conseguire la semplicità della rappresentazione. Tuttavia non si trattava di una semplicità immediata, come hanno sostenuto diversi critici, ma di una semplicità che per essere raggiunta richiedeva l’impiego anche dei più complessi mezzi poetici. La riduzione della complessità, come precisava Brecht, non andava infatti confusa con la Undifferenziertheit [4]. Tale riduzione non comporta affatto una qualche astrattezza intellettualistica, quanto un massimo di concretezza. Brecht riteneva, infatti, il naïf la categoria estetica più concreta. Benché spesso la critica non abbia analizzato questa connessione, anche per l’irrigidimento dogmatico subìto dalla dialettica nei paesi dell’est, qui è possibile vedere come l’esigenza del recupero del naïf si incontri con quella del recupero della dialettica.
La dialettica poteva favorire la mediazione tra l’astrattezza della scienza e l’immediatezza del godimento estetico, consentendo all’opera di farsi mediatrice di conoscenze in modo vivo e piacevole. Il godimento estetico sarebbe stato, così, il risultato di un apprendimento divertente. Dunque, il procedimento dialettico per Brecht non aveva nulla a che vedere con le vuote astrazioni dell’intelletto, ma era strettamente connesso al sentimento. La dialetticità del procedimento estetico brechtiano e la Naivität, richiesta anche come nuovo atteggiamento dello spettatore, erano quindi strumentali alla presentazione di immagini il cui godimento fosse possibile in maniera ingenua, cioè immediata, benché esse fossero il risultato di un processo estetico molto complesso in grado di mediare elementi conoscitivi.
Note:
[1] Cfr. Bertolt Brecht, Gesammelte Werke, Suhrkamp in collaborazione con E. Hauptmann, Frankfurt a.M. 1967, vol. 16, p. 869.
[2] Id., Diario di Lavoro, tr. it. di B. Zagari, Einaudi, Torino 1976, 22.1.42.
[3] Id, Gesammelte…, op. cit., vol. 9, p. 25.
[4] Si trattava dunque di una semplicità strutturale del tutto opposta al naturalismo. Solo attraverso la rigorosa selezione dei fatti compiuta dal narratore era, infatti, possibile fare del passivo spettatore del naturalismo un “consumatore produttivo”.