Recensioni di classe 19

Brevi e taglienti recensioni di classe alle serie The Great e Normal People, ai film thriller: Weekend, Ve ne dovete andare, Arkansas e Fino all’ultimo indizio; ai cortometraggi Yes-People e Opera; al documentario Le grand bal.


Recensioni di classe 19

The Great è una serie televisiva britannico-australiana, liberamente basata sull’ascesa come imperatrice di Caterina II di Russia, la prima stagione è di 10 episodi, voto 7; lo sfondo storico e il relativo realismo con cui è narrata la vicenda la rendono avvincente, interessante e istruttiva. La serie tocca contenuti sostanziali, dalla critica alla tirannide, alle vecchie tradizioni di aristocrazia e clero, contro cui si scontra la rivoluzionaria cultura illuminista, che porta la povera zarina a ribellarsi e a conquistare il potere, liberando il paese da uno zar al quale il potere assoluto ha dato evidentemente alla testa. Interessante anche il ruolo della servitrice, che supera la padrona e gli indica la strada dell’emancipazione.

Come di consueto il secondo episodio segna una decisa caduta di tono. Gli aspetti e i personaggi grotteschi rischiano di divenire inverosimili. Egualmente irrealistica è l’ambientazione hollywoodiana della vicenda. Anche se, rispetto alla maggior parte dei prodotti dell’industria culturale, siamo ancora a un certo livello, grazie allo sfondo storico.

Con il terzo episodio la serie sembra rinunciare sempre di più all’ambizione di una realistica ricostruzione storica, con significativi aspetti sostanziali, per diventare sempre più la classica americanata (a dimostrazione che gli allievi anglosassoni spesso superano il maestro), piacevole indubbiamente, ma non bella. Inoltre la storia viene eccessivamente diluita e finisce quasi per trovare un insano piacere nella rappresentazione, sempre più grottesca, della corte. Infine, si affacciano, al solito, i pregiudizi profondamente razzisti e sciovinisti che le classi dominanti anglosassoni hanno nei confronti dei russi.

Il quarto episodio conferma il trend declinante della serie, in quanto gli aspetti universali sono sempre più sacrificati alle bassezze, generalmente grottesche e inverosimili, della corte dello zar. Peraltro i personaggi, tolta la protagonista, sono delle macchiette, adialettiche e scarsamente tipiche.

Per quanto la vicenda sia sempre più incentrata sugli intrighi di corte e le piccole e miserrime ambizioni, dovute al profondo razzismo per cui, di fatto, tutti i russi sarebbero naturalmente dei mostri, la serie si riprende parzialmente nel quinto episodio, in quanto ricompaiono, tra tante bassezze, due questioni sostanziali come la guerra e la lotta per il potere. Il problema è che sono sempre rappresentate con gli stereotipi del politically correct dell’imperialismo occidentale, per cui abbiamo l’unica occidentale rappresentata come sanamente idealista e tutti gli orientali inevitabilmente preda della barbarie.

Il sesto episodio recupera in parte il terreno perduto, trovando una valida mediazione fra le concessioni al piacevole, per massimizzare il godimento estetico insieme ai profitti, e le questioni sostanziali che restano sullo sfondo storico. Peraltro, emerge finalmente – in tutta la sua realtà reazionaria – il ruolo della Chiesa, denuncia resa possibile dal fatto che si tratta della Chiesa ortodossa russa. Vi è anche un buon equilibrio fra la posizione da anima bella occidentale dell’imperatrice e le sue illusioni di poter portare il folle e reazionario zar Pietro, in modo pacifico, sulla via del progresso. Naturalmente, come la storia non potrà che dimostrare, si tratta di pie illusioni, di chi ha in realtà ancora paura di prendere nelle proprie mani il proprio destino, accettando sino in fondo tutti i rischi e le scomodità di usare autonomamente la propria ragione.

Nel settimo episodio la serie riacquista stabilmente quota. Le riforme imposte dall’altro rischiano di essere controproducenti e di favorire, involontariamente, le forze della reazione, se non si costruisce al contempo l’uomo nuovo. Inoltre emerge chiaramente come i privilegi, soprattutto secolari, faranno necessariamente blocco per evitare ogni riforma che li rimetta in questione. Appare perciò necessaria e indispensabile una rottura rivoluzionaria, in quanto, come si suol dire, certe teste non si cambiano, ma si tagliano.

Nell’ottavo episodio la serie si è ormai assestata su un buon livello. La modernizzazione e i tratti di fiction rendono la serie più fruibile e godibile, senza cadute significative nell’inverosimile. Interessante l’analisi psicologica di tutte le contraddizioni e le assurdità di un potere classista.

Nel nono episodio tutto comincia a precipitare verso la conclusione storicamente annunciata. Peccato che la volontà di far presa su un pubblico il più ampio possibile renda sempre più inverosimile, sfiorando il grottesco, la vicenda. Decisamente interessante come la zarina Caterina si veda costretta a passare dall’attitudine del donchisciottesco uomo della virtù a quella propria del realistico e machiavellico uomo del corso del mondo. Si tratta di un aspetto decisivo, di una contraddizione centrale, della tragedia chiave della parabola storica di Caterina. Purtroppo, nella serie, l’aspetto comico prende il sopravvento sull’aspetto tragico e così questo così drammatico sviluppo sembra avvenire naturalmente, senza colpo ferire. In altri termini, è decisamente inverosimile mostrare come un personaggio presentato sino ad allora come idealista, di punto in bianco, pur di conquistare il potere, si trasformi senza fare una piega in una cinica donna del corso del mondo. Così assistiamo, un po’ allibiti, al subitaneo rovesciamento della kallipolis (la città ideale) nella sua forma degenerata, ovvero in una timocrazia (nel senso letterale e platonico del termine), come se fosse la cosa più naturale e scontata del mondo.

L’ultimo episodio, essendo già tutto costruito per lanciare la seconda stagione, non ha pesanti cadute, come avviene generalmente nelle serie che con esso si concludono. Anzi, finisce con l’essere un episodio interlocutorio, dove le spinte negative a farne una merce appetibile al grande pubblico dell’industria culturale e il suo proficuo rapporto con la storia, ossia con lo sfondo sostanziale, trovano un momentaneo equilibrio.

Weekend di Riccardo Grandi, thriller, Italia 2020, voto: 6; prodotto di buona qualità dell’industria culturale italiana. Thriller ben costruito, senza cadute ideologiche nel postmoderno, anzi il film demistifica il perbenismo del ricco uomo d’affari e dell’affermato medico, padre di famiglia, come del figlio dell’industriale tutti, in modo più o meno diretto, corresponsabili della morte del loro ricco amico, anche lui e la madre, del resto, tutt’altro che degli stinchi di santo. Resta, purtroppo, la quasi completa assenza di un personaggio positivo credibile, che possa in qualche modo indicare una possibile catarsi, un qualche riscatto. In tal modo il film resta privo di principio speranza e di spirito d’utopia, dimostra un buon pessimismo della ragione a cui purtroppo non si accompagna l’egualmente necessario ottimismo della volontà.

Ve ne dovevate andare di David Koepp, thriller, Usa 2020, voto 6; per essere, di fatto, un film horror, è decisamente superiore alla media. Gli aspetti irrazionali finiscono per assumere un certo senso, all’interno della tragica storia del protagonista. Anzi, nella tragedia vi è anche una non disprezzabile catarsi. Per il resto rimane un pregevole B movie, con un budget molto limitato e senza grandi ambizioni, al di là della ripresa, in tono minore, del capolavoro del genere: Shining di Stanley Kubrick.

Le grand bal di Laetitia Carton, documentario, Francia 2018, voto 5+; documentario che avrebbe potuto essere anche interessante se fosse durato un terzo del tempo, ossia se fosse stato ridotti a 30 minuti e se avesse avuto un taglio realistico e non piattamente e noiosamente naturalistico, che lo rende pesante e dopo i primi trenta minuti, di fatto, insostenibile.

Arkansas di Clark Duke, drammatico, thriller, Usa 2020, voto 4+; film con pesanti cadute nel postmoderno, è costruito su uno spunto significativo, ossia che la vita dei sottoproletari che lavorano nell’industria del crimine non solo non ha nulla di eroico, romantico – come vuole darci a intendere l’industria culturale – in quanto sopravvivono in una situazione di sfruttamento e di alienazione ancora più disumana di quella del proletariato. Per il resto, il gusto per lo squallido, tipico dell’ideologia dominante postmoderna, rende ben presto il film insostenibile.

Yes-People di Gísli Darri Halldórsson, cortometraggio di animazione, Islanda 2020, voto: 4; certamente deludente per essere stato candidato ai premi Oscar. Per quanto breve, il documentario non ha nulla di sostanziale da comunicare, se non la totale mancanza di connessione sentimentale degli intellettuali che lo hanno realizzato con le masse popolari del loro stesso paese. Sugli elementi più arretrati delle quali si fa una ironia a buon mercato, da un punto di vista marcatamente elitario.

Normal People è una serie televisiva irlandese in dodici episodi prodotta da Element Pictures per Bbc Three e Hulu, voto: 4. Il primo episodio ci presenta una serie che si annuncia avvincente e godibile, sulla falsariga statunitense, ma più profonda e malinconica, ovvero tipicamente europea. La serie sembra, dunque, sintetizzare gli aspetti migliori delle serie americane ed europee, evitandone gli aspetti più deleteri: il postmoderno continentale e la ingenuità anglosassone. D’altra parte, la storia è priva di elementi sostanziali, resta completamente ripiegata nella sfera immediata e naturale dell’eticità della famiglia e sembra una tarda ripresa del romanticismo. Peraltro, con tutte le nomination ricevute, era lecito aspettarsi decisamente di più.

Come spesso accade il secondo episodio vanifica gli spunti significativi presenti nell’episodio pilota e accentua gli aspetti più deboli del prodotto. Innanzitutto il non avere nulla di sostanziale da comunicare, se non una banalissima storia d’amore fra un ragazzo e una ragazza. Sembra, dunque, il consueto episodio per allungare inutilmente il brodo. La serie appare come una mera merce di evasione, di mediocre qualità, dell’industria culturale. Incapace di interessarsi alle problematiche storiche, geopolitiche, sociali, economiche, etiche etc. Dopo un episodio del genere è difficile che una persona intelligente abbia interesse a continuarne la visione.

Il terzo episodio è un minimo più movimentato in quanto la protagonista non accetta l’ennesimo sopruso del ragazzo. Detto questo, anche l’unica vicenda di cui si occupa la serie, ovvero il rapporto “d’amore” fra i due protagonisti è del tutto irrealistico e inverosimile, dal momento che è il ragazzo che si vergogna davanti alla società della sua relazione, sebbene sia il figlio della donna delle pulizie della famiglia ricca e aristocratica della sua ragazza. A questo punto non ci resta che consigliare di seguire il nostro esempio e di smettere di continuare a vedere questa inutile e mediocre serie.

Opera di Erick Oh, cortometraggio di animazione, Korea-Usa, 9 minuti, voto: 3,5; film assurdamente candidato Oscar a miglior cortometraggio di animazione, categoria davvero minore. Impostato come un videogioco vintage, Opera sembra naturalizzare la società gerarchica classista, in nome di un organicismo reazionario. Tanto che si arriva a dare a credere che sia assolutamente controproducente qualsiasi forma di resistenza a tale sistema, in cui è completamente azzerata la libertà dei moderni, e gli uomini vivono come api o formiche. La morale reazionaria sembra essere di chiara impronta assolutista hobbesiana, dal momento che ogni tentativo di mettere in discussione questo sistema meccanicistico sembra non poter che ricondurre allo stato di natura, in cui vi sarebbe una costante guerra per la vita e per la morte. Da qui l’apologia indiretta dell’assolutismo.

Fino all'ultimo indizio di John Lee Hancock, thriller, Usa 2021, voto: 3; film esaltato assurdamente dal quotidiano sedicente comunista “Il manifesto”, sebbene sia una apologia indiretta degli assassinii delle forze del (dis)ordine borghese, coperti dal loro monopolio della violenza legale. Il film giustifica la posizione al di sopra della legge degli organi di polizia agli ordini del sovrano, anche nel caso in cui compiono delitti come un assassinio. Si tratta di una tarda ripresa di una concezione ultra assolutista, che anche Hobbes, il massimo teorico dell’assolutismo, avrebbe considerato assolutamente intollerabile. Dal momento che un potere assoluto sarebbe necessario proprio in quanto salvaguarderebbe la vita di chi vi si sottomette, nel momento in cui ciò non avviene più i cittadini sarebbero sciolti da ogni vincolo di subordinazione al sovrano.

23/07/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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