In guerra

Un interessante film sulla più antica, decisiva e attuale delle guerre: la lotta di classe.


In guerra Credits: https://www.cinematografo.it/recensioni/en-guerre/

In guerra, del regista francese Stéphane Brizé, è innanzitutto un film decisamente in controtendenza rispetto al montante nazionalismo e sciovinismo. In un’epoca in cui si vorrebbe celebrare la prima guerra imperialistica mondiale come momento di grande unione interclassista in nome della propria patria, naturalmente in guerra con le altre, En guerre riporta l’attenzione sulla guerra più lunga e devastante, una guerra tutt’ora in pieno corso: la guerra di classe. Una guerra che nel mondo moderno vede contrapporsi essenzialmente due blocchi sociali, il primo egemonizzato dalla grande borghesia e il secondo che avrebbe dovuto essere egemonizzato dalla classe operaia. Mentre nel primo fronte – al di là delle mai sopite contraddizioni inter-imperialiste – l’egemonia della grande borghesia, cementata dall’imperialismo con la fusione di capitale industriale e bancario nel capitale finanziario, appariva fino all’esplosione dell’ultima crisi salda, nel secondo fronte non solo la classe operaia è rimasta sola, ma smarrendo progressivamente la coscienza di classe ha finito con il farsi sempre più sovente egemonizzare da intellettuali piccolo-borghesi socialdemocratici.

Nel film viene finalmente riportata al centro della scena la contraddizione fondamentale che porta necessariamente a confliggere, in primo luogo, il capitale finanziario con il proletariato moderno incarnato in primis nella classe operaia. D’altra parte la rappresentazione del conflitto è in parte distorta dal punto di vista dell’intellettuale socialdemocratico piccolo-borghese da cui è narrato. Così troppo spesso la cosa stessa, che costituisce il principale motivo di interesse del film, rischia di finire in secondo piano dinanzi alla mania tardo romantica del regista di far emergere costantemente la propria soggettività particolare. Così la fruizione del film e la stessa sostanzialità del plot sono costantemente disturbati dal manierismo alla Dardenne del regista che, confondendo realismo e naturalismo, finisce per compromettere la forma della rappresentazione. Il film è girato come se si trattasse di un reportage fatto da registi semidilettanti che vorrebbero riprendere in diretta la vita stessa della guerra di classe. In tal modo si rischia di perdere sia il godimento estetico, che l’opera d’arte dovrebbe garantire – tanto che a tratti ci si annoia – sia il necessario effetto di straniamento che dovrebbe favorire l’effetto catartico del film, portando il pubblico a riflettere con la propria testa sulla tragedia cui assiste, senza essere costretto ad assumere la prospettiva necessariamente unilaterale del protagonista.

Tanto più che il protagonista è interpretato da un vero e proprio mattatore: Vincent Lindon, che seguendo in todo il metodo Stanislavskij, non solo costringe lo spettatore a impersonarsi nel suo personaggio, ma mette quest’ultimo a tal punto al centro della rappresentazione che tutti gli altri personaggi finiscono con l’apparire degli sparring partner. Così la guerra di classe finisce quasi per trasformarsi in una questione personale del titanico protagonista che, novello cavaliere della virtù, con tratti donchisciotteschi, si batte in modo in ultima istanza velleitario contro una schiera di uomini del corso del mondo, che combattono sotto l’egida del pensiero unico liberista. Al punto che al nostro supereroe, con tratti superomistici, non resta che immolarsi per la causa, con risultati necessariamente grami. In tal modo si perde di vista quasi del tutto l’aspetto determinante della lotta di classe condotta dal basso dai lavoratori, ossia il superamento del soggettivismo anarchico e piccolo borghese, per consolidare coscienza di classe e organizzazione.

D’altra parte l’“alternativa”, da lieto fine hollywoodiano, che ci lascia come prospettiva il regista rischia di essere una medicina più tossica del male che intende curare. Vi è infatti la tendenza,così forte nella piccola borghesia francese, di trasmutare persino la guerra fra proletariato moderno e capitale finanziario in una possibile pace sociale garantita dalla sostituzione del padrone cattivo, tedesco, che pensa solo al profitto, con un padrone buono, naturalmente francese, pronto a farsi carico della fabbrica senza licenziare i lavoratori. Con l’aggravante di un governo Macron a fare da arbitro, costretto dal suo ruolo a essere super partes, anche se in fondo parteggerebbe con i lavoratori francesi di contro al padrone tedesco.

In tal modo, nonostante l’intento di riportare l’attenzione sulla più importante guerra in atto da millenni – dalla cui sorte dipende il futuro stesso dell’umanità, la sopravvivenza stessa tanto della civiltà quanto dell’habitat naturale necessario alla vita dell’uomo sulla terra – ad avere la meglio alla fine sembra essere il mefitico spirito dei tempi, tempi di restaurazione liberal-nazionalista. Da una parte c’è il dogma, la legge oggettiva, naturale, del libero mercato, dall’altra la soluzione nazionalista piccolo borghese, che non può che rinviare, per quanto in modo in questo caso del tutto inconsapevole, a una riedizione del socialismo nazionale o nazionalsocialismo.

Tanto più che al centro del conflitto non c’è il modo di produzione, dandosi per scontato quello capitalistico, e neanche la lotta per il salario sociale, o per la diminuzione dell’orario e dei ritmi dello sfruttamento, ma la pura e semplice difesa del posto di lavoro. Come se il problema dei lavoratori fosse appunto di avere un posto di lavoro dove essere sfruttati dai padroni, a prescindere dal salario, dagli orari, dai ritmi e dalle condizioni di sfruttamento. Al punto che tutto il conflitto ruota intorno a un patto d’onore, a un contratto, che aveva garantito la pace sociale fra sfruttati e sfruttatori, in cui questi ultimi si impegnavano a non delocalizzare la produzione per cinque anni se i lavoratori avessero aumentato la produttività, con tagli al salario e conseguente aumento dell’orario di lavoro necessario per raggiungere un salario sufficiente a garantire la riproduzione della forza-lavoro.

Naturalmente sono i proletari, egemonizzati dalla visione del mondo piccolo borghese, a considerare sacro e inviolabile il contratto, mentre il padronato, appena non è più funzionale all’aumento di sfruttamento e profitti, è immediatamente pronto a considerarlo carta straccia. A ulteriore dimostrazione che l’usuale ricatto utilizzato dal padronato, per massimizzare lo sfruttamento della forza-lavoro, ovvero il ricatto della delocalizzazione della produzione è una tigre di carta, dal momento che il padronato naturalmente delocalizza o investe altrove non appena gli conviene, ossia non appena spera di ottenere un aumento dei profitti.

Certo tutti questi aspetti rappresentati nel film non sono purtroppo prodotto della fantasia – anzi l’unico intervento di quest’ultima concerne la determinazione alla lotta fino all’estremo sacrificio dell’avanguardia della classe operaia – ma ciò non significa naturalmente che per il solo fatto di esistere sono razionali, necessari e giusti. Al contrario la prospettiva naturalista del film tende a farceli considerare normali, se non addirittura naturali. Appare così naturale, ad esempio, che normalmente la lotta di classe viene condotta in modo unilaterale dall’alto dai padroni, che riducono i salari, aumentano l’orario di lavoro, massimizzano con lo sfruttamento i profitti. Altrettanto necessario appare che i lavoratori inizino a fare la loro parte nella lotta di classe, solo nel momento in cui rischiano di perdere la loro stessa identità di lavoratori-sfruttati, per precipitare nel sottoproletariato costretto a vivere di espedienti.

Allo stesso modo sembra darsi per scontato che la lotta condotta dagli sfruttati non possa elevarsi dal suo livello più basso e immediato, la lotta sindacale in difesa dei posti di lavoro di una singola impresa. La completa spoliticizzazione dei lavoratori in lotta appare un mero dato di fatto. Questo sembra rendere necessario, per avere un lieto fine in questa disperata lotta per continuare a farsi sfruttare, la soluzione del tutto irrealistica, con il deus ex machina del padrone buono, che per amore dei lavoratori del proprio paese è pronto a investire senza seguire la logica del profitto. Altrimenti per i lavoratori non resterebbe che portare avanti una disperata lotta, che rischia di cadere o nell’avventurismo con l’aggressione fisica del padrone “straniero” che non accetta la concertazione, o nella individualistica soluzione, quasi religiosa, del gesto estremo dell’auto immolazione.

Dopo aver insistito anche troppo e in modo decisamente unilaterale sui limiti del film, occorre impiegare queste ultime righe per ribadire che si tratta comunque, in questi tempi oscuri, di un film importante, da vedere e da consigliare. In primo luogo perché affronta tematiche sostanziali: la decisiva tragedia universale della lotta di classe – quale unico motore della storia in una società divisa in classi – e la forma specifica che assume nella nostra epoca. In secondo luogo perché lascia molto da riflettere allo spettatore, innanzitutto sul fatto che le assolutamente spietate logiche del profitto, all’interno del modo di produzione capitalistico, assumono la valenza di vere e proprie leggi di natura. Per cui vi è una parte della forza lavoro così ben pagata da passare dall’altra parte della barricata, proprio perché porta avanti, con tutti i mezzi necessari, il pensiero unico dominante, in cui ciò che conta è attrarre investitori, ovvero speculatori che mirano a massimizzare i propri profitti individuali costringendo a una terribile concorrenza al ribasso i reali produttori, ovvero i lavoratori di tutto il mondo.

In terzo luogo il film mostra come il capitale finanziario tenda a continuare a vincere la fase attuale di questa millenaria guerra di classe, perché ha una visione mondiale dei propri obiettivi ed è pronto a spostarsi dove il fronte del lavoro è più debole e, quindi, più sfruttabile, con la complicità della stragrande maggioranza dei governi “democratici” che, per mantenere il loro consenso populistico, fanno a gara ad offrire le condizioni più favorevoli agli investitori di tutto il mondo. Al contrario i lavoratori, a causa in primo luogo dei sindacati neocorporativi, non riescono nemmeno a costruire un fronte compatto nel singolo luogo di lavoro. Inoltre, non avendo una visione globale della questione, non intuiscono neppure di dover cercare un’alleanza sul piano internazionale con gli sfruttati di tutti il mondo.

01/12/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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