Mario Vegetti in Quindici lezioni su Platone, Einaudi 19.00 €, compendia magistralmente decenni di studi, ricerche e lezioni sulla filosofia di Platone. In tal modo supera dialetticamente i timori di Platone rispetto allo scrivere un’opera che compendiasse la sua filosofia. Vegetti, in effetti, sin da subito rigetta il vizio alquanto corrente di voler ridurre la ricchezza e complessità dialettica del pensiero platonico in un sistema filosofico chiuso, dato una volta per tutte e per sempre definito. Non a caso il discorso di Vegetti è tutto teso, in modo progressista, a insistere sulla natura necessariamente dialogica della visione del mondo platonica, di contro ai conservatori e reazionari che intenderebbero rinchiuderlo nella gabbia di una metafisica in se stessa compiuta, destinata ai soli eletti del sapere orale esoterico, dinanzi ai quali i dialoghi avrebbero un valore puramente propedeutico. In tal modo la giusta critica alla stessa scrittura – che fissa una volta per tutte il pensiero, come se fosse possibile sancire una verità definitiva, immodificabile e indiscutibile – viene in modo mistificatorio ridotto a una mera ripresa di dottrine proprie della scuola pitagorica.
Al tempo stesso la mirabile e indubbiamente meritoria opera di Vegetti trova una soluzione, per quanto possibile e naturalmente non definitiva, all’altro grande problema di fissare in un volume la filosofia platonica. Il timore di Platone è che una volta scritta essa potesse finire nelle mani di malintenzionati e utilizzata a fini anche contrari alle sue buone intenzioni o, caso decisamente più probabile, rimanere incompresa e male interpretata dai più. Nell’opera di Vegetti emergono chiaramente le buone intenzioni dell’opera di Platone e vengono puntualmente denunciati gli usi contrari al suo scopo che ne sono stati fatti. Inoltre Vegetti fornisce indubbiamente una ottima e progressista interpretazione dell’opera di Platone, sempre mettendo in risalto le diverse incomprensioni e denunciando le malevole interpretazioni, a partire da quelle dei liberali. D’altra parte, naturalmente, quella di Vegetti non è l’unica interpretazione giusta o la migliore possibile, ma è senz’altro un’ottima interpretazione che da una parte fa un rigoroso vaglio critico della complessità a tratti contraddittoria dell’opera di Platone, e delle diversissime interpretazioni che ne sono state date, ma dall’altra pur nel suo operare da scienziato – mirando a restituire una lettura il più possibile oggettiva del suo autore – non mistifica il suo essere necessariamente una interpretazione partigiana e, in particolare, il suo schierarsi dalla parte giusta, ossia dalla parte di chi opera con l’alta ambizione di contribuire alla lotta per l’emancipazione del genere umano.
Nella lettura di Vegetti spicca, grazia alla sua sempre conseguente adesione al marxismo, un’ottima contestualizzazione storica dell’opera di Platone e anche una sua analisi dal punto di vista politico e sociale, in riferimento al suo collocarsi nei conflitti sociali della sua epoca storica. Mentre resta carente la dialettica fra le strutture economiche e le sovrastrutture, in primo luogo filosofiche, a ulteriore dimostrazione che la necessità di distinguersi dal marxismo volgare abbia portato troppi intellettuali tradizionali, di formazione marxista, a finire con il gettare via con l’acqua sporca dell’economicismo anche il bambino, ossia un punto nodale del materialismo storico.
Molto significativa è anche la ricerca condotta da Vegetti su Socrate, il più decisivo dei maestri di Platone e il complesso rapporto dialettico che si snoda, attraverso in primo luogo la stessa opera platonica, fra questi giganti del pensiero. Allo stesso modo, molto significativa è la ricostruzione di tutte le influenze e della capacità di Platone di rielaborare autonomamente gli aspetti fondamentali dei precedenti filosofi, sempre nella corretta attitudine di un superamento dialettico dei giganti dell’antecedente sviluppo del pensiero umano.
La parte più significativa dell’opera è quella dedicata – grosso modo al centro del libro –, subito dopo la lunga e molto significativa parte introduttiva, alla filosofia eminentemente politica di Platone, affrontata in modo mirabile nelle decisive lezioni sei e sette. Sulla questione determinante del progetto comunista Vegetti non fugge sofisticamente come Cambiano sostenendo che il progetto di Platone non c’entrerebbe nulla con il comunismo, né si perde come Canfora sulla questione meno attuale della comunanza delle donne, né coglie come Hegel solo gli aspetti conservatori del pensiero di Platone, ma ne mette in evidenza – a ragione – la carica rivoluzionaria, pur non tacendone i limiti storici.
Vegetti introduce un tema generalmente poco considerato, ossia che Platone, generalmente considerato il fondatore dell’utopismo, in realtà – per quanto potesse essere radicale la prospettiva comunista ed estrema la comunanza di donne e figli – non temeva nulla di più “che il «ridicolo» suscitato da chi racconta «castelli in aria», «pii desideri», sogni a occhi aperti. Un’utopia seria non può sottrarsi all’impegno di dichiarare le condizioni della propria realizzabilità” [1]. A tal proposito Socrate-Platone ritiene necessario individuare “quale sia il cambiamento minimo grazie a cui una città potrebbe avvicinarsi” (473b) al modello delineato, in quanto solo in tal modo si individua la possibilità di una sua realizzazione, per cui non sarebbe più considerabile una mera utopia. Si tratta di un radicale mutamento al vertice stesso del potere “capace di mettere in moto l’intero processo di trasformazione sociale e morale della città” (110), in modo rivoluzionario con la conquista del potere “da parte degli «autentici» filosofi, o in modo riformista con la “conversione alla filosofia di chi già lo deteneva (473d)” (110).
In entrambi i casi diveniva fondamentale l’autoformazione dei filosofi che costituiva “il nucleo centrale del programma che Platone assegnava” all’“Accademia: assumendo il potere, i suoi membri avrebbero attuato quel «cambiamento minimo» che poteva avviare il circolo virtuoso di una città trasformata che a sua volta promuoveva la formazione collettiva dei suoi nuovi governanti. Ma come pensare questa presa di potere da parte dei filosofi accademici? Platone non escludeva che in circostanze eccezionali una comunità cittadina potesse convincersi ad accettarne il governo (501c-502a), come l’antica Atene aveva fatto con Solone. Più probabile, e certamente più rapida, poteva però apparire la seconda via indicata nel libro V: che un potente o un figlio di potenti potesse venir convertito alla filosofia, e reso quindi disponibile ad accettare il consiglio e la guida dei buoni «filosofi» autoformatisi. Questa via fu probabilmente quella tentata da Platone e dagli Accademici nel loro rapporto con i tiranni di Siracusa, ancorché senza duraturi successi. Ma, come si vedrà (…) non tutti gli Accademici fallirono nel loro tentativo di convincere le città, o i loro tiranni, ad accettare sia pure parzialmente una guida filosofica” (111).
Realisticamente Platone considerava la vita comunistica adatta solo al gruppo dirigente, a essa educato, anche se l’ideale sarebbe stato se tale modalità di vita si fosse estesa “a tutti i cittadini” (426b). Naturalmente per raggiungere un tale ideale sotto la direzione del gruppo dirigente si sarebbe dovuto formare l’uomo nuovo necessario all’estensione del comunismo all’intera società. Dunque, la funzione educativa del gruppo dirigente sarebbe stata transitoria e destinata “a favorire la maturazione morale e intellettuale” del ceto produttivo. “Una volta compiuta essi allora potrebbero risultare capaci di autogoverno e quindi acquisire il diritto di partecipare al governo della comunità e di condividerne la forma di vita collettivistica propria del suo gruppo dirigente” (112).
Tanto che nelle Leggi, riassumendo il proprio modello di governo, Platone aggiunge il “coltivare in comune la terra” (740a). Il che comporta “la collettivizzazione del possesso della terra” e la divisione del lavoro manuale e produttivo includente l’intera società. Anche se, a parere di Vegetti – nonostante il modello di una società comunistica integrale sia ripresa da Platone quando nel Timeo riassume La Repubblica – nel grande filosofo prevarrebbe il realismo per cui difficilmente le doti morali e intellettuali necessarie per vivere in modo comunista sarebbero realmente estendibili all’intero insieme sociale. Anche se tale forma di autogoverno, per quanto ideale, resta per Platone il modello perfetto. Tanto che nel mondo liberale anglosassone, per salvare Platone quale fondatore del pensiero occidentale dalle accuse rivoltegli da Popper di totalitarismo, si arriverà a inventare che la preferenza per il comunismo di Platone sarebbe solo ironica, secondo un’interpretazione che “si scontra con ogni buona regola storiografica di lettura dei testi” (113). Quindi, sebbene la posizione di Platone sia inconciliabile con la tradizione liberale, resta a ogni buon contro il fondatore del pensiero occidentale, a meno che non si pretenda che quest’ultimo “debba necessariamente sfociare in una sorta di «pensiero unico» dettato da quell’orientamento” (114).
Peraltro per Platone il modello comunista era difficile da realizzare, ma non certo “impossibile” (499d, 502c), in quanto “era conforme alla natura, benché contraddicesse i costumi vigenti – questo vale ad esempio per la parità di funzioni tra uomini e donne, e per il governo degli individui razionalmente meglio dotati –, e perché era costruito secondo una sequenza logica rigorosa, che enunciava le condizioni necessarie per conseguire finalità che risultavano effettivamente desiderabili” (114). Peraltro tale modello ideale “stimolava, sul piano psicologico prima ancora che politico, l’attesa – che, a differenza della teoria, non poteva che essere impaziente – dell’occasione propizia, del manifestarsi della «fortuita necessità» capace di aprire la via alla prassi della sua realizzazione” (115).
D’altra parte tale modello di società perfetta “costituisce un punto di riferimento capace di orientare la prassi etica e politica. Ma qualsiasi traduzione del modello «nei fatti», qualsiasi sua realizzazione nella dimensione storica, non può che comportare una de formazione. (…) La kallipolis storica sarà dunque un’approssimazione inevitabilmente imperfetta a quella ideale” (116). Ciò “comporta un ragionevole grado di flessibilità negli eventuali tentativi di riproduzione del modello ideale in ambito storico politico” (116).
Note:
[1] Vegetti, Mario, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003, p. 109. D’ora in avanti inseriremo direttamente nel testo le citazioni da quest’opera indicando in parentesi tonde il numero della pagina. Sempre fra parentesi tonde indicheremo le pagine delle opere di Platone che citeremo.