Recensione a Sotto il cielo di Gaza di Nandino Capovilla e Betta Tusset Molfetta, Edizioni la meridiana, 2025, pag. 117, € 15,50
L’enormità epocale di quanto avviene nei Territori Occupati è già da molto tempo andata oltre lo specifico di un tradizionale conflitto politico-territoriale, come l’informazione mainstream (per lo più indugiante sulla narrazione compiacente della “contesa” e su una sapiente retorica della complessità, dottamente rispettosa delle ragioni delle “parti in lotta”) tende a rappresentare lo scontro, biblicamente asimmetrico, che contrappone quanto rimane del popolo palestinese e di Hamas allo stato di Israele (dotato di uno degli eserciti più potenti del pianeta e di una tecnologia militare all’avanguardia).
Rispetto agli altri, numerosi interventi dispiegati nel passato nella striscia di Gaza, infatti, questa volta appare evidente la volontà inflessibile dello stato colonialista di risolvere una volta per tutte e di chiudere la partita con l’”eccedenza” palestinese, (non solo) nello spazio che pure gli fu riconsegnato, per ragioni contingenti e di opportunità, dal “piano di disimpegno” di Ariel Sharon nel 2005 (che conservava tuttavia allo stato di Israele il controllo della costa e dello spazio aereo). La cruenta ’”Operazione piombo fuso”, realizzata tra il 27 dicembre 2008 e il 17 gennaio dell’anno seguente, faceva seguito alla così nominata “Inverno caldo” (scattata il 29 febbraio di quell’anno), che aveva già provocato alla compagine di Tel Aviv la critica delle Nazioni Unite e della stessa Unione Europea per “uso sproporzionato della forza” in relazione all’entità dei danni umani e materiali inflitti. Esse venivano sferrate in risposta all’attività militare di Hamas, consistente nel lancio di missili Qassam dalla Striscia stessa verso il territorio metropolitano di Israele. Ma si erano già sprecati, nel tempo, come ridondano storia e cronaca, gli episodi di selvaggia e sanguinosa incombenza dell’esercito israeliano su quel popolo, largamente documentati in una sovrabbondante casistica, di cui gli storici israeliani stessi più onesti e consapevoli non hanno mancato di produrre analisi circostanziate, corredandole di opportune e puntuali valutazioni “genealogiche” (pensiamo a Ilan Pappé, ma anche a parte dei cosiddetti “Nuovi storici”).
Questa volta, però, non si sfugge alla consapevolezza bruciante e diffusa che si sia di fronte a un episodio inaudito dai contorni imponentemente periodizzanti, tale da sfuggire al “conio” bellico convenzionale, invalso “chirurgicamente” nelle guerre più recenti, e da evocare categorie, che vanno oltre la registrazione “tassonomica” di pur alti profili di violenza e ferocia, cui pure il secolo passato ci ha realisticamente abituati, per mobilitare dimensioni distruttive facilmente rubricabili come pantoclastiche, tanto nell’immediatezza, quanto in una prospettiva allargata. La fredda politica della terra bruciata che proditoriamente lo stato di Israele sta infliggendo al suo “vicino”, accompagnata dall’accelerata e inesorabile occupazione della Cisgiordania (come di Gerusalemme Est), e inequivocabilmente classificabile come “punizione collettiva”[1], segna un approdo sintomatico che lo storico militare può tematizzare, solo ricorrendo ad analogie e confronti, la cui sinistra e imbarazzante risonanza coinvolge nel profondo proprio la realtà politica, il sionismo nella sua cristallizzazione statuale, che esibisce, “vanta” e lucra una ferita irrimarginabile e una memoria storica traumaticamente fondativa [2]. Tanto che, al punto in cui siamo, investire di queste politiche stragiste questo o quel governo di quel Paese, quale che sia il suo “segno” politico, serve solo a indebolire la comprensione del dispiegarsi di un disegno di più vasta portata, di respiro strategico ed esistenziale, coinvolgente l’interezza delle classi dirigenti israeliane e da sempre mirante alla sostanziale espulsione sic et simpliciter della popolazione palestinese, sotto la garanzia “metafisica” di una pretesa e apriorica extraterritorialità morale, millenaristicamente concepita, che eternamente esclude eccezioni o deroghe [3]. Alla fine, allo stesso modo in cui Trump semplicemente denuda la rozza anima prevaricatoria e parassitaria suo Paese, Israele getta la maschera delle ipocrisie e degli infingimenti (endogeni ed esogeni) e, nel clima surriscaldato e hobbesiano cresciuto negli ultimi decenni (grazie all’alleato e fratello maggiore d’oltreoceano), decide l’affondo sanguinario e (apparentemente) risolutivo, che lo risucchia dentro un’antropologia esplicitamente belluina e sterminista [4]. Con l’avallo di fatto, quanto meno, e i meschini lapsus gregari, di quell’impacciata ma compiaciuta area politico-geopolitica e di quelle soggettività storicamente conniventi, che faticano ormai a persuadere il “Sud del mondo” (ma non solo quello) delle ragioni, anche “originarie”, in realtà ipocritamente risarcitorie, dell’”unica democrazia mediorientale”, cui si riserva un trattamento quanto meno benevolo, nell’apoteosi del più classico dei doppi standard.
E con la generosa correità di un mondo dell’informazione “libera”, che tocca negli ultimi due anni il fondo della propria abiezione etica e professionale, e che già prima della guerra tra Russia e NATO aveva dato prove copiose di una speciale e sperimentata voluttà di servilismo, in una postura oggi mirabilmente portata a sintesi e cosmetizzata, dalle nostre parti, dalle goffe acrobazie sintattiche di personaggi del “calibro” di Enrico Mentana [5]. Eco ed emanazione scodinzolante del potere politico continentale, stampa, televisioni e agenzie, confermatisi agenti organici della sua violenza statuale organizzata, forse mai come in questa circostanza hanno trasceso se stesse nello sforzo di bagattellizzare l’entità del disastro consumato dallo stato di Israele [6], così esplicitando la cogenza di una connessione ideologica non contingente con la storica “testa di ponte” mediorientale. Riservandosi, comunque, alla fine, e intempestivamente, di convertire e “spostare” al piano filantropico e banalmente “umanitario” la sostanza storico-epocale e geo-politica dell’intera vicenda.
Se non si può parlare di una “seconda potenza mondiale”, come avvenne all’epoca delle guerre mediorientali degli Usa, tuttavia, esiste oggi un’imponente rete internazionale di vigilanza, solidarietà e protesta dal basso, fatta di una vastissima costellazione di soggetti, associazioni e organizzazioni, ufficiali o informali, che esperiscono vie e percorsi di aiuto e sostegno alla vittima esemplare del momento. A cominciare dalla pratica diffusa e molteplice di una contro-informazione, che riesce comunque coraggiosamente a sfidare e sforare la densa crosta del conformismo e delle complicità, restituendo agli eventi la loro sana trasparenza e ricollocando in piedi la semplice e implacabile verità dei fatti. E occorre dire che, ancora una volta, il mondo ecclesiale e religioso è in prima fila nell’elementare funzione e sensibilità di rappresentare le ragioni degli ultimi e degli invisibili, contro la paccottiglia giornalistica e la protervia oscena del potere e dei governicchi europei, a partire da una modalità corretta di restituzione degli eventi, con l’esporne in modo essenziale e scrupoloso dato materiale, scansione temporale e consequenzialità. Informare, dunque, documentando rigorosamente e chiarendo i tormentati nessi di causa-effetto che sconvolgono l’area e dislocano attori e comparse, soggetti attivi e passivi, responsabilità e loro misura. Come fa questo prezioso volumetto/cronistoria che, mentre vibra di composta indignazione per la “tragedia smisurata” (Quarta di copertina) e la colossale ingiustizia che si consuma tra Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme, ricompone la trama degli accadimenti sulla base delle conversazioni degli Autori [7] con il funzionario dell’OCHA (Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari dell’ONU), Andrea De Domenico, contrappuntato dall’accorata preghiera in versi di Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme, storico e dolente testimone dell’abiezione inflitta al suo popolo dalla Nakba in poi.
Dalla “bugia originaria” (p. 9) di cui parla icasticamente nella Prefazione Norberto Julini, Cooordinatore di Pax Christi in Italia, a proposito della nota formula “Un popolo senza terra per una terra senza popolo” [8], la serrata e impietosa ricognizione documentale ricompone in modo fotografico e inoppugnabile la straziante concretezza della “depalestinizzazione” (p. 31), che si sta consumando nell’area, che il testo unitariamente nomina Territorio palestinese occupato in ragione dell’unitarietà d’intenti, che la sistematica pulizia etnica [9], in forme e modalità varie, mette in forma in ogni ritaglio dello scacchiere dell’area interessata dalla presenza araba, cogliendo in tal modo l’insieme della strategia dell’occupante, dunque il suo progetto. Si esce così in modo inconfutabile dalla mediaticamente brandita e insistita emergenza da 7 ottobre e dalla presunta improvvisazione reattiva di Israele, per cogliere l’organicità e la puntuale contestualità dell’operazione militare su larga scala, la logica della distruzione a tappeto e della cancellazione premeditata delle condizioni di riproduzione della vita [10. E si precipita nella secca esplicitazione obbligata e minuziosa, dettagliata nelle pieghe della vita quotidiana delle persone, della sovrabbondante casistica dei crimini di guerra e contro l’umanità consumati dall’esercito occupante, sui vari piani di intervento, dai più sanguinosi ai più biecamente sottili e crudeli, dall’oltraggio all’elementarità dei corpi inermi allo scempio psicologico ed esistenziale delle anime, al trauma irrisarcibile che assillerà i sopravvissuti. Essa non solo parla e meticolosamente elenca le stazioni della reiterata e proditoria violazione della normativa Onu e delle innumerevoli convenzioni internazionali (andando ovviamente oltre la metodica, scontata e consolidata inosservanza nel tempo delle risoluzioni dell’Assemblea del Palazzo di Vetro, che ritmano la vicenda mediorientale dal miliare 1948), ma materializza in modo particolareggiato e “puntinistico” la misura di ferocia e fredda determinazione, con cui l’IDF (Israel Defense Forces), persino nelle articolazioni ultime e terminali della catena di comando (si pensi al cecchinaggio), applica le indicazioni politiche di vertici compromessi e periclitanti. Segnali, di un imbarbarimento antropologico capillare, irreversibile e autofago della società israeliana, certamente legato a una sensazione di assedio cresciuta nel tempo, ma senza alcun dubbio anche all”ispirata” retorica millenaristica che accompagna dagli inizi il Nation Building comunitario, con la sua narrazione visionaria e palingenetica, e sostanzia l’irresponsabile politica degli insediamenti, in una cornice ideologica temprata da un’inossidabile ed esaltata mistica sionista, la medesima che consente di seraficamente “beautificare il crimine” (p. 23), guardando all’obiettivo trasceso dell’Eretz Israel. Non senza un odioso, ma soprattutto paradossale aroma suprematista, che permea di sé, e in crescendo, i tanti, sparsi percorsi di de-umanizzazione e animalizzazione dell’”altro”, di cui viene denegata la radice umana [11, in un prolasso generale dell’humanitas, ad arte coltivato da una classe dirigente di politicanti mediocri e avventurieri, che stanno palesemente conducendo per mano Israele al proprio disfacimento e compromettendone per il futuro qualsivoglia minima credibilità.
Un delirio, si dirà, o un’assurdità “militante”, ma lucidi e risoluti nel perseguire l’eliminazione finale dell’impaccio storico costituito dal popolo palestinese [12. Condita della sconcertante schizofrenia di un’opinione pubblica largamente secolarizzata (laica, pare, ormai all’85%), tuttavia ottusamente persuasa di una legittimazione divina del proprio diritto di abitare la Palestina - semplicemente negato a quegli “arabi” che “la occupano provvisoriamente” (p. 9).
Nel precisare che “gli eventi narrati si fermano a ottobre 2024” (p. 4), nel circoscrivere, dunque, l’area temporale del disastro immanente all’area mediorientale, l’utilissima e appassionata ricognizione documentaria (corredata da preziose mappe storico-geografiche della regione) di Nandino Capovilla e Betta Tusset, lascia ellitticamente intravedere la profondità della lesione storica che le politiche di Israele, preda ormai di una hybris incontrollata e di uno sdoganamento nichilistico della dismisura, stanno infliggendo, oltre che alla vittima sacrificale del momento, il popolo di Palestina, a un comunità internazionale patentemente e tragicamente incapace di pensare all’altezza dei tempi, come di bloccarne la deriva.
Note:
1.“È un’intera nazione ad essere responsabile”, nelle parole del Presidente israeliano Isaac Herzog del 13 ottobre 2003, a ridosso dall’attacco di Hamas (pag. 55 del volumetto).
2.Dello studioso ebreo statunitense Norman Gary Finkelstein (che definisce senza mezzi termini Israele “stato suprematista”) si veda il discusso e inquietante L’industria dell’Olocausto (ora Milano, Meltemi, 2024).
3.“Non c’è un popolo palestinese [… ]. Non è come se noi fossimo venuti a metterli alla porta e a prendere il loro paese. Essi non esistono”, sentenziava decisa la laburista Golda Meir in un’intervista al <Sunday Times> del 15 giugno 1969.
4.“Suicida”, nelle parole sofferte della storica Anna Foa (Roma-Bari, Laterza, 2024).
5.Che nel Tg La7 serale del 24 marzo definisce “Settlers” le “persone israeliane che in Cisgiordania vivono i loro insediamenti come… in qualche modo… una vita di confine…”, cioè i coloni armati e istigati dal governo Netanyahu.
6.Ricordiamo qui del progetto (non solo) pannelliano di integrare Israele nell’Unione europea (maggio 2003).
7.Già coordinatore nazionale di Pax Christi Italia, Nandino Capovilla è parroco a Marghera. Betta Tusset, consigliera nazionale della stessa organizzazione, è attiva nel mondo del volontariato sociale e si occupa di persone migranti in condizioni di vulnerabilità
- Coniata alla metà del XIX secolo negli ambienti conservatori britannici, in relazione all’allora vago e potenziale progetto sionista, la formula sembrava ben rappresentare i termini di una singolare consentaneità con la pratica e l’ideologia della conquista del West da parte dei pionieri americani.
9.Come titola il testo di Ilan Pappé (Fazi, 2008).
10.“Anche la distruzione dell’ambiente naturale viene usata come arma di guerra”, pag.72.
11.“Ho ordinato un assedio totale sulla Striscia di Gaza. Non ci sarà elettricità, cibo, acqua, carburante. Chiuderemo tutto. Stiamo combattendo con animali umani. E agiamo di conseguenza” (Yoav Gallant, Ministro della Difesa di Israele, 9 ottobre 2023 (pag. 55).
12.“Dobbiamo investire tutte le nostre energie per spazzare via Gaza dalla faccia della Terra. Così quei mostri scapperanno via verso Sud e tenteranno di entrare in Egitto, oppure moriranno. Gaza deve essere cancellata”. (Galit Distel Atbaryan, deputata del Liku, 1 novembre 2023, ivi).