Vizio di forma di P. T. Anderson, come un noir hardboiled, si sviluppa a partire da un caso che si rivela sempre più intricato. Ma della sua soluzione poco importa, l’intreccio inestricabile è un espediente per raccontare un’epoca, quella dei Seventies, gli anni del riflusso dopo la mitica stagione del ’68, gli anni dell’ascesa di Nixon e della ritirata strategica della controcultura americana.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Voto: Renato 7,5/10; Rosalinda 8/10
Tratto dal romanzo dello scrittore cult del postmoderno Thomas Pinchon, Vizio di forma di Paul Thomas Anderson, come un noir dell’hard boiled literature, si sviluppa a partire da un caso che sembra apparentemente semplice e lineare ma che poi diventa sempre più intricato, fino a diventare quasi irrisolvibile. Ma che non vi sia una soluzione poco importa, l’intreccio inestricabile, la matassa che non si dipana, il caso che non si risolve anzi si moltiplica in tanti casi paralleli che si inseguono come in un labirinto, è quasi un espediente per raccontare un’epoca, quella degli anni Settanta, gli anni del riflusso e della disillusione dopo la stagione del ’68, gli anni dell’ascesa di Nixon e del declino della beat generation e della controcultura americana. Non a caso la vicenda ci è narrata da un narratore non certo onniscente e non troppo attendibile, che non ricalca il punto di vista dell’autore. Perciò più che il narratore dell’epos ricorda il coro tragico. D’altra parte l’autore non risparmia nella sua romantica attitudine ironica lo stesso narratore, che ad esempio tenta goffamente di interpretare la vicenda in riferimento ai segni zodiacali dei protagonisti. Ciò ha un significativo effetto straniante non solo sulla vicenda narrata, ma sulla stessa attendibilità del narratore, al quale lo spettatore non può ciecamente affidarsi anestetizzando il proprio spirito critico.
In effetti il protagonista, il detective privato Doc Sportello (interpretato magistralmente da Joaquin Phoenix) sembra la versione hippie di un Sam Spade o di un Philip Marlowe: “duro” e solitario, squattrinato e con una storia d’amore fallita alle spalle, disilluso e spesso sarcastico. Solo che i tratti sono più comici e dissacranti, tant’è che il detective Larry “Doc” Sportello sembra quasi un caricatura del Sam Spade interpretato da Bogart nel film di Huston o del Philip Marlowe interpretato da Elliot Gould nel film di Altman, tanto che Vizio di forma sembra avvicinarsi più a una commedia “nera” stile fratelli Cohen che a un noir classico. Certo è che l’omaggio a Robert Altman non manca: lo stesso Anderson ha raccontato dopo la prima proiezione del film che il cast ha lavorato «in una sorta di caos preordinato [...], di improvvisazione totale basata però su lunghe conversazioni preliminari» [1]. Il tono di fondo resta quello sentimentale, nel senso schilleriano del termine, dell’ironia e l’attitudine post-moderna alla rivisitazione citazionista dei generi.
La sceneggiatura di questo raffinato film è veramente pregevole, i dialoghi sono fini e interessanti, molti passaggi sono fedeli “letteralmente” al romanzo di Pinchon (molto difficile da mettere in scena, tra l’altro), anche se necessariamente la trasposizione cinematografica se ne discosta poi dal punto di vista narrativo. Come da copione il film non è stato premiato agli Oscar 2014 (segno che era un film non embedded!): la migliore sceneggiatura non originale è andata, come sappiamo, al mediocre The imitation game e il film e la regia di Vizio di forma sono stati completamente ignorati: evidentemente Hollywood preferisce premiare l’“esibizionismo” e il formalismo nella regia, la sola ostentata competenza tecnica, come dimostra il pluripremiato Birdman [2], piuttosto che una abilità meno esibita, ma raffinata e più sostanziosa dal punto di vista contenutistico come quella di Anderson. Per quanto fruibile a diversi livelli, il che è certamente da annoverare fra i pregi del film, Vizio di forma dà ben più da pensare del montatissimo e pretenzioso Birdman. Certo il film di Anderson non si eleva allo spirito assoluto, ossia non si sottrae al carattere di passatezza che ha l’arte nella modernità, non a caso un suo tratto caratteristico è l’ironia di matrice romantica, ma nel deserto del reale dell’attuale panorama cinematografico, considerato che tutto che è relativo, Vizio di forma è opera brillante.
Dal punto di vista del contenuto Vizio di forma per i suoi significativi rimandi al mondo storico, in cui è realisticamente ambientato, è certamente in controtendenza rispetto alla tendenza ormai dilagante a pellicole minimal-qualunquiste (anche di eccellente livello come Boyhood). Tanto più Vizio di forma si colloca agli antipodi della vergognosa apologia dell’imperialismo yankee di un American Sniper, portando avanti una coraggiosa e controcorrente critica della società statunitense. Tale mordace critica non risparmia nessuno, dalla corruzione della polizia, locale e federale, alla sua subordinazione al grande capitale, a cui insieme alla manovalanza nazista fa da cane da guardia. Allo stesso modo il film denuncia non solo l’infliltrazione di informatori nel movement, ma lo sfruttare da parte dello Stato le debolezze indotte, ad esempio con la diffusione delle droghe pesanti, per costringere gli elementi più deboli e ricattabili a divenire spie. Di rilievo è anche la critica al grande Capitale, e non al singolo capitalista, alla mela marcia che rischia se non eleminata di contaminare le altre di per sé sane. Al contrario in Vizio di forma è il capitalista che nel momento in cui, contaminato dal clima contestatario del sessantotto, intende porre il proprio capitale al servizio della società, viene fatto internare e curare come un pericoloso e contagioso pazzo criminale dalla stessa moglie, sotto la stretta sorveglianza, nel manicomio privatizzato di Fbi e nazi. Tanto più che la funzionalità della manovalanza nazista alla ricerca del profitto appare tanto più evidente, dal fatto che il capitalista rappresentato è un ebreo, a dimostrazione che l’autore non indietreggia neppure dinanzi a uno dei più mainstream tabù. Altrettanto notevole è l’illustrazione della natura criminale del sistema capitalistico, che controlla con il supporto dell’estrema destra e degli apparati dello stato il big business delle droghe pesanti, utilizzate come cavallo di troia necessario per sedare e anestetizzare la contestazione, condannando al carcere e alla marginalità quella proletaria e nera, e reinserendo nel ciclo completo della riproduzione capitalistica i giovani transfughi più o meno pentiti della borghesia, ricondotti all’ordine, con la corruzione, i manicomi privatizzati e la necessità di cure mediche altrimenti inaccessibili per arginare le devastazioni provocate dall’eroina, in primo luogo ai denti.
Il detective protagonista del film è un fricchettone che si ostina a fumare marijuana, anche se non fa più tendenza, odiato dai poliziotti e dai conformisti, che non si lascia incantare dalle sirene dell’eroina, quell’eroina che, come emerge chiaramente in Panthers e rimane invece sottotraccia in questa pellicola, viene utilizzata dal sistema per far fuori il movement, sia quello dei neri che degli studenti. La sua ex ragazza, la dark lady del noir in versione californiana, lo coinvolge in un caso: il suo amante, il re dell’immobiliare Mickey Wolfmann, sta per cadere vittima di un intrigo da parte della moglie e dell’amante di lei. Wolfmann diventa il punto di contatto delle sue indagini che lo portano a scoprire un mondo in cui la droga pesante, che offusca le menti e distrugge i denti, è solo l’inizio di un ciclo infernale: a curare la mente ci pensano i manicomi (ormai privatizzati grazie al governatore Ronald Regan, la cui presenza inquietante si cela all’ombra del reflusso) dove proiettano filmacci anticomunisti e a rifare il sorriso ci pensa la lobby dei dentisti. È il “vizio intrinseco” del capitalismo, Inherent Vice, appunto (è questo il titolo del film, e non la, come di consueto, raffazzonata e ridicola traduzione italiana: “Vizio di forma”) che riesce a conquistare a poco a poco «le isole di libertà che alcuni uomini avevano immaginato ancora possibile» [3] . A Doc Sportello non rimane che la fuga dalla realtà (tipica del movimento hippie del resto, ormai messo ai margini dal sistema) attraverso i continui trip e l’attitudine freakettona, che rappresentano, la tipica denuncia della società da parte del piccolo borghese che invece di impegnarsi nel reale al fine di trasformarlo, preferisce la “fuga” estraniante che non disturba più di tanto il manovratore. Così la conclusione ritorna al punto di partenza, il riflusso nell’intimismo piccolo borghese, per cui l’ex contestatore, ormai messosi in proprio come detective privato, ricostituisce il nucleo familiare, accogliendo come un figliol prodigo la pentita partner. In tal modo il film mostra la sua natura comica, al di là dell’apparenza tragica, la trama è senza un reale sviluppo, tanto che alla fine, dopo mille peripezie, si ricompone l’equilibrio inziale tornando allo stato di partenza. Questa struttura circolare ha evidentemente una natura conservatrice. Come nella maggior parte delle opere d’arte nella nostra triste epoca di restaurazione è totalmente assente in Vizio di forma qualsiasi prospettiva. Al contrario la prospettiva emancipatoria è capovolta tanto da essere collocata nel passato. L’orizzonte del futuro pare limitato agli interessi filistei tipici della piccolo-borghesia. Il processo catartico concerne la protagonista femminile e la spia, in entrambi i casi abbiamo la rappresentazione del ritorno a casa, nel nucleo famigliare piccolo borghese, del traviato, ma pentito, figliol prodigo.
Girato con una pellicola 35 mm, che sembra scaduta per evocare meglio l’atmosfera dei Seventies, il film è corredato da una spettacolare musica “d’epoca”, basti pensare ai titoli di testa con il sottofondo di Vitamin C dei Can oppure i bei pezzi di Neil Young in alcune scene topiche del film. I personaggi del film ci sono presentati in modo realistico, nella loro contraddittorietà, che li rende vivi e interessanti, anche se troppo spesso non sono risolti, ma risultano abbozzati, come ad esempio il poliziotto tutto sommato buono, la fidanzata del protagonista che lavora con il procuratore o la stessa narratrice. Tale limite è certamente dovuto al tentativo, necessariamente fallimentare, del regista di compiere una trasposizione cinematografia fedele di un romanzo, per altro piuttosto complesso. Altro limite dei personaggi è che non decollano mai fine ad assurgere a rappresentare in modo tipico una componente sociale in un contesto storico. I personaggi restano troppo prigionieri della smania citazionista post-moderna che li costringe a ricalcare, per quanto con un certo distacco ironico, le “maschere” dell’hard boiled. Questo dimostra che Vizio di forma deve essere considerato come un’opera manierista, anche se di ottima fattura, e non come un’opera di genio, in grado di dare, per dirla con Kant, «la regola all’arte» [4]. Il film non si sottrae al sospetto di brescianesimo nella rappresentazione del proletario nero politicizzato o della prostituta asiatica, trattate con paternalistica ironia. Ugualmente esecrabile è l’attitudine maschilista dell’opera, che tende a colpevolizzare la sola donna, che diviene così il capro espiatorio del reflusso, mentre le attitudini in buona parte analoghe del protagonista maschile vengono considerate glamour. Per cui la donna non sfugge allo stereotipo della “puttana”, che anzi finisce per interiorizzare, mentre l’uomo è esaltato, nonostante i tratti ironici, come un tombeur de femme. D’altra parte il cast degli attori fa fino in fondo la propria non facile parte, senza incertezze e sbavature (il livello degli attori spicca in particolare par rapport al livello infimo degli odierni attori cinematografici italiani). Inoltre, seppur forse in modo inconsapevole da parte degli attori che li impersonano, i personaggi nella loro intrinseca contraddittorietà, favoriscono, insieme alla sottile ironia della narrazione, l’effetto di straniamento, che favorisce una fruizione critica dell’opera da parte del pubblico. Da vedere, assolutamente, fino alla fine dei titoli coda...riservano una gradita sorpresa per chi non intende rinunciare a un po’ di sana nostalgia.
Note:
[1] cfr. la recensione del film di Giulia D’agnolo Vallan ne “il manifesto” del 25/02/15
[2] cfr. la recensione di C. Raimo su http://www.internazionale.it/opinione/christian-raimo/2015/02/26/ vizio-di-forma-paul-thomas-anderson
[3] cfr. la recensione di G. Gangi su http://www.ondacinema.it/film/recensione/vizio_forma.html
[4] I. Kant, La critica della facoltà di giudizio (1790), § 46. L’arte bella è l’arte del genio.