Nella significativa introduzione del curatore Grimaldi si mette in riferimento quest’opera con l’ultimo libro pubblicato da Losurdo prima della morte: Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017, in quanto l’autore riprende il filo del ragionamento da dove lo aveva lasciato portando a termine questa sua ultima grande pubblicazione. Come osserva a questo proposito Grimaldi nell’introduzione, riassumendo in modo essenziale i risultati al quale era giunto l’autore nell’ultima opera di cui ha potuto curare la pubblicazione, “di fronte alle immense difficoltà e ai tragici conflitti che accompagnano la complessa elaborazione e costruzione concreta del socialismo reale, il marxismo occidentale bolla quello orientale come degenerazione e tradimento del marxismo, ridotto ai suoi occhi, a mero instrumentum regni nel senso dell’illibertà. La prospettiva eurocentrica e/o acquietata nell’atlantismo (a volte malcelata, a volte esplicita), il conseguente mancato pieno riconoscimento di legittimità riguardo le lotte di liberazione dei popoli coloniali e il peso della tradizione giudaico-cristiana del messianismo, impediscono al marxismo occidentale non solo di procedere con successo in Occidente ma anche di saldarsi criticamente con quanto avviene fuori dai propri confini o almeno di riconoscere la complessità dell’esperienza sovietica e cinese in particolare.
Invece di procedere in questa direzione, il marxismo occidentale ha liquidato come inautentico quello orientale, e ha preferito celebrare sé stesso quale movimento che, lontano dal potere e dalla corruzione che ne deriverebbe, mantiene la propria eccellenza morale di fronte ai drammi del socialismo «realizzato»” [1]. Proprio al contrario rispetto a questi limiti riscontrati nel così detto marxismo occidentale, come osserva a ragione il curatore del libro qui recensito, “l’orizzonte concettuale di Losurdo è quello di un ripensamento complessivo del marxismo non a partire da una teoria che andrebbe ricondotta a una «purezza» originaria, ma a partire dall’intreccio – nella realtà anche tragica – di teoria e prassi, e cioè nella tensione della teoria che si fa prassi in un contesto storico determinato: potremmo dire, nella dura realtà” (21). In tal modo, l’autore può giungere a tracciare un bilancio storico decisamente positivo della questione comunista, nonostante tutti gli attacchi subiti, in particolare in questi ultimi anni, dai suoi molteplici detrattori: “senza il movimento comunista non è pensabile l’acquisizione per milioni di individui, prima considerati come figure su sfondo della storia, di una piena dignità umana (mai più instrumentum vocale) e quindi di diritti (politici, civili, economici e sociali). Da oggetti dello sguardo padronale sul mondo, masse di individui divengono soggetti di diritti. È una lotta per il riconoscimento (non ancora conclusasi” (21-22).
L’opera di Losurdo si apre con una premessa, dal significativo e calzante titolo di “Antitotalitarismo” e anticomunismo quali dottrine di Stato. Secondo l’autore il movimento comunista ha consentito di portare sostanzialmente a termine due grandi tappe del processo millenario di lotta per l’emancipazione dell’uomo di contro alle potenze che si sono coalizzate costantemente non solo per impedirla, ma addirittura per rovesciarla di segno in un processo di disemancipazione, in effetti “come l’edificazione dello Stato sociale, anche il processo di decolonizzazione non può essere pensato senza l’impulso e il contributo del movimento comunista” (30). Tali eccezionali conquiste, come al solito, non possono essere considerate ormai per sempre acquisite, anche perché l’ideologia dominante, espressione delle classi dominanti, che si è affermata negli ultimi decenni, “nel corso dell’offensiva neoliberista e neocolonialista” ha portato all’affermazione come “dottrina di Stato” dei paesi a capitalismo avanzato e dei loro alleati subalterni, una concezione “antitotalitaria” del mondo che “mira a colpire in primo luogo le idee comuniste” (34), come sottolinea a ragione Losurdo. In tal modo, “la teoria corrente del totalitarismo”, divenuta il pensiero unico dominante nel mondo “occidentale”, “favoleggia di una società liberal-democratica che si sviluppa all’insegna del governo della legge ma che poi era aggredita, in modo improvviso e misterioso, prima dal mostro totalitario sovietico e poi dal mostro totalitario nazista” (35).
Tale narrazione “ideologica”, naturalmente, può avere successo solo occultando il significato degli eventi storici almeno a partire dal secolo breve. A tal proposito, Losurdo evidenzia “l’assillo dell’ideologia dominante per il fatto che è stato il movimento socialista e comunista a formulare la prima dura critica del totalitarismo scaturito dalla Grande guerra” (37), cioè dalla prima guerra mondiale fra potenze imperialiste [1914-1918], periodo decisivo di gestazione e di prima realizzazione anche in Europa, di quel modello di Stato totalitario che era stato sperimentato e imposto con la forza ai popoli coloniali. Proprio per questo, come rileva a ragione l’autore, “la prima approfondita analisi critica del fenomeno totalitario”, prima ancora che questo termine venisse coniato, “viene sviluppata dal movimento comunista a partire dalla lotta contro la guerra” (38) mondiale imperialista.
D’altra parte la pseudo categoria di totalitarismo, coniata in ambito liberale per denotate in maniera negativa i regimi fascisti e nazisti e poi estesa, in modo sempre più ideologico e forzato, all’età di Stalin, all’intera storia dell’Unione sovietica, al socialismo reale in quanto tale, per arrivare a investire tout court il movimento comunista e la sua teoria marxista, può essere più propriamente utilizzata per denotare tutti gli intellettuali sostenitori del capitalismo e acritici apologeti della Prima guerra mondiale. Così, ad esempio, nel nostro paese, anche l’esponente più illustre e più attento a evitare troppo smaccate cadute ideologiche, cioè Benedetto Croce, il pensatore e filosofo italiano più capace di egemonia in quell’epoca, mistifica questo spaventoso macello, la più terrificante strage che l’umanità avesse visto e immaginato, come una “rigenerazione della presente vita sociale” una “«fornace di fusione» del popolo” e, di conseguenza, un’essenziale “strumento di superamento della lotta di classe” (40). Tale sinistra apologia di questo spaventoso e irrazionale massacro, funzionale esclusivamente a difendere dei rapporti di proprietà divenuti del tutto irrazionali e ingiusti, che impedivano ormai lo sviluppo delle stesse forze produttive, si riafferma nella forma sovra richiamata “ancora nel 1928, quando ormai era chiaro” – come denuncia a ragione Losurdo – “che di questa retorica l’erede e il beneficiario era divenuto il fascismo” (ibidem).
D’altra parte, “ignorare o rimuovere” questa “«prima calamità» e «l’abitudine alla violenza assoluta» da essa ingenerata”, per usare le parole di uno storico apertamente controrivoluzionario come Furet [2], “e far partire la storia del totalitarismo dalla rivoluzione d’ottobre ovvero dall’avvento di Stalin al potere nella Russia sovietica ha poco a che fare con la ricerca storica propriamente detta: siamo piuttosto in presenza di un rito di autoassoluzione dell’Occidente capitalistico e liberale” (ibidem).
In effetti, come sottolinea efficacemente Losurdo, i “due secoli d’oro” del movimento politico liberale, XVIII e XIX secolo, “vedono svilupparsi prodigiosamente la schiavitù nera proprio nei paesi classici della tradizione liberale e vedono questo istituto assumere negli USA [terra di elezione del capitalismo] una configurazione di una durezza tutta particolare” (42).
Losurdo passa poi, in modo egualmente molto efficace, a confutare la più antica e anche banale e triviale, ma non per questo meno pervasiva e dominante – al punto che lo stesso autore ne è stato a lungo negativamente influenzato – che intende liquidare la questione comunista come una mera utopia o, peggio ancora, come una presunta distopia.
A tale scopo, Losurdo cita un notevole numero di casi esemplari “del trasformarsi” di quella che era stata per un tempo immemorabile bollata come utopia o distopia in una “realtà o in progetto politico concreto”. Limitandoci a un caso particolarmente emblematico “si pensi”, sottolinea a ragione l’autore, “alla condizione della donna e ai rapporti tra uomo e donna: pur con i suoi limiti persistenti, il quadro che a tale proposito si presenta ai nostri occhi sarebbe apparso fantastica utopia o repugnante distopia (a seconda del punto di vista) ancora qualche decennio fa, quando era convinzione diffusa e pressoché incrollabile che la segregazione della donna e la sua esclusione dai diritti politici e dalle professioni liberali fosse imposta dalla natura” (48-49). Sarebbe il caso di ricordare che il primo e famosissimo caso di confutazione della prima teorizzazione della questione comunista della storia, a opera del geniale commediografo reazionario Artistofane, si intitola Le donne in parlamento, in quanto la teorizzazione e la battaglia comunista per eguali diritti fra uomo e donna appariva, nel mondo antico, l’aspetto più apparentemente distopico e facilmente attaccabile della concezione di Platone dello Stato giusto come comunista.
Arrivando a un esempio emblematico del mondo contemporaneo, si pensi alla “condanna dei diritti sociali ed economici da lui messi sul conto della rivoluzione d’ottobre”, da parte “del patriarca del neoliberismo” von Hayek, secondo il quale la stessa “pretesa” di sviluppare uno Stato sociale sarebbe “sinonimo di intervento arbitrario sulla natura fisica e umana” (50). Quindi, la stessa concezione della giustizia sociale, sarebbe, per il fondatore filosofico del neoliberismo, una utopia del tutto artificiale e antinaturale, argomento da sempre utilizzato dai grandi teorici della controrivoluzione per cercare di condannare alla perpetua damnatio memoriae alcuni dei più importanti risultati del processo rivoluzionario innescato e portato spesso a compimento dal movimento comunista. Anche in questo caso Losurdo dimostra, con la consueta dovizia storica di particolari, che sono decisamente più artificiose le politiche combattute dal movimento comunista, mentre al contrario le battaglie di quest’ultimo appaiono decisamente più naturali. Prendendo in esame un caso esemplare, Losurdo domanda, retoricamente, “come ingegneria sociale doveva essere bollato il tentativo di realizzare una società fondata sull’eguaglianza e l’integrazione razziale oppure, invece, l’istituto della schiavitù e, più tardi, l’apartheid e la legislazione contro la miscegenation? Dov’era la natura e dove l’artificio?” (51).
Note:
[1] Losurdo, Domenico, La questione comunista. Storia e futuro di un’idea, introduzione e cura di Grimaldi, Giorgio, Carocci editore, Roma 2021, p. 14. D’ora in poi citeremo direttamente nel testo quest’opera indicando fra parentesi tonde il numero della pagina.
[2] Furet F., Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, Mondadori, Milano 1995, p. 100.