Film piacevole, non foss’altro che per l’alto livello della fotografia, degli attori e della loro direzione, ma certamente non bello nè tantomeno imperdibile. Per quanto godibile, lascia allo spettatore poco da pensare ed un certo amaro in bocca per i buoni ingredienti sprecati in un film che aliena la propria anima alla forma. L’enfasi posta sull’abilità formale non rende il film capace di andare al di là di una rappresentazione tutto sommato superficiale del proprio mondo storico.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Voto 7 [1]
Il film inizia con una canzone pop, una pura opera culinaria di intrattenimento in stridente contrasto con la musica ultra sofisticata esibita per gran parte del resto della pellicola, volta a esibire fin troppo l’ambientazione classicista della storia narrata. Tanto la musica quanto il film, pur essendo indubbiamente godibili, sono troppo artatamente sottolineati, per cui non si può che denunciarne il secentismo programmatico. In generale il formalismo del film risulta tanto gradevole quanto fastidioso, la messa in scena e le riprese sono troppo compiaciute, tanto che il tutto appare troppo carico, esplicito e artificiale. Certo, nel film vi è un evidente e sottolineato effetto di straniamento che favorisce una fruizione distaccata e riflessiva, anche se la sua finalizzazione in chiave estetizzante resta tuttavia fastidiosa. Anche i dialoghi, quasi sempre interessanti, sono privi di reale sviluppo, rappresentano dei bozzetti anche notevoli, ma fini a se stessi, mancando nel film qualsiasi prospettiva, storica politica e sociale [2].
Il tono leggero del film, a partire dai dialoghi e dal raffinato cast, è indubbiamente sofisticato ma al contempo estremamente fragile. Come fragile appare la trama, incentrata su un protagonista alle prese con la rielaborazione del rapporto con la moglie, che si innesca con la necessaria rielaborazione del lutto. Manca però qualsiasi dimensione storica al dramma tipicamente borghese messo in scena, considerato anche che il regista, più che ad approfondire la trama, pare sempre più interessato a guardarsi in modo lezioso la lingua. Particolarmente fastidioso è il richiamo, del tutto gratuito, una mera trovata, alla figura di Hitler, come del tutto fuori luogo è la dedica finale ad un autore come Francesco Rosi che ha fatto, al contrario, un cinema storico e impegnato. In tal modo la storia dell’artista protagonista del film, che non a caso vanta la frequentazione di Stravinskij senza averne ereditato però il genio e l’ironia, appare priva di sviluppo, incapace di aprire una qualsiasi prospettiva.
Tra i film di Sorrentino Youth – La giovinezza è sicuramente migliore di This Must Be The Place e peggiore de Il divo, film che resta, nonostante tutti i limiti, certamente la sua opera più significativa. Se quest’ultimo film lasciava credere che il regista avesse ancora molto da dire e dare ora che, per la terza volta, tale speranza appare sfumata, lo spettatore riflessivo rischia di perdere la fiducia. Ciò non può che confermare, se ce ne fosse bisogno, l’attualità della celebre considerazione di Aristotele per cui un valido plot è indispensabile nella realizzazione di un’opera d’arte. Purtroppo, nelle sue ultime tre opere, Sorrentino, troppo preso dall’esigenza di fare presa sulla critica post-moderna imperante nei paesi a capitalismo avanzato, ha dimenticato questo necessario insegnamento. Il plot, infatti, in quest’ultimo film, come nei due precedenti, è inconsistente: un compositore e direttore d'orchestra in pensione apatico (Michael Caine) ed un vecchio regista suo amico (Harvey Keitel) che cerca di sfuggire al tempo che scorre continuando a lavorare come nel passato, trascorrono un periodo di vacanza in un lussuosissimo resort nelle Alpi svizzere; nelle lunghe passeggiate gli amici ricordano nostalgicamente il passato, come un’occasione sostanzialmente perduta, e discutono di aspetti piuttosto accidentali del presente. Oltre ai due vecchi amici, c’è un giovane attore in crisi (Paul Dano) e la figlia del compositore (Rachel Weisz) che non fa che ricordare al genitore come alla sua grandezza come artista non abbia corrisposto l’essere un buon padre. Completano la cornice una serie di personaggi poco significativi, che fanno da contorno e sono funzionali a far emergere i personaggi principali. La pochezza della trama e la poco più che discreta caratterizzazione dei personaggi non sembrano preoccupare il regista, tutto concentrato ad esibire e sottolineare costantemente le sue capacità formali, anche per non far riflettere troppo sull’accidentalità del contenuto della sua opera.
La giovinezza è più o meno ai livelli del comunque sopravvalutato La grande bellezza, che faceva il verso a La dolce vita, mentre qui il regista si ispira, in particolar modo, a 8 e mezzo. Certo, nei confronti di Fellini, Sorrentino appare decisamente un tardo epigono: Fellini è un’artista che fonda una nuova maniera di cui Sorrentino è un interprete tanto abile quanto fatuo. Ciò che manca del tutto è la sottile ma sferzante satira sociale di Fellini verso il mondo in cui è pur immerso, mentre Sorrentino non appare in grado di criticare se non, appunto, accidentalmente il piatto in cui mangia, prodotto da Mediaset group.
Ancora più imbarazzante è il paragone, ostinatamente sottolineato, con La montagna incantata, rispetto alla quale La giovinezza appare un’opera tutto sommato culinaria. L’ambientazione appare una citazione decisamente postmoderna del capolavoro di Thomas Mann, dal momento che il regista si limita a riprendere da La montagna incantata aspetti esteriori e stilistici, tutto sommato superficiali, smarrendone del tutto il grandioso spirito tragico. Sarebbe stato decisamente meglio evitare tale riferimento, che accentua, per contrasto, la vacuità dell’opera di Sorrentino. La giovinezza non è in grado di dar da pensare al suo spettatore nemmeno un centesimo di quanto faccia il grande romanzo filosofico di Thomas Mann. Basterebbe ricordare che ne La montagna incantata gli ospiti sono in un sanatorio, colpiti da una malattia fisica e morale, che ha profonde radici storiche e sociali, oltre che morali e culturali, da cui tali esponenti tipici della classe dominante non potranno sfuggire, se non cercando un’impossibile via di fuga nella prima guerra imperialistica mondiale. Gli ospiti del film di Sorrentino sono accidentalmente in villeggiatura in un resort di lusso. Ancora, per limitarci a un altro esempio, nel romanzo di T. Mann abbiamo una titanica lotta fra i portavoce dell’intellettualità progressiva e reazionaria che si battono in un epico duello per egemonizzare la gioventù, mentre nel film di Sorrentino nessuno appare in grado di fare egemonia, dal momento che i personaggi maturi non hanno nulla di sostanziale da lasciare in eredità, né ci sono giovani che valga la pena egemonizzare.
Nonostante ciò il film è tutto costruito sul rapporto vecchi-giovani; il regista, che appare sconvenientemente vecchio per la sua relativamente giovane età, si impersona nello sguardo dei primi, nell’ attitudine di superbo distacco dalla tragedia del mondo storico. Perciò il suo sguardo verso i giovani, che devono necessariamente fare i conti con tale mondo nella sua contraddittorietà, appare impietoso, al più paternalistico e, comunque, preconcetto. Questo rapporto privo di riconoscimento, si riproduce nello snobismo dell’intellettuale tradizionale, in cui Sorrentino si impersona, nei confronti dei rappresentanti della sottocultura pop “giovanile”. Fra la distaccata sofisticatezza dei primi e la cafonaggine dei secondi, qualsiasi possibilità di riconoscimento sembra negata. D’altra parte, la concezione della cultura è a tal punto elitaria e formalistica da apparire ai loro stessi occhi priva di vita, al punto da fargli rimpiangere l’“ingenuità” della sottocultura pop a cui, in ultima istanza, anche loro debbono paradossalmente il loro successo, nella società dello spettacolo in cui tutto è ridotto a merce.
Nel rapporto vecchi-giovani vi è, inoltre, una reciproca ammirazione unilaterale: i vecchi rimpiangono nei giovani le possibilità perdute, l’ingenuità per sempre smarrita, non avvedendosi che i giovani, in realtà, sono, come è giusto che sia, tutti intenti a superare tale stadio aspirando a conseguire la maturità. D’altra parte i giovani nei vecchi ammirano la ricercata maturità, l’agognata classicità dopo gli anni della scapigliatura romantica, anche se quest’ultima appare ormai completamente sussunta nelle logiche del mercato di stupefacenti a bassi costi per istupidire, se ancora ce ne fosse bisogno, la plebe sempre all’opra china. Certo, che quest’ultima sia priva di ideali e di speranza, di carica utopica, è anche comprensibile, vista non solo la condizione di oppressione e alienazione, ma anche l’assenza di intellettuali organici e l’attitudine conservatrice degli intellettuali tradizionali. Meno comprensibile è la totale assenza di idealismo e di carica utopica nelle giovani generazioni che dovrebbero essere intente a formare la propria autocoscienza ponendosi per sé in contrapposizione al proprio mondo. La loro attitudine nei riguardi dell’ambiente è del tutto priva di spirito di scissione, anzi appare riconciliata, come il messaggio mediato dalla poetica formalizzante di Sorrentino. Proprio perciò venendo a mancare l’inconciliabilità che porta l’individuo con i suoi ideali e speranze a entrare in contrasto con il proprio ambiente, tipica della giovinezza, invece di trapassare da questa alla maturità, la troppo scontata già in partenza riconciliazione con l’ambiente, mediante il riconoscimento della sua necessità oggettiva, porta direttamente lo stesso regista sulle soglie della vecchiaia con la sua classica ottusità.
Colpisce l’immedesimazione priva di straniamento di Sorrentino nell’anziano protagonista del suo film, che ha ormai sviluppato un distacco apatico verso il mondo storico e la tragedia che lo attraversa. Sorrentino finisce per avere una tenerezza acritica, anche se a tratti spiazzante, per il suo personaggio tanto delicato quanto apatico, con il suo fine pratico scetticamente rivolto all’atarassia o all’aponia epicurea. Ai suoi occhi non solo il mondo storico e politico ma la stessa torre di avorio della sua concezione dell’arte, sono considerate dal protagonista, alter ego del regista, come fonte di turbamento e ostacolo al raggiungimento dell’atarassia. Sembra di avere a che fare con un intellettuale dell’età ellenistica tanto raffinato, quanto alienato e autoestraniato nei riguardi di un mondo storico in cui non può riconoscersi, al punto che gli appare una vana fatica di Sisifo il tentare di modificarlo.
Nel film non c’è nessuna traccia del ribellismo che dovrebbe essere in qualche modo una caratteristica “naturale” della giovinezza. Anzi, i giovani, come del resto lo stesso Sorrentino, sembrano aspirare unicamente a divenire vecchi, non avvedendosi affatto della tendenziale affermazione in questa età dell’attitudine alla abitudine che ottunde. Di ciò non appaiono consapevoli né i giovani né il regista che finiscono per idealizzare proprio questa attitudine conservatrice che, da parte sua, non può che contraccambiare con una altrettanto ambigua estetizzazione della giovinezza, termine che, non a caso, rinvia agli anni bui del ventennio.
Note:
[1] All’inizio pensi: ci voleva il caffè, poi tutto sommato il film scorre e alla fine è certamente meglio che una pizza.
[2] Ad esempio il fantasma del comunismo appare unicamente nel Marx tatuato sul corpo di Maradona.
Dunque questo autore che tutte le indagini confermano fra i più attuali e capaci interpreti della nostra epoca, nel film è rappresentato solo sul corpo in decomposizione di un uomo che appare la caricatura del suo eminente passato. In ciò emerge il provincialismo snob del regista, il cui brescianesimo appare evidente nel livore verso un popolo che, piuttosto che il compositore europeo in pensione protagonista del film, continua ad ammirare quel “volgare” Maradona, proletario e lavoratore manuale.