Gli splendori e le miserie del cinema della sinistra liberal iberica hanno trovato un’esemplare espressione nell’ultimo significativo film di Pedro Almodóvar. Con quest’opera il regista pare aver conseguito la piena maturità, quel magico termine medio fra gli sturmeriani anni giovanili e la tendenza alla ripetizione causa dell’ottundimento caratteristico della terza età. Segue una breve recensione di un’interessante film di animazione giapponese: The Boy and the Beast.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Julieta di Pedro Almodóvar valutazione: 7.
Melodramma alla Douglas Sirk, rivisitato alla maniera di Almodóvar, ovvero secondo un’ottica postmoderna decisamente originale, in quanto sapientemente ripensata valorizzando il contesto culturale del proprio Paese a partire dal cinema di impronta surrealista di Luis Buñuel. Rispetto alle opere giovanili questo tardo Almodóvar è certamente maturato. Ha progressivamente rinunciato alle attitudini sturmeriane giovanili e ha assunto uno stile compositivo più classico ed elevato. Certo, tale crescita ha comportato necessariamente al contempo una perdita, la rinuncia alla spensieratezza giovanile, alla dirompente carica innovativa e provocatoria dei suoi primi lavori, al loro ribellismo anarchico e nichilista. Proprio perciò opere decisamente mature, classiche, sapientemente costruite come queste non possono incontrare il favore degli eterni sturmeriani della critica della post nuova sinistra, sempre più prigioniera dei propri fantasmi di un passato dove tale attitudine aveva svolto anche un ruolo positivo, ma ribadita in modo dogmatico fino alla tarda età non può che apparire noiosa e stucchevole.
Particolarmente urtante è il non riconoscere la necessità di superare il nichilismo giovanile, la predilezione tipica di questi anni per la vita estetica e il necessario suo superamento nella vita etica, la necessaria riconciliazione con l’ambiente mediante il riconoscimento della sua oggettiva necessità che supera dialetticamente l’altrettanto necessario contrasto del giovane, che si pone per sé con i propri ideali e ambizioni, contrapponendosi al proprio ambiente.
Abbiamo così una narrazione più fluida e sapientemente architettata, un plot interessante e sufficientemente realistico, personaggi con un carattere forte rappresentati da attori che hanno raggiunto la maturità espressiva. Vi è anche un significativo confronto con i grandi temi della tragedia greca, a partire dalla questione, centrale nel film, della colpa, per cui ognuno è, per quanto inconsapevolmente ed in modo essenzialmente volontario, artefice del proprio destino, un destino necessariamente tragico, in quanto altrettanto necessariamente tragica è l’azione.
Per cui assistiamo alle drammatiche vicessitudini di una donna che in un primo momento pare soccombere sotto i contraccolpi particolarmente duri di un destino esemplarmente funesto, le cui altrettanto dolorose conseguenze appaiono in un primo momento decisamente sproporzionate rispetto al livello decisamente basso del momento di consapevolezza nell’azione tragica. Apparentemente la protagonista non appare in nessun modo responsabile dei tragici effetti del suo operare, che appare del tutto improntato all’eticità dettata dal sano buon senso umano. Proprio perciò non riesce a riconoscersi nei risultati inattesamente drammatici del proprio operare che finisce per subire come un tragico destino.
Un destino che non è il portato unicamente di una vicenda particolare ma che assurge a valore universale, rappresentando in modo tipico il destino storico della donna, quale genere oppresso all’interno di una società ancora pesantemente condizionata dal portato di un passato oscurantista che non passa e che fa del più debole, di chi ricopre il ruolo del servo, in una società pesantemente patriarcale, il “naturale” capro espiatorio. Ciò è il portato del peso opprimente di valori etici arcaici propri della antica tradizione cattolica, eternizzata dalla Controriforma e poi dal franchismo che portano la donna stessa a colpevolizzarsi e ad autocolpevolizzarsi di tutto ciò che di negativo accade.
Così del suicidio dell’uomo anziano che la importuna, in quanto costretta a viaggiare da sola in treno, si sente in qualche modo colpevole, come della morte del marito, in quanto avvenuta dopo che lei lo ha rimproverato per la sua passata infedeltà. Tali semiconsci sensi di colpa, con cui la protagonista cerca non senza difficoltà di convivere, vengono in modo sconsiderato rialimentati dalla ultra reazionaria governante, rappresentante dei pregiudizi di una società patriarcale e clerical-fascista. Quest’ultima che coltiva e reprime il proprio insano amore per l’uomo per il quale lavora e con cui vive prigioniera di un insano rapporto servo-signore.
Il rapporto d’amore, in quanto tale paritario, che si stabilisce con la moglie, viene contrastato dalla governante, che richiama l’inquietante governante di Rebecca la seconda moglie di Hitchcock, che scarica il proprio risentimento sulla stessa figlia, trasmettendogli il virus del sospetto, per cui anche il tragico destino del padre non sarebbe il portato della sua improvvida uscita in barca in un giorno in cui si preparava la tempesta, ma del diverbio avuto con la moglie, per altro dovuto ad un altrettanto maligno sospetto innescato dalla stessa governante.
La cultura del sospetto, il pregiudizio per cui la causa dei mali del mondo è da rinvenire sempre nel più debole, nella donna, sono i principali responsabili dell’ultima tragedia che sconvolge tanto la madre che la figlia, protagoniste in modo diretto e indiretto del film. Un amore finito male, perché su di esso si riverbera il dirompente desiderio edipico per il padre perduto, porta la figlia a cercare di sfuggire alla depressione cercando rifugio nella radicale risoluzione per la vita religiosa, che implica una netta cesura non solo con la giovanile fascinazione per la vita estetica, ma con la stessa vita etica che la lega alla madre, su cui viene riversata interamente la colpa per la non superata, ma soltanto vanamente sublimata, traumatica morte del padre.
In tal modo la madre rischia di divenire per sempre prigioniera del ruolo di capro espiatorio cui la condanna l’eticità primitiva di una società ancora essenzialmente arcaica e bigotta. Anche il progetto di crearsi una nuova vita sulla base di un nuovo rapporto d’amore pare destinato a sfumare dal ricomparire, proprio sul più bello, del fantasma del passato rappresentato dalla figlia. Sarà proprio la ricomprensione catartica del proprio tragico destino, con le sue limitate colpe reali e quelle prodotte da una società classista che tende a reprimere in modo ossessivo le pulsioni libidiche dei subalterni, mediante un processo di autoanalisi poco verosimile, a consentire la soluzione catartica della tragedia, causa efficiente del godimento estetico prodotto da questa autentica opera d’arte che, come abbiamo visto, lascia non poco da pensare e rielaborare allo spettatore.
D’altra parte è proprio l’importantissimo riconoscimento al forse più significativo attuale rappresentante del realismo socialista nel cinema, Ken Loach, a indicare i palesi limiti di questo film e più in generale del cinema di Almodóvar, tipico intellettuale tradizionale rappresentante della sinistra liberal il cui più tipico esponente in Spagna è stato Zapatero.
Lo splendore e la miseria di tale sinistra è ben condensato nell’opera di Almodóvar, che, da una parte, rappresenta una salutare boccata d’ossigeno dinanzi a una società il cui rimosso passato clerical-fascista condiziona pesantemente la liberal-democrazia iberica; dall’altra, tale opera rifugge nel modo più rigoroso dal mettere in questione i rapporti sociali di produzione che costituiscono il fondamento strutturale di tutte le problematiche sovrastrutturali con cui si trova a dover fare i conti la sinistra liberal.
In tal modo, mirando sempre a sanare gli effetti, senza risalirne alla causa, le soluzioni che appronta riescono ad attutire e rinviare gli effetti della crisi di un modo di produzione, che finisce inevitabilmente per riprodursi su scala allargata, avendo un fondamento oggettivo che ne rende necessario il riaffiorare.
The Boy and the Beast di Mamoru Hosoda: valutazione 6,5
Buon film di animazione che si muove nel solco aperto dal grande maestro Hayao Miyazaki. Il film è sicuramente ben fatto, è godibile e lascia da pensare a un pubblico di tutte le età. Inoltre offre uno sguardo straniato sull’attuale società umana e più in generale sulla società umana in astratto osservata criticamente dal punto di vista del mondo delle bestie, che bandiscono gli uomini dal loro regno perché nel loro cuore alberga il male ed esso può prendere il sopravvento se non si è in grado di tenerlo a freno. Il film è inoltre dotato di sano anticonformismo che favorisce lo sforzo di comprendere l’altro al di là delle apparenze, giudicando le persone sulla base degli atti che compiono e non del modo in cui si presentano. Infine il film ci presenta un interessante percorso di formazione di un giovane che impara la difficile arte di divenire adulto.
Il limite principale che sconta questo film, come purtroppo la maggior parte degli altri, non solo di animazione giapponese, è di riuscire a immaginare un mondo diverso e alternativo al nostro, di cui pur si coglie la crisi e gli aspetti negativi, non ipotizzando un futuro migliore in una società più razionale, ma solo come ritorno a un’epoca del passato, a un mondo precapitalistico tracciato in modo utopistico e apologetico come se potesse costituire una reale alternativa appetibile.
Abbiamo, dunque, la consueta tendenza piccolo borghese a cogliere le contraddizioni dell’attuale società capitalista, ma a ricercarne la possibile soluzione in un passato miticizzato, anche se si tratta di un passato estremamente remoto o addirittura preumano. Ad esempio, in molti film giapponesi, ma purtroppo non solo, si porta avanti una critica della società contemporanea che, non facendo emergere le reali cause, rischia di essere una critica dai tratti involontariamente reazionari, che coglie ed evidenzia tutti gli aspetti negativi della modernità, esaltando di contro società premoderne, dominate da una visione del mondo mitologico-religiosa, di cui si mettono in luce i soli aspetti positivi, dimenticando al contrario i preponderanti elementi negativi. In questo modo si finisce inavvertitamente per lasciare spazio alle distopie fasciste e naziste o al contrario a far apparire il nostro, tutto sommato, come il meno peggiore dei mondi possibili, dal momento che nessuno, nemmeno Captain America, avrebbe il coraggio di affermare che è il migliore dei mondi possibili.