Dolor y gloria di Pedro Almodóvar (Spagna 2019) è certamente un ottimo melodramma realizzato da un regista indubbiamente grande, che nel film mette coraggiosamente a nudo la sua tragica vicenda esistenziale. Per quanto si sforzi di rappresentarla in modo realistico, in realtà il film non va al di là di una narrazione essenzialmente naturalistica. I vizi di fondo del film restano, dal punto di vista formale, una rappresentazione soggettivistica della realtà e, dal punto di vista, del contenuto la presentazione di una storia particolare difficilmente universalizzabile. Per quanto il regista si ingegni a scavare nel proprio vissuto, non ne cava nulla di veramente sostanziale, se non questioni prettamente esistenzialistiche, come il senso della vita e del dolore nella prospettiva dell’essere per la morte, che si fermano alla rappresentazione di un universale astratto.
Già di per sé il racconto di una vicenda biografica, a meno che non si tratti di una vicenda esemplare, emblematica, in grado di assurgere all’universale, al sostanziale rischia di rimanere di scarso interesse al di là dei fans del protagonista, interessati a tutta una serie di particolari aspetti e attitudini dell’individuo in questione che non possono che rimanere poco significativi per il grande pubblico. Tanto più che nel film si narra la biografia di un artista e non di un grande uomo d’azione, ovvero di qualcuno che ha collaborato alla formazione del nostro mondo storico più attraverso la riflessione artistica che l’azione storica. In casi del genere a parlare di sé dovrebbero essere le sue opere, più che una singola opera autoriflessiva.
Tanto più che non solo ogni individuo è generalmente il meno indicato a svolgere la funzione di giudice di se stesso, tanto che un candidato a un esame o a un concorso non si può certo auto esaminare, un artista non si auto recensisce, un imputato non si auto giudica e un paziente non si auto psicanalizza etc. In tutti questi casi vi è un evidente conflitto d’interesse tra il giudice e il giudicato, che rende il giudizio poco obiettivo e, di conseguenza, altrettanto poco significativo. Come quando si domanda ingenuamente all’oste, com’è il vino? Tanto più se a giudicare se stesso non è un grande giudice, ma poniamo un grande sportivo, se ad autoanalizzarsi non è un grande psicoanalista, ma un grande politico, ad auto recensirsi non è un grande critico, ma un grande artista.
In altri termini, cosa piuttosto scontata nel nostro mondo storico, dove domina la divisione del lavoro e la specializzazione un grande artista si esprime a grandi livelli realizzando un’opera nel suo campo specifico e, in tal modo, l’oggetto del suo lavoro acquista un interesse generale o addirittura universale. Perciò, certamente il grande regista Almodóvar è il meno indicato a esprimere nella sua opera quanto vi è di sostanziale nella vita del grande artista Almodóvar. Tanto più che ciò che vi è di realmente sostanziale nella vita di un grande artista sono necessariamente le sue opere d’arte e non le vicissitudini particolaristiche del proprio vissuto. Tanto è vero che nessun esaminatore si dirà soddisfatto nell’esaminare un candidato che invece di descrivere e illustrare le opere di grandi artisti, si limita a narrare le loro vicende biografiche particolaristiche e private come, per fare un esempio nel nostro caso calzante, il rapporto morboso che si è stabilito nel corso della propria esistenza con la propria madre. Al grande pubblico non può che interessare la cosa stessa, ovvero le grandi opere dei veri artisti e non il giudizio soggettivo che essi esprimono sulle proprie particolari vicende esistenziali. Tanto più se tali vicende sono sostanzialmente narrate astraendo dal mondo storico, sociale, economico e politico in cui acquistano veramente senso e possono suscitare un qualche interesse.
Altrimenti è come se ci facessimo raccontare le grandi gesta di un personaggio storico universale dal punto di vista del suo cameriere personale, che non potrà che raccontarci i suoi aspetti più perituri, meno significativi, meno universali e al contempo individuali, dal momento che da quel punto di vista tutti gli uomini tendono a essere egualmente insignificanti, in quanto in questa prospettiva è quasi impossibile andare al di là delle differenze indifferenti.
Certo, si potrebbe obiettare che essendo Almodóvar un grande regista ci interesserà veramente il film che ha tratto dalla propria autobiografia e non se tale immagine di sé sia attendibile. Ma, come è noto già al primo grande studioso dell’arte, Aristotele, una vera e grande opera d’arte non potrà che partire da un soggetto e da un plot all’altezza. Perciò quello che intendiamo contestare a chi esalti in modo sostanzialmente acritico quest’opera o opere del genere è che essendo prive di un qualunque contenuto sostanziale tali operi potranno essere considerate al massimo piacevoli, per gli amanti del genere o per i fans del protagonista – che, detto tra parentesi, sono i meno attendibili giudici del proprio idolo –, ma ben difficilmente potranno essere considerate belle universalmente. In effetti opere del genere sono generalmente in grado di interessare i cinefili o chi è interessato a comprendere aspetti della tecnica cinematografica, ma decisamente non il grande pubblico che non può che essere interessato alla cosa stessa, al contenuto sostanziale dell’opera esposto nel modo più adeguato, godibile e creativo.
Le invisibili di Louis-Julien Petit (Francia 2018) è una interessante e in parte certamente godibile commedia impegnata nella essenziale denuncia del modo neoliberista di affrontare il disagio sociale, di contro al quale si sforza a ragione di mostrare come un altro modo di rapportarsi all’assistenza sociale sia non solo possibile, ma auspicabile e necessario. È evidente, infatti, che nella società in cui siamo al momento condannati a vivere, nel modo di produzione capitalistico ciò che conti veramente non sono gli uomini reali con i loro bisogni, ma unicamente la produttività che garantisce maggiori profitti.
Da questo punto di vista un luogo di accoglienza per senza tetto, nel centro della capitale di un grande paese capitalistico, è già in sé un controsenso. Il centro di una grande capitale è innanzitutto una merce da vendere ai turisti e un luogo di rappresentanza per il mondo degli affari e per i grandi professionisti, che non possono certo essere turbati o, addirittura, importunati da coloro che secondo questa logica del pensiero unico non possono che essere considerati dei potenzialmente pericolosi devianti. Anzi, con il loro modo di vivere, estraneo alla massimizzazione della produttività, del profitto, alla mercificazione e al consumismo, in evidente contrasto con il pensiero unico dominante impegnato a convincerci di vivere nel migliore dei mondi possibili, i privi di fissa dimora sono prima ancora che un problema sociale, un affronto al decoro del filisteismo borghese. Proprio per questo potranno ricevere quel minimo di assistenza sociale, necessaria a mantenerli in vita, solo a patto che per procurarsela siano costretti ad allontanarsi il più possibile dal cuore pulsante della grande metropoli e dalla città vetrina. Anche in questo caso, dunque, in perfetto accordo con la restaurazione liberista che, da una parte contrasta in ogni modo l’idea stessa di una giustizia sociale o della sovranità popolare, dall’altra per giustificare le proprie più irrazionali e immorali differenze sociali che produce, continua a pretendersi la migliore delle società possibili, proprio perché consente anche ai più poveri e devianti di poter sopravvivere, mediante un reddito minimo di sussistenza.
Si tratta, dunque, di garantire semplicemente a chi non riesce più a vivere per farsi sfruttare, il minimo necessario a sopravvivere, dal momento che un altro assioma del pensiero unico imperante è che il sogno di un mondo in cui tutti possano essere felici sarebbe distopico, in quanto contrasta con l’elemento fideistico alla base di questo sistema sociale, ossia che solo i meritevoli e gli eletti abbiano diritto e, quindi, possano essere felici. Chi non produce pluslavoro, né è in grado di pagare le merci che consuma in modo da garantire profitti ai proprietari, sarebbe un mero faux frais della produzione, se non servisse a convincere chi è costretto a vendere al prezzo più basso la propria forza lavoro di essere comunque un privilegiato.
Quindi, i servizi sociali per i devianti debbono ridurre a tal punto la vita alla mera sopravvivenza da convincere chi ne ha modo a reintegrarsi, vendendo anche al prezzo più basso la propria forza lavoro o, altrimenti, a vivere da paria, in una condizione non troppo dissimile a quella che vivevano e vivono ancora nei paesi più arretrati gli intoccabili e i lebbrosi.
Gli eroi del film sono lavoratori dei servizi sociali che si ostinano a considerare detti paria degli esseri umani e a impedire che siano espulsi dal centro della città in cui sono usi vivere. In tal modo gli assistenti sociali divengono degli idealisti donchisciotteschi, tanto da apparire agli uomini del corso del mondo, agli integrati nel sistema un problema di ordine pubblico. Al punto che, per poter continuare a fare il proprio dovere, sono costretti a violare l’ordine neoliberista e ad agire eroicamente per poter continuare a trattare da esseri umani i devianti.
Questi atti di volontarismo sono portati, dall’implacabile logica imprenditoriale del sistema, alle estreme conseguenze, per cui per poter fare coscienziosamente il proprio lavoro diviene necessario non solo sacrificare la propria vita personale, divenire degli eroi del volontariato, ma essere costretti ad andare contro la legge. Ciò offre, così, la possibilità al partito dell’ordine di far apparire gli eroi del volontariato dei fuorilegge, da contrastare con l’intervento degli apparati repressivi dello Stato.
I limiti del film sono, al solito, nella descrizione non realistica, ma naturalistica di tali tragiche vicende, tendendo così a “naturalizzarle”. Il pubblico, in tal modo, più che essere portato a comprendere l’irriformabilità e la disumanità del modo di produzione capitalistico, tende a impersonarsi in maniera acritica in questi impiegati pubblici costretti a vivere la loro professione come una forma estrema di volontariato e a condurre la loro battaglia come cavalieri della virtù destinati necessariamente a soccombere dinanzi agli uomini del corso del mondo. In tal modo, un po’ come di fronte alla tragedia dell’immigrazione, il pubblico è reso un passivo spettatore che può tutt’al più, se è ancora pieno di buoni sentimenti, parteggiare per gli eroici cavalieri della virtù delle Ong, costretti a veri e propri atti di eroismo per salvare le nude vite di chi tenta di emigrare. In tal modo, ci si ferma comunque nella vana e caritatevole cura volontaristica degli effetti, senza comprendere i reali problemi che ne sono alla base e, quindi, non potendo fare nulla di duraturo ed efficace per risolverli.
Per altro, in tal modo, si finisce con il legittimare un’altra delle decisive parole d’ordine del neoliberismo, ovvero il principio di sussidiarietà. La questione della giustizia sociale è cancellata e con essa anche quella dell’assistenza sociale, che non deve quindi più essere un problema pubblico della collettività, ma deve sempre più spesso essere demandato o subappaltato ai privati. Nel caso dell’assistenza sociale non, però, del tutto, altrimenti verrebbe definitivamente meno l’arma ideologica del presunto Stato sociale e dello pseudo Welfare State. Tuttavia, in una crescente misura tali attività vengono demandate ai privati, in particolare quando possono divenire fonte di profitto, essenzialmente speculando sul disagio sociale, quando diviene uno strumento per evadere le tasse e, infine, quando diviene uno strumento per trasformare lavoratori pubblici e giovani volenterosi non più in professionisti da retribuire, ma in meri volontari, destinati a lavorare sempre più gratis. Di modo che anche i più miseri salari possano apparire come un privilegio.