L’ideologia dominante tenta oggi di mettere sul conto del marxismo le aberrazioni del populismo, dimenticando che “il movimento che da Marx ed Engels ha preso le mosse ha assunto un carattere di massa e un ruolo storico-mondiale fronteggiando e sconfiggendo il populismo nelle sue diverse configurazioni” [1]. L’accostamento di cristianesimo e marxismo, “che in numerosi interpreti odierni vorrebbe essere sinonimo di liquidazione epistemologica del marxismo, fa riferimento all’ampiezza del movimento di massa ispirato alle due Weltanschauungen e dei due «partiti», all’intensità emotiva dell’adesione e alla tenacia dell’attaccamento di cui danno prova i militanti, nonché al lungo ciclo storico delle aspirazioni e agitazioni di masse popolari in lotta per l’emancipazione” (136). D’altra parte “il processo di apprendimento e l’imparare a governare” attraverso la complessa e dura esperienza del socialismo reale, rappresentano a parere di Losurdo “il passaggio dalla negazione indeterminata, che immagina l’ordine nuovo da edificar come il totalmente Altro – una rappresentazione propria delle religioni della salvezza – alla «negazione determinata» che ricolloca la trasformazione rivoluzionaria sul terreno della storia e dell’azione politica concreta” (138).
Tale aspetto messianico e anarcoide, secondo Losurdo, durante le prime esperienze storiche della transizione al socialismo, avrebbe portato a considerare il superamento dello Stato nella società comunista nella forma nichilista della negazione semplice, indeterminata. Tale fatale errore sarebbe presente anche in alcuni passaggi dei classici del marxismo. D’altra parte, osserva Losurdo, “Marx ed Engels talvolta parlano di «estinzione dello Stato nell’attuale senso politico», talaltra di «estinzione dello Stato» in quanto tale; a lungo il movimento comunista novecentesco ha ripreso esclusivamente la seconda formula, che è quella chiaramente messianica” (140). Ciò non poteva che provocare danni e tragedie storiche. Losurdo è molto netto nella critica del messianesimo che; “per un verso è affetto da formalismo, per un altro verso rischia di circonfondere in un’aura sacra un avvenimento storico sovranamente e arbitrariamente identificato come l’Evento per eccellenza” (145).
Peraltro questa concezione messianica ed escatologica continua ad aver fortuna nella sinistra radicale occidentale che tende a considerarla come “l’antidoto alla violenza di cui si è macchiato il comunismo novecentesco; senonché essa ora spalanca la porta a una «violenza divina» incapace già in Benjamin di procedere a distinzioni e limitazioni” (150). Tale recupero di una sorta di religione della salvezza va di pari passo con il tentativo di riprendere il socialismo utopistico. Ma, avverte Losurdo, “oltre a non essere il recupero dell’innocenza perduta e ad avere un contenuto alquanto vago e indeterminato, il conclamato ritorno al socialismo utopistico è un’impresa donchisciottesca: non siamo in grado di ritornare al passato, in nessun caso potremmo riuscire a spogliarci del sapere scientifico e storico nel frattempo acquisito” (157).
Ciò nonostante tali posizioni messianiche sono in voga anche nella filosofia contemporanea quando si occupa di socialismo. Anche in tali posizioni tende a prevalere l’aspetto utopistico, che non tiene per esempio conto che “prendere sul serio il soccorso ai poveri significa impegnarsi a realizzare rapporti sociali e istituzioni politiche che siano in grado di debellare il flagello della povertà una volta per sempre” (162).
Di contro a tali tendenze, Losurdo pone l’accento sulla necessità di “tener conto del contesto internazionale” in cui le esperienze storiche del cosìddetto socialismo reale si sono venute sviluppando. Ciò, però, non deve significare cadere in un giustificazionismo storicista. Non può, in effetti, significare “rinunciare alla critica, ma renderla concreta, piuttosto che ridurla a un esercizio di scuola. Senonché il ribelle è preoccupato in primo luogo ad affermare la sua superiorità rispetto a qualsiasi contenuto politico determinato. Nell’atteggiarsi in tal modo, egli fa professione di antidogmatismo; in realtà, al paventato e greve dogmatismo dell’oggetto subentra un evidente e civettuolo dogmatismo del soggetto” (163).
Losurdo a tal proposito critica in particolare Zizek, a proposito della attitudine pilatesca del quale esclama: “è un mistero come si possa mettere sullo stesso piano da un lato l’accanimento a conservare il «vecchio mondo» del capitalismo, del saccheggio e dei massacri coloniali e delle guerre imperialiste, e dall’altro lo «sforzo mal concepito» di lasciarsi alle spalle questo orrore” (169).
Di contro a ogni forma di messianismo, Losurdo richiama la questione “(ben presente in Engels, Lenin e in modo del tutto particolare in Gramsci)” di riappropriarsi “dell’eredità della tradizione rivoluzionaria alle sue spalle che il proletariato è chiamato ad assumere nel momento in cui si appresta a edificare la società post-capitalista” (175).
D’altra parte, Losurdo fa notare come “il processo storico è per tutti complesso, tortuoso, imprevedibile; ma per coloro che, piuttosto che accettarlo passivamente così com’è, si propongono di orientarlo o influenzarlo, lo scarto fra progetti e speranze iniziali da un lato e sviluppi successivi dall’altro si rivela di un’ampiezza particolare e talvolta dolorosa” (179).
Ripercorrendo le principali tappe di sviluppo del movimento comunista, Losurdo risale alle sue origini in un’epoca in cui “allo smussamento del conflitto sociale”, grazie alla politica imperialista e all’aristocrazia operaia, “corrispondeva da un lato l’ampliarsi e l’aggravarsi delle contraddizioni tra popoli coloniali e potenze colonialiste e imperialiste, dall’altro l’inasprimento estremo delle contraddizioni tra le potenze colonialiste e imperialiste, sfociato nella prima guerra mondiale. Era l’intrecciarsi di queste due contraddizioni con la lotta di lunga data tra classi subalterne ed élite dominanti” (180) che darà vita alla prima grande rivoluzione socialista.
In seguito “la spartizione del mondo coloniale tradizionale era completa, ma nulla impediva di trasformare in colonie paesi che erano stati già cooptati nel mondo civile e che avevano persino un passato imperialista alle loro spalle” (181). Tale era il piano dei fascismi e del nazismo sconfitto dal movimento comunista che, in tal modo, dava nuovo slancio alla lotta anticoloniale. Tale conflitto non termina però con la liberazione nazionale, in quanto, osserva Losurdo, “la rivoluzione anticoloniale continuava, ma in forme diverse: era passata dalla fase politico-militare a quella politico-economica” (184).
In conclusione Losurdo ritiene che: “scaturito nel corso della lotta contro la prima guerra mondiale, il movimento comunista dovrebbe essere in prima fila, unito e compatto, nella lotta in difesa della pace; e, memore della sua storia, dovrebbe anche essere in prima fila, e unito e compatto, nella lotta in difesa della nuova tappa della rivoluzione anticolonialista mondiale” (185). Tale perorazione è quantomeno incompleta, in quanto dimentica che nel momento in cui la parola d’ordine della fraternizzazione delle truppe al fronte non dovesse essere sufficiente a fermare la guerra imperialista, occorre trasformare quest’ultima in una guerra civile rivoluzionaria. Anzi il movimento comunista vero e proprio nasce contrastando il socialpacifismo, in nome della soluzione rivoluzionaria quale unico reale e duraturo antidoto alla guerra imperialista.
Losurdo passa poi a criticare certo massimalismo odierno, facendo notare che “la diserzione dalle lotte concrete contro lo smantellamento dello Stato sociale, in difesa della sovranità statale, dell’indipendenza nazionale e del diritto allo sviluppo (…) viene talvolta giustificato rinviando all’ideale del comunismo” (186). Anche se l’autore stesso non può considerarsi estraneo a tale attitudine incongruente.
Infine Losurdo richiama l’attenzione sul fatto che “Marx ed Engels: nell’analisi della rivoluzione francese o inglese non prendono le mosse dalla coscienza soggettiva dei loro protagonisti o degli ideologi che le hanno invocate o ideologicamente preparate, bensì dall’indagine sulle contraddizioni oggettive che le hanno stimolate e sulle caratteristiche reali del continente politico-sociale scoperto o messo in luce dagli sconvolgimenti verificatisi” (187).
D’altra parte, a Losurdo sfugge che gli obiettivi dei bolscevichi non si sono realizzati per la mancata rivoluzione in Occidente e, perciò, non tematizza per nulla, nel suo conclusivo interrogarsi sul che fare?, questa questione decisiva, peraltro centrale nel marxismo di Gramsci. Altro aspetto determinante, purtroppo assente nelle conclusioni dell’autore, è l’indicazione sui passaggi necessari, soprattutto in paesi non a capitalismo avanzato, per poter intraprendere la transizione al socialismo. Del resto l’aspetto che non si poteva prevedere prima del completo fallimento della rivoluzione in Occidente e dell’inatteso successo dei comunisti in paesi arretrati era la necessità, in condizioni economicamente e socialmente arretrate, del capitalismo di Stato quale indispensabile premessa alla transizione al socialismo.
Note:
[1] Losurdo, Domenico, La questione comunista. Storia e futuro di un’idea, introduzione e cura di Grimaldi, Giorgio, Carocci editore, Roma 2021, p. 123. D’ora in poi citeremo direttamente nel testo quest’opera indicando fra parentesi tonde il numero della pagina.