Segue da “The New Pope” pubblicato nel numero precedente di questo giornale
The New Pope serie televisiva creata e diretta da Paolo Sorrentino per Sky, Usa e Italia 2019; il settimo episodio, tutto incentrato sulla “miracolosa resurrezione” del precedente papa, anche lui “santo subito”, è davvero pessimo. Innanzitutto per l’inverosimile guarigione immediata e poi, soprattutto, per il rimanere nascosto di Pio XIII nella casa del medico. Quasi tutta la puntata si incentra sui presunti poteri sovrannaturali di guarigione di cui godrebbe il “papa-santo”. Per il resto abbiamo un inverosimile attentato terroristico a San Pietro e una ridicola risposta del nuovo papa, con un semplice “no!”. Dovendo passare alla parte propositiva del suo discorso annuncia di passare a una vera e propria rivoluzione, attraverso una intervista a tutto campo, in diretta in mondovisione. Ma i propositi rivoluzionari vengono presto spazzati via dalle domande del giornalista, che colpisce i punti deboli di Giovanni Paolo III, ovvero il drammatico rapporto con il fratello morto, a cui ha scippato la sua famosa teoria della “via di mezzo”, e l’attitudine passiva del pontefice dinanzi ai continui scandali sessuali cui è soggetta la chiesa. Il papa, in evidente crisi di astinenza, in quanto da anni tossicodipendente, è costretto a interrompere precipitosamente l’intervista.
L’ottavo episodio non poteva che costituire una salutare ripresa, anche perché più in basso del settimo episodio non si poteva proprio andare. Più o meno lo stesso avviene per la chiesa cattolica romana che, con la nuova gestione di Giovanni Paolo III, aveva raggiunto il culmine del suo processo di progressiva putrefazione. Un papa eroinomane – responsabile fra l’altro della morte del fratello e della distruzione della sua stessa famiglia – che si è messo nelle mani di un gruppo di criminali, da cui si fa ricattare e che è giunto a licenziare l’eterno democristiano cardinal Voiello, vera e propria incarnazione dell’anima della chiesa, machiavellica e al contempo ipocrita. D’altra parte il suo sostituto in stile leghista non fa che accrescere le contraddizioni interne e rischia di far esplodere, con i suoi metodi estremisti, il crescente dissenso del personale femminile addetto alla cura delle alte cariche del Vaticano.
A recuperare la situazione ci pensa sostanzialmente il “Mr. Wolf” della situazione a cui ricorre Voiello per i “lavori più sporchi”. Quest’ultimo gli fa intendere che la sua ora sta per tornare e, per altro, lo assolve e si autoassolve dalla più grave colpa dell’uccisione del precedente papa, che sarebbe stata prevenuta da un nuovo “miracolo” di Pio XIII, che da santo persino in coma sarebbe riuscito, con la semplice mossa di un dito, a punire con la morte il “papa traditore” che voleva riportare la chiesa alla sua povertà originaria. A questo punto Voiello con due papi a cui offrire i suoi preziosi servigi, riesce a far allontanare il segretario di Stato leghista, riconquistando il suo ruolo di regista. A questo punto è Pio XIII che, con la sua reazionaria concezione di ribelle aristocratico, riesce a far rientrare la protesta delle suore, evitando di dar seguito alla linea repressiva precedente, ma convincendo le suore a rinunciare completamente a tutta la loro prospettiva di emancipazione della donna. Sostenendo che, nella chiesa, l’unica possibile conquista per la donna non è l’emancipazione, ma la disemancipazione degli uomini, per recuperare nel senso più reazionario la parità dei doveri.
Nella nona e ultima puntata abbiamo il tanto atteso incontro-scontro fra i due papi. Inizialmente sembra avere la meglio la posizione più apertamente reazionaria di Pio XIII, che pensa di poter fare affidamento su masse di fanatici. A favorirlo sembra esserci la guerra di religione con gli islamisti che, in modo del tutto inconsueto, sembrerebbero aver realizzato attentati terroristici contro simboli centrali della religione cattolica. Ciò favorisce lo spirito di crociata di Pio XIII che impone al debole Giovanni Paolo terzo la sua linea, che non solo accetta, ma rilancia la guerra di civiltà, convinto di poterla cavalcare. In realtà la provocazione nei riguardi dei terroristi ha risultati catastrofici, in quanto ne favoriscono gli istinti più irrazionali, che portano all’assassinio di un prete “buono”, come garantisce il segretario di Stato che afferma di sapere tutto sul clero. A questo punto il crociato Pio XIII comincia finalmente a comprendere i limiti della sua estremistica politica ultra reazionaria, che lo porta alla distopica restaurazione del potere teocratico del faraone, atteggiandosi a dio in terra.
Si arriva così al paradosso che devono intervenire i burattinai dei fondamentalisti islamici (i finanziatori del Golfo) per evitare la guerra di civiltà, dissociandosi completamente dagli attentati contro i simboli del cattolicesimo. Poi XIII da papa yankee lo interpreta come un segno di debolezza e decide di sfidare apertamente i terroristi che tengono prigionieri sei bambini. Il blitz riesce, in quanto emerge che i terroristi che avevano attentato ai simboli del cattolicesimo non sono altro che gli integralisti che venerano Pio XIII come un dio e accusano la chiesa di averlo tolto di mezzo. Tale del tutto inverosimile lieto fine, porta anche alla tardiva conversione di Pio XIII alla politica della via di mezzo di Giovanni Paolo III, che approfitta della situazione per recuperare la sua vita parassitaria nel suo maniero e può così anche realizzare il suo sogno d’amore terrestre.
Pio XIII finisce per essere estremista anche nella sua conversione, tanto che la “via di mezzo”, diviene per lui “l’unica via” e l’assoluta distanza dalla massa dei fedeli, si tramuta in una altrettanto irrazionale fusione mistica. Tanto che alla fine viene meno, lasciando così finalmente spazio all’aurea mediocritas di Voiello, l’uomo dietro le quinte che ora occupa il proscenio.
Per quanto significativo il parallelismo fra gli opposti fondamentalismi religiosi, resta il disprezzo snobistico del regista per le masse popolari, che appaiono pronte a seguire, senza porsi domande, il superuomo o presunto tale di turno. Tanto che prevale la concezione elitaria che la storia la farebbero esclusivamente i grandi individui, non perché sanno interpretare lo spirito del loro popolo, ma in quanto sono in grado di manipolarlo. Per questo la conclusione sconsolata e sconsolante, da dandy decadente, della serie non può che lasciare l’amaro in bocca.
Da 5 Bloods - Come fratelli, di Spike Lee, drammatico - USA, 2020 (su Netflix), voto: 5-; davvero deludente, sotto tutti i punti di vista, quest’ultimo film di Spike Lee, tanto che a tratti ci si chiede se sia realmente opera sua. Si tratta dell’ennesima rivincita postuma degli statunitensi, che non riescono ad accettare la cocente sconfitta in Vietnam, anche se vista dalla prospettiva degli afroamericani. Spike Lee, per quanto giustamente schierato contro il razzismo che subiscono gli afroamericani negli Stati Uniti, non arriva a comprendere che sino a quando questi ultimi saranno in maggioranza complici – in nome del socialimperialismo e della aristocrazia operaia – dell’imperialismo del proprio paese, non potranno mai essere veramente liberi da sfruttamento e oppressione. Esattamente come Marx ed Engels sostenevano a proposito del proletariato inglese il quale, sino a quando sarebbe stato complice del colonialismo inglese – in primo luogo nei confronti dell’Irlanda – non si sarebbe potuto emancipare dalle proprie catene. Da questo punto di vista la posizione di Spike Lee, esponente della borghesia afroamericana, si colloca agli antipodi di quella delle Black Panther, ossia è antitetica all’intuizione fondamentale di questi ultimi che gli afroamericani dovevano unirsi nella lotta con tutti i popoli oppressi dal colonialismo e imperialismo per conquistare la propria emancipazione.
La posizione del regista è in stridente contrasto anche con la ben più coraggiosa presa di posizione di Muhammad Ali – con cui pure si apre il film – che giustamente non poteva riconoscere nei vietnamiti il proprio nemico ma, piuttosto, nel proprio paese razzista. Posizione anche opposta a quella citata alla fine del film, che ricorda come Martin Luther King fu ucciso subito dopo aver preso finalmente posizione contro l’aggressione imperialista statunitense al Vietnam. Scelte coraggiose che i loro protagonisti hanno pagato pesantemente, un prezzo che – evidentemente – Spike Lee non intende pagare, in quanto troppo legato ai propri privilegi borghesi. Particolarmente paradossale è la conclusione, in cui l’oro rapinato in Vietnam da reduci dell’aggressione imperialista, attraverso una nuova strage di vietnamiti, viene in parte donato al movimento Black Lives Matter.
In altri termini, si crede di poter affermare che le vite degli afroamericani hanno un valore, mediante l’ennesima dimostrazione che per gli yankee le vite dei vietnamiti non hanno alcun valore, a meno che non siano dei collaborazionisti. In tal modo, in questi angusti limiti corporativi ed esclusivisti, viene svilita la stessa coraggiosa lotta internazionale oggi in atto contro le pesanti discriminazioni razziali che continuano a soffrire gli afroamericani nel loro stesso paese. La posizione di Spike Lee riesce ad apparire reazionaria anche rispetto al messaggio evangelico, in quanto per il regista la fratellanza vale soltanto fra afroamericani, mentre i vietnamiti non collaborazionisti non vengono, di fatto, considerati esseri umani a tutti gli effetti.
Favolacce di Fabio D'Innocenzo e Damiano D'Innocenzo, Italia 2020 voto: 2; i fratelli D’Innocenzo passano per essere fra i talenti più promettenti del giovane cinema italiano. Se così fosse, vorrebbe dire che davvero per il cinema italiano, ancora per molto tempo, non ci sarà speranza. Peraltro, in teoria, i giovani dovrebbero avere uno spirito più ribelle dei maturi e degli anziani, ma in questo caso la loro è una rivolta di chiaro segno reazionario. Essa si limita, in effetti, a portare semplicemente alle estreme conseguenze tutti gli aspetti più deteriori caratteristici del cinema italiano nell’attuale fase di avanzata putrefazione. Ecco che ritornano tutti gli aspetti più grotteschi e postmoderni di Matteo Garrone, solo in una forma ancora più radicale. Non a caso i due fratelli hanno collaborato all’orrendo soggetto di Dogman. D’altra parte il soggetto e la sceneggiatura di Favolacce sono ancora più espressione dell’ideologia dominante fra gli intellettuali continentali, ovvero un postmodernismo che si compiace di rimestare nel torbido, di mostrare soli gli aspetti più bassi e meschini della realtà, mirando a naturalizzare questa completa distruzione della ragione con l’affermarsi degli istinti più biechi e bassi. Naturalmente tali opere si limitano a riprodurre gli aspetti più fenomenici e grotteschi della crisi, senza fare alcuno sforzo nell’individuarne le cause, le responsabilità e le possibili e plausibili soluzioni. Per altro gli aspetti più biechi della crisi sono del tutto staccati dal loro contesto storico e sociale reale. Con giovani intellettuali di questo tipo, non ci si può stupire che la parte più becera del paese abbia di nuovo riconquistato la maggioranza. Infine, ancora più assurdamente grottesco è il premio del festival di Berlino a Favolacce per la miglior sceneggiatura. Ancora una volta abbiamo, alla faccia della meritocrazia, la premiazione del peggiore, ossia il riconoscimento a chi sviluppa in senso ancora più retrivo e reazionario l’ideologia dominante fra gli intellettuali parassitari continentali. Così, paradossalmente, finiscono per realizzare opere ancora più ideologicamente indecenti delle merci prodotte dall’industria culturale che, per essere vendute al mercato hanno bisogno di avere un valore d’uso che sia in grado di soddisfare un qualche bisogno sociale di massa.