Prendi distrattamente la metropolitana e di sfuggita noti le pareti del vagone completamente tappezzate di immagini di invitanti piatti di ogni tipo… “voglia di sushi? ordina ora e te lo portiamo a casa”; “troppo stanco per fare la spesa?te la portiamo noi”…oggi hai avuto una giornata estenuante, pensi, quasi quasi mi concedo questo lusso, fuori piove pure a dirotto. Tiri fuori dalla tasca lo smartphone, qualche click per ordinare la tua cena e mezz’ora dopo suonano il campanello, senti qualcuno armeggiare al piano terra per mettere al sicuro la bici nell’androne del palazzo, sbuffi perchè ci sta mettendo tanto a salire le scale e raggiungerti al quarto piano, tu stai fermo sul pianerottolo a scrollare un social in attesa che la tua busta con la cena impacchettata in mille involucri di carta, plastica, o entrambi, raggiunga la tua mano mollemente protesa verso le scale. Un ragazzo zuppo di pioggia e proveniente da un Paese che non sapresti indicare con esattezza in quale parte di mondo si trovi, si allunga affaticato sin davanti alla tua porta e conferma sulla sua app l’avvenuta consegna prima di ripiombare giù per le scale a recuperare la sua bici incustodita per ributtarsi in mezzo al traffico e alla pioggia ed andare ad esaudire entro mezz’ora lo sfizio di qualcun altro troppo stanco o troppo annoiato per prepararsi la cena da solo.
In quel secondo e mezzo, sul tuo pianerottolo, potresti avere incontrato Souleymane e il merito di Boris Lojkine - regista del film La Storia di Souleymane, attualmente al cinema - è proprio quello di aver portato sul grande schermo, sotto gli occhi di tutti, quello su cui sistematicamente nessuno si sofferma: chi è quel rider straniero che ci ha portato la cena, qual è la sua storia, la sua vita, i suoi problemi, i suoi pensieri?
Questo giornale già in passato si è ampiamente occupato di immigrazione e di asilo, seguendo i sempre più turpi sviluppi politici - dai tempi di Minniti-Orlando, passando per i decreti Salvini, Lamorgese, Cutro e, da ultimo, la deportazione dei richiedenti asilo in Albania - strettamente legati a questo settore, i cui lavoratori peraltro hanno promosso recentemente una mobilitazione sindacale con uno sciopero che ha registrato adesioni con percentuali bulgare. Proprio per questo è ancora più importante, secondo il parere di chi scrive, incoraggiare quanto più possibile la visione di La Storia di Souleymane, che con una potenza unica, porta efficacemente al cinema immagini, suoni e dialoghi che possono chiarificare la situazione dei richiedenti asilo e della manodopera clandestina nelle nostre città più di un milione di parole e di spiegazioni: ragazzi nel pieno del loro vigore fisico che, forse proprio per questo, riescono a reggere itinerari migratori spaventosi (come visti, a proposito di film, in Io Capitano di Matteo Garrone), torture e privazioni fisiche e psicologiche e, una volta giunti nelle nostre giungle urbane, ritmi di lavoro massacranti per paghe da fame, problemi di ogni tipo connessi al fatto che senza documenti non esisti e non puoi nulla, ricatti, corse, frenesia, debiti, anche prendere un autobus può essere una sfida all’ultimo fiato.
Non ho intenzione di svelare con questa recensione scene del film che, a mio avviso, non possono che essere viste. Semplicemente però va detto che, in un’epoca completamente folle come quella in cui viviamo, alcune scelte registiche che escono al di fuori della classica comfort zone del cinema vanno espressamente lodate. Comfort zone che permettono guadagni assai probabili, una distribuzione capillare nelle sale, trame intimistiche o sensazionalistiche o fantascientifiche dove per la critica sociale - che annoia lo spettatore medio che ha bisogno del cinema per distrarsi - raramente c’è spazio; oppure scelte puramente estetiche dietro al cui tripudio scenografico rischia di annidarsi la più completa superficialità di contenuti: ecco, La Storia di Souleymane è orgogliosamente il contrario di tutto questo, riuscendo a riunire in una pellicola rapida, accattivante nelle inquadrature, nei ritmi e nella visione, un contenuto denso e profondo, disarmante e struggente.
Il rider Souleymane è un ragazzo guineano appena arrivato a Parigi e in attesa di svolgere il colloquio per la richiesta di asilo presso l’OFPRA (Office français de protection des réfugiés et apatrides), il collatérale francese delle nostre Commissioni Territoriali per il Riconoscimento della Protezione Internazionale, afferenti al Ministero dell’Interno. Come richiedente asilo Souleymane non sa ancora se avrà o meno il diritto di soggiornare in Francia, tutto dipenderà dall’esito del suo colloquio nel corso del quale spiegherà i motivi per cui ha lasciato il suo Paese ai funzionari dell’OFPRA che poi avranno il compito di valutare se i problemi riferiti in Guinea Conakry siano tali da giustificare il riconoscimento della protezione internazionale (ossia ottenere asilo, sono espressioni equivalenti). Dopo aver dovuto abbandonare in patria la madre malata e la fidanzata per tentare la fortuna in Europa, aver attraversato il deserto e la prigionia in Libia, ed essere arrivato in una Parigi fredda, chiassosa e frenetica in cui non è che uno tra milioni, senza amici, senza soldi, senza tempo, senza documenti, senza dignità, Souleymane non sa più se ne valga la pena o meno, non sa più perchè si trovi lì. Sa solo che ormai c’è e la lotta per la sopravvivenza è la sola spaventevole realtà che gli abbia disvelato il sogno europeo.
Il film ripercorre dunque i due giorni antecedenti al colloquio di Souleymane all’OFPRA per la richiesta di asilo. Ecco tutto, niente sensazionalismi, una trama semplice quanto efficace: cosa c’è nella testa e nella quotidianità di un uomo trapiantato in un contesto così diverso da quello che gli è familiare, dove è invisibile pur essendo necessario, dove deve giustificare continuamente la propria esistenza per ottenere anche la più elementare forma di riconoscimento ossia un documento con sopra scritto il proprio nome, una possibilità, o anche semplicemente l’opportunità di lavorare? Quali angosce e quali miriadi di ostacoli in attesa di un attimo in cui ti giochi il tuo futuro dopo tanti patimenti, quello per cui hai abbandonato tutto e tutti, il biglietto di ingresso per quello che credevi fosse un eden e invece è una prigione di cemento e di vagoni, popolata da gente allenata ad odiare tutto e tutti e a coltivare il più totale individualismo e menefreghismo, in cui anche i tuoi connazionali sono i primi nemici da cui guardarsi le spalle e le uniche manifestazioni di umanità provengono da persone ancora più vulnerabili di te?
Quanto più incalza il ritmo e il rumore in cui è immerso lo spettatore incollato alla bicicletta di Souleymane mentre si sbatte in tutti gli angoli di Parigi appresso alle elefantiasi dei suoi problemi, tanto più aumentano nella mente le riflessioni e l’accumularsi degli stimoli: l’empatia e l’immedesimazione col diverso da noi per antonomasia ossia l’immigrato clandestino nelle nostra città, di cui la popolazione occidantale tutt’alpiù si interessa al solo e unico scopo di farne capri espiatori per il degrado e la crminilatà; la necessaria autocritica come individui e come società occidentale. Connesso a quest'ultimo tema, fortissima e protagonista attraverso il film è la critica e la riflessione indotta sulla insidiosità della gig economy e del capitalismo delle piattaforme, realtà caleidoscopica e apparentemente senza padrone ma impetuosamente risoluta nell’attivare i suoi dispositivi di comando sui lavoratori, succubi dell’input arrivato dall’alto, dall’esterno, dal cliente, dal non si sa chi, dalla apparente neutralità dell’algoritmo, che non concede scappatoie.
Just it, è proprio questo il punto, per rifare ironicamente il verso a un famosissimo jingle di una delle più note aziende di delivery: nell’epopea della gig economy, tenuta in piedi nel campo del delivery da lavoratori immigrati senza permesso di soggiorno, tutto il sistema si regge su una catena di montaggio che fa leva sulla estrema ricattabilità di questi lavoratori, sulla guerra tra poveri che si genera e della quale il nuovo sistema produttivo si nutre, in un contesto in cui mai più lontana e remota di così è stata la solidarietà di classe.
In effetti dal mio umile punto di vista l’unica pecca della pellicola è quella di lasciare ben pochi spiragli a una qualsivoglia forma di possibile riscatto, di non rappresentare seppure embrionalmente la necessità di una via d’uscita dall’indifferenza, dalla disumanità e dallo sfruttamento, di non dare una chance alla solidarietà che per quanto appaia attualmente utopica e distante è pur sempre plausibile. Ciononostante si avverte la spinta del regista in tal senso, pur nella stasi dell’impotenza.
In definitiva questo non è un film, è una fotografia semovente e continua di tutti gli attimi della nostra realtà quotidiana, che ha moltissimo da dire a tutte le fasce e le categorie che compongono la nostra società, specialmente a chi ci vive dentro distrattamente e si ostina a non farsi domande. Un film che urla dal primo all’ultimo minuto, implora, di restare umani.