L’analisi critica comparata di questi due notevoli film, presentati di recente nelle sale in Italia, offre l’occasione di sperimentate la validità e l’attualità di alcuni dei concetti fondamentali dell’estetica marxista, a partire dalla necessaria distinzione fra la grande arte realista e l’arte naturalista, che si limita a fotografare in modo sostanzialmente critico la società con le sue contraddizioni, senza fornire allo spettatore gli strumenti e gli stimoli necessari a una loro radicale messa in questione.
di Renato Caputo e Rosalinda Renda
Tra la terra e il cielo, del regista indiano Neeraj Ghaywan (valutazione: 8,5) e Fiore di Claudio Giovannesi (valutazione: 6,5) possono rappresentare un’ottima esemplificazione della differenza fra un’opera autenticamente realista e un’opera meramente naturalista, differenza la cui essenziale importanza troppo spesso è sfuggita a una concezione semplicistica e volgare dell’estetica marxista e più in generale progressista.
Un’opera naturalista, ben rappresentata dal film di Giovannesi, si limita a un rispecchiamento fenomenico della realtà storica e sociale esistente senza sforzarsi di farne emergere le contraddizioni di fondo oggettive e specifiche di quel determinato contesto. In tal modo un’opera d’arte naturalista come Fiore non può che apparire astratta, in quanto mira a riprodurre ciò che è “medio” in un determinato ambiente storico e sociale, in questo caso il sottoproletariato urbano del nostro Paese in una fase di aperta neo-restaurazione.
Al contrario, un’autentica opera realista è decisamente concreta in quanto rappresenta il “tipico” di un insieme sociale, facendo emergere le differenze interne e le contraddizioni che lo caratterizzano. Perciò un’autentica opera d’arte come Tra la terra e il cielo è quella in grado di rappresentare la totalità della vita dell’uomo nel processo storico del suo contraddittorio sviluppo e i suoi differenti “tipi” sociali, contribuendo a chiarire l’essenza di un mondo storico, in questo specifico caso dell’attuale India. In questo Paese, i limiti del processo di decolonizzazione, passato attraverso non una rottura rivoluzionaria ma un compromesso con la ex potenza coloniale, ha fatto sì che il processo di modernizzazione del Paese, per altro realizzato a macchia di leopardo a essere ottimisti, si è realizzato in un contesto sociale dominato da rapporti sociali ancestrali, improntati al rapporto servo-padrone, naturalizzati da una visione del mondo religiosa estremamente primitiva e una eticità a tal punto arretrata da far apparire rivoluzionaria, quasi utopistica, l’affermazione della sfera astratta del diritto, secondo la quale almeno dinanzi alla legge siamo tutti eguali.
Dunque, un’opera d’arte realista di cui Tra la terra e il cielo è un valido esempio, che ricorda i grandi capolavori del neorealismo italiano, primo fra tutti l’indimenticabile Ladri di biciclette, si sforza di rappresentare nel proprio microcosmo il macrocosmo, ovvero la totalità di un’epoca storica e di rappresentare gli uomini nella loro complessità e nella loro dimensione sociale, di cui hanno livelli differenti di consapevolezza.
Al contrario un’opera come Fiore solo apparentemente rappresenta una ripresa dell’estetica neorealista, mentre risente decisamente, oltre che degli attuali capofila del cinema naturalista contemporaneo, i fratelli Dardenne, delle opere romantiche o della crisi novecentesca che non sono in grado di rappresentare che squarci della vita interiore dei propri personaggi e istantanee della realtà storica e sociale.
L’autentica opera d’arte non può che essere necessariamente realista, proprio perché rappresenta una forma, per quanto peculiare, di conoscenza della realtà sociale, che quindi non può fare a meno di riprodurre, facendone emergere le linee di fondo e di sviluppo costitutive mediante la messa in scena di destini particolari, ma al contempo rappresentativi, tipici di un certo contesto storico, politico, economico, sociale e culturale. Dunque visto che la realtà è una, quella che riproduce l’arte è la stessa che studia la scienza, ma mentre quest’ultima mira a evidenziare gli aspetti universali del reale, l’opera dell’artista mira a rappresentarne gli aspetti particolari, ma al contempo rappresentativi di gruppi sociali più ampi. Così mentre la scienza non può che mirare a generalizzare, a individuare leggi il più possibili comprensive dei fenomeni analizzati, a inquadrare in un’unica legge il più ampio ventaglio di contenuti, l’arte al contrario tende a fissare un’esperienza particolare, il destino peculiare di individui tipici. L’arte è, dunque, più vicina alla vita di quanto lo sia la scienza, in quanto permette di cogliere intuitivamente ciò che la scienza risolve in leggi o concetti astratti. Non si tratta, tuttavia, di un passivo rispecchiamento della vita, ma dell’elaborazione di una sua forma tipica, in grado di illuminare il contesto storico e sociale in cui è inserita.
Ed è proprio questa la differenza sostanziale fra i due film presenti attualmente nelle sale italiane e da noi presi in esame. Fiore, per quanto sia un’opera comunque coraggiosa, che va in controtendenza rispetto al pensiero astratto dominante, che vede nel microcriminale solo un individuo pericoloso da escludere dalla società, mettendone al contrario in luce i tratti profondamente umani, si limita tuttavia a rappresentare il misero contesto sociale e familiare che consente di comprendere i comportamenti e le attitudini della protagonista. In tal modo però si rischia di rimanere prigionieri dell’ottica determinista propria del positivismo, che tende a naturalizzare il disaggio e le contraddizioni sociali, come se fossero necessarie. Certo, in tal modo si comprende come le colpe più che del singolo individuo siano di certi milieu economici e sociali; certo, così le sue colpe individuali vengono relativizzate di contro al giustizialismo forcaiolo di chi pensa astrattamente e vede nel microcriminale non anche un povero disgraziato, portatore di un terribile dramma sociale e familiare, ma semplicemente un pericolo da eliminare, una mela marcia da escludere per impedirgli che contamini un insieme sociale nel complesso sano.
D’altra parte se l’effetto mimetico che porta lo spettatore a immedesimarsi nella protagonista gli permette di superare i pregiudizi perbenisti e filistei che lo portano a considerare il microcriminale un pericoloso alieno, al contempo attutiscono l’effetto di straniamento che consente una comprensione maggiormente critica degli eventi, necessaria a spingere il pubblico a ricercare soluzione alternative. I personaggi rappresentati sono del tutto privi anche di un solo barlume di coscienza di classe e, quindi, non sono in nessun modo in grado di offrire un punto di vista realmente critico sulla realtà costituita. Così dinanzi alle sue innegabili e stridenti contraddizioni l’unica alternativa possibile pare essere un ribellismo individualistico e anarchico, che porta la protagonista nella prima parte dell’opera a mirare unicamente al soddisfacimento del proprio piacere senza minimante tener conto, come nella presociale legge della giungla, delle conseguenze che tali attitudini possono avere sugli altri.
Come osservavamo, tale attitudine antisociale è certo spiegata, ma è al contempo in qualche modo resa necessaria dal contesto familiare e sociale disagiato in cui si realizza. Così lo spettatore che appartiene generalmente a un contesto socio-familiare più elevato finisce, un po’ come il regista, per essere portato a un’attitudine paternalista verso la giovanissima protagonista. Certo le sue azioni sono cattive dal punto di vista morale, sono legate a massime non universalizzabili, ma sono dovute a un contesto sociale distante dal nostro, che le determina. Dunque proviamo pietà e compassione per la protagonista, ma non tanto perché ci impersoniamo nelle sue vicende, in quanto potrebbero essere anche le nostre, ma perché le contempliamo dall’alto del nostro status sociale, culturale e familiare che ce le rende tutto sommato inoffensive. Per cui la tragedia della protagonista non provoca in noi reale terrore e la catarsi risulta in larga parte inefficace, non solo perché il suo destino ci resta del tutto estraneo, anche se ora arriviamo a capirlo, ma perché le sue prospettive, naturalisticamente schiacciate su due sottoproletari del tutto succubi all’ideologia dominante, che però nel film è quasi naturalizzata, hanno come progetto per altro del tutto utopista un orizzonte da borghese piccolo piccolo, che accetta tutte le sofferenze sociali sognando le vacanze utopisticamente nelle discoteche di Ibiza, più realisticamente in quelle di Rimini.
Ben altro è lo spessore della tragedia messa in scena nel film Tra la terra e il cielo; qui sebbene siamo in un mondo da noi distantissimo, rispetto alle location di casa nostra che sono lo sfondo di Fiore, i destini messi in scena ci appaiono molto meno estranei e molto meno esotici di quelli del sottoproletariato romano con cui siamo più o meno quotidianamente a contatto. Questo perché i personaggi pur appartenendo a un conteso molto specifico e molto distante dal nostro proprio in quanto tipici sono in grado di rendere il loro destino di interesse universale.
Tematiche come il surplus di repressione libidica che colpisce i giovani delle classi sociali maggiormente subalterne sono questioni che non possono che chiamarci in causa, come l’oppressione, lo sfruttamento e la violenza che subiscono i soggetti più deboli, all’interno del proletariato, ovvero le donne, i giovani e, ancora di più, i bambini. In tal caso il rapporto di oppressione è almeno raddoppiato perché allo sfruttamento economico e sociale operato dai gruppi sociali dominanti si aggiunge quello altrettanto pesante e rivoltante all’interno della famiglia patriarcale, dove i capifamiglia maschi sfruttati sono spinti dalla cultura dominate a rifarsi delle ingiustizie subite dai ceti sociali più elevati nella guerra fra poveri all’interno dello stesso ambito familiare.
Inoltre il film delinea bene come tali tragiche contraddizioni siano certo in primo luogo il prodotto di un contesto sociale ed economico fondato sullo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, del lavoratore manuale da parte del lavoratore intellettuale per conto di una oligarchia parassitaria, ma che tali ingiustizie strutturali sono naturalizzate ed eternizzate dalle corrispondenti sovrastrutture legate a una concezione tradizionalista e religiosa. Quest’ultima porta a giustificare teologicamente anche le più gravi e assurde ingiustizie e violenze sociali. Fondandole su una volontà divina, sui sacri principi della religione e della tradizione, ogni sorta di privilegio e di dominio, garantito dalla posizione che si ha nella piramide sociale e familiare viene giustificato e addirittura considerato conforme all’eticità tradizionalista dominante. Così finisce per essere considerato un nemico dei valori della religione e della tradizione, un essere antisociale da stigmatizzare e isolare, proprio chi subisce le ingiustizie e l’oppressione per il rango subalterno che gli è stato assegnato da un immutabile ordine divino nella gerarchia sociale e familiare.