È stato da poco pubblicato un importante volume del professor Azzarà, nel quale l'autore si propone di analizzare il modo con cui il mondo intellettuale occidentale ha reagito alla gestione della pandemia da Covid-19, cercando in ogni modo di occultare gli errori e in ogni caso mantenendo ferma l’idea che la gestione della pandemia fatta propria da diversi paesi asiatici, prima tra tutti la Cina, fosse comunque sbagliata, perché eccessivamente “autoritaria”.
Il libro è diviso in tre parti. La prima è volta ad analizzare come abbia reagito l’Occidente alla crisi pandemica da Covid-19. Inizialmente l’atteggiamento prevalente è stato di sottovalutazione del rischio, convinti che la pandemia avrebbe riguardato unicamente la Cina, o al massimo il continente asiatico, ma non avrebbe in nessun caso scalfito l’Occidente, se non marginalmente. Da qui la totale mancanza di una strategia sulla gestione del virus, lasciando inizialmente tutto aperto e sperando che bastasse isolare chi proveniva dalla Cina o chi avesse avuto contatti con essa per risolvere il problema. Nel frattempo il modello di Wuhan, epicentro del primo scoppio pandemico, con la chiusura pressoché integrale dell’area interessata dal contagio, unita a tracciamenti e tamponi di massa, veniva additata come propria di paesi autoritari o vere e proprie dittature, non potendo essere replicabili nel “libero” Occidente. I paesi occidentali si sono presto trovati però a far fronte a un’ondata molto forte di contagi, non avendo strumenti né personale adeguato per questa situazione, avendo nel corso degli ultimi decenni tagliato fortemente i fondi destinati alla Sanità, adottando politiche di riduzione della spesa pubblica. E proprio il sistema sanitario è stato il convitato di pietra di questa fase, con i medici e gli infermieri assurti ad eroi, ma solo il tempo necessario per nascondere i tagli e i turni massacranti a cui sono sottoposti. Dal punto di vista teorico la gestione della pandemia ha posto il tema dello Stato di eccezione come possibilità necessaria per contenere la pandemia, ma al tempo stesso ha messo i liberali nostrani di fronte alla scelta di dover rinunciare, almeno temporaneamente, ad alcune libertà, al fine di tutelare la salute, che nel sistema economico in cui siamo inseriti rappresenta, come tutto, un costo. La “sfida” cinese nella gestione non poteva in nessun modo essere colta dall’Occidente, perché ciò avrebbe significato mettere in discussione la propria superiorità, vera o presunta che fosse. L’idea che esista un’altra forma di democrazia, socialista, basata sulla pianificazione e sulla mediazione tra Stato e mercato e non nella subordinazione del primo al secondo, non è semplicemente ammessa; è proprio dall’incapacità di comprendere quest’altro punto di vista che emergono per l’autore le difficoltà le particolarità del modello di democrazia cinese. Non a caso il primo capitolo del volume si conclude con un’analisi del concetto di Tianxia, “via del cielo”, che in luogo della sottomissione richiesta dall’imperialismo determina un modello egemonico nel senso gramsciano del termine di cooperazione internazionale tra paesi diversi come modelli e sviluppo, ma non necessariamente contrapposti.
Nella seconda parte del volume si analizza invece come abbiano reagito i filosofi occidentali alla gestione del virus, concentrandosi inizialmente sull’analisi fatta dal foucultiano Agamben. Egli, nell’affermare che tale gestione della pandemia sia volta a creare un panico generalizzato nella popolazione e a “disciplinarla” meglio, riprende le argomentazioni biopolitiche del suo maestro, individuando nello stato d’eccezione richiesto dalla gestione della pandemia l’ennesimo tentativo di soffocare le libertà individuali, facendo seguito a una tradizione che affonda le radici addirittura nel diritto romano. Così però Agamben trascura le differenze tra le diverse esperienze storiche che analizza, presentando unicamente la contraddizione tra Stato e cittadini, tra la nuda vita creata dalla repressione statale e la vita autentica. Già Zagrebelsky per esempio notava come fosse necessario distinguere tra una repressione in stile cileno all’epoca della dittatura di Pinochet e misure limitative delle libertà personali, per tutelare però il diritto alla salute.
In ogni caso Azzarà non si limita a sottolineare le aporie e i limiti del testo di Agamben, ma si propone di evidenziare anche gli elementi di verità che sono presenti in tale discorso, soprattutto per quanto concerne quello che sarà il dopo della pandemia, con il possibile mantenimento della Dad e del ricorso massiccio allo smart working per ridurre i costi nel pubblico impiego e aumentare la produttività dei dipendenti pubblici. Anche il passato è degno di interesse per l’analisi dell'autore, che riporta all’attenzione i tagli massicci apportati alla sanità a partire dell’inizio degli anni Novanta contemporaneamente alla sua aziendalizzazione, e il processo di accentramento dei poteri nelle mani del dirigente scolastico nell’ambito educativo, mentre si proponeva un processo didattico fondato non più sulle conoscenze e il pensiero critico, ma sulle effimere competenze, funzionali a un ingresso in forma subordinata nel mercato del lavoro. Se il virus dovrebbe rappresentare l’occasione per ripensare il nostro modello di sviluppo, il rischio forte è però per Azzarà che, in assenza di conflitto, si rafforzino tendenze già in atto volte a concentrare ancora di più la ricchezza e il potere nelle mani di strati sempre più ristretti della popolazione. Ne sono esempio i reiterati appelli del presidente della Confindustria Bonomi per sbloccare il prima possibile i licenziamenti e gli editoriali dei principali giornali della borghesia italiana, che chiedono l’intervento dello Stato solamente a sostegno delle imprese, senza contropartite sul piano occupazionale o degli investimenti.
La terza e ultima parte invece riguarda l’analisi del ruolo che dovrebbe avere lo Stato nel futuro postpandemico; Azzarà evidenzia inizialmente come un semplice aumento della presenza dello Stato non garantisca nulla in termini di miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice, infatti senza conflitto sociale sarà con ogni probabilità costretta a farsi carico dei costi della crisi. L’ipotesi di Jones e Brennan è quella di un aumento del ruolo dello Stato, ma in una direzione epistocratica con la riduzione progressiva del ruolo del suffraggio universale; mentre quella di Milanovic parte dall’affermazione della totale presa sul mondo del capitalismo, ormai assurto a unico sistema mondiale, visto che la stessa Cina sarebbe un paese pienamente capitalista. In questi diversi punti di vista liberali emerge per l’autore l'idea della piena riscossa delle classi dominanti, a cui questi autori cercano di dare giustificazioni teoriche. Un’altra ipotesi opposta, almeno a parole, a quella liberale, è quella sovranista-comunitarista di autori come Zhok. Egli, nel sottolineare l’impoverimento etico-morale provocato dal prevalere dello scambio su tutti gli ambiti della vita umana, ritiene che uno dei principali problemi di quest’impostazione sia stata la rottura dei legami millenari della comunità umana. In questo senso sarebbe necessario conciliare il mercato con una visione apologetica del passato, in cui gli uomini avevano il loro posto nella comunità e le donne nella coppia. Niente di più lontano dall’emancipazione umana proposta da Marx ed Engels e ripresa dall’autore, che nel denunciare i limiti del capitalismo non hanno mai guardato indietro verso un passato bucolicamente inteso come positivo, ma un futuro in cui la tecnologia e i risultati della modernità siano usati a favore di tutta l’umanità e non solo di una ristretta fascia di essa. La direzione teorica intrapresa è quella di una società che la finanza avrebbe diviso nettamente tra una ristretta maggioranza di individui e il resto della società, dissolvendo le differenze di classe e rendendo possibile anche eliminare la dicotomia tra destra e sinistra. La tesi finale sarebbe l’ennesima riproposizione del fronte anticapitalista, che superando gli steccati tra destra e sinistra, porti la sinistra a diventare di destra.
Viceversa per Azzarà né il sovranismo particolarista né l’universalismo liberale riescono a dare una spiegazione risolutiva. Si tratterebbe piuttosto di ricreare una democrazia moderna, dando il giusto valore alla partecipazione del popolo, inteso come unione degli appartenenti alla classe lavoratrice, giuridicamente indipendenti ma sostanzialmente subordinati, attraverso la ripresa generale del conflitto, unica possibilità per ricreare un equilibrio più avanzato. I tempi dell’operazione dovranno essere necessariamente lunghi, e l’autore sottolinea l’importanza di un lavoro di lunga lena sulla coscienza della classe lavoratrice, dopo decenni di attacco da parte dell’ideologia dominante liberale.
In conclusione ci sentiamo di consigliare vivamente la lettura di questo testo a tutti coloro vogliano approfondire dal punto di vista teorico la gestione della pandemia da Covid-19 da parte dei paesi occidentali, il rapporto con il modello socialista cinese, i possibili scenari dal punto di vista nazionale e internazionale e le prospettive per una reale emancipazione della classe lavoratrice.